di Carlo Alberto Biggini
EDITO A CURA
DELL’UFFICIO STAMPA DELLA FEDERAZIONE FASCISTA REPUBBLICANA
DI PADOVA
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Dal “Corriere della Sera„
Martedì 16, Venerdi 19 Gennaio 1945-XXIII
N. 14 e 17
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PADOVA
31 Gennaio 1945-XXIII
Dopo oltre cinque anni dall’origine del secondo conflitto mondiale, si fa sempre più profondo il bisogno di riproporsi il problema di questa guerra e delle sue più remote finalità. L’attuale conflitto si differenzia da ogni altro che la storia ricorda non soltanto per l’estensione a tutto il globo terracqueo, ma anche, e soprattutto, per due nuovi fattori politici e ideologici che ne segnano la caratteristica fondamentale: il rapporto tra occidente e oriente e quello tra democrazia, bolscevismo e fascismo.
Quando il conflitto scoppiò, nell’estate del 1939, ci si poteva illudere ch’esso sarebbe rimasto nei limiti di una guerra europea, per la supremazia dell’Inghilterra e della Germania, e si poteva guardare ad esso da questo ristretto punto di vista, schierandosi dall’una o dall’altra parte. Vero è che fin d’allora i presupposti ideologici dei contendenti valevano a dare una particolare fisionomia alla guerra, inducendo a proclamare il contrasto dei regimi politici come il motivo determinante di essa, ma si poteva, tuttavia continuare a pensare che, dietro l’apparente veste ideologica, il problema fosse rimasto essenzialmente nei termini del 1914. Ora non più: ora questo problema, se anche continua a sussistere in quei termini, è affatto trasvalutato dai più grandi problemi tra i quali si è trovato inserito e sollecita un nuovo e più profondo esame. Dobbiamo, insomma, liberarci delle molte concezioni e idee con le quali siamo entrati in questa seconda guerra mondiale, anche perchè i punti di partenza di essa poggiano in parte ancora su la precedente epoca storica, come la politica di equilibrio europeo, il nazionalismo, l’internazionalismo, ossia sui sistemi e concetti politici derivati direttamente dalla rivoluzione francese.
Contemporaneamente alla lotta dei popoli si combatte entro ciascun popolo una lotta sociale; le vecchie classi dirigenti, basandosi su un’epoca tramontata, vogliono mantenere privilegi e potenza. Questo spiega, in parte, i numerosi tradimenti avvenuti, durante il corso di questa guerra.
Gli Anglo-Americani non hanno certo intrapreso la guerra con la volontà di aiutare o « liberare » un qualunque popolo dell’occidente europeo, ma perchè si vedevano minacciati dall’avvento di una nuova epoca, quale veniva esprimendosi in Italia e in Germania con più forza e consapevolezza che altrove. Perciò nel giudicare la guerra attuale non dobbiamo attenerci all’ingannevole apparenza, ma all’intimo contenuto della rivoluzione in corso.
Dalla Santa Alleanza, che sorge particolarmente per combattere le idee dell’89, le quali, nonostante tutto, continuano ad agire come potenti forze spirituali e mutano il volto dell’Europa, fino alla caduta dell’impero Asburgico, in tutto questo periodo nessuna idea contrasta sostanzialmente quella della rivoluzione francese, ma sono piuttosto una concezione e una forma di vita, la vita liberale, e una tradizione ancora tenacemente l’adirata, che si esauriscono a poco a poco.
Durante tutto il corso della prima guerra mondiale non si è, certamente combattuto per il trionfo di un’idea: se una nuova idea è nata, essa è nata soltanto da quella guerra, dopo quella guerra.
Desiderando stare più aderenti al significato del conflitto attuale, è certo che il 1941 ha segnato una svolta decisiva nella storia di esso conflitto e ancora si stenta ad avere coscienza della trasformazione radicale di tutte le premesse e di tutte le finalità. Ma, via via che la coscienza della trasformazione si afferma, ci si accorge del pericolo segnato dalla forza d’inerzia, che induce a continuare nella via intrapresa, senza avere la sufficiente elasticità mentale per adeguarsi alla nuova situazione e per comprenderne il nuovo significato. E il contrasto tra il vecchio e il nuovo, tra le finalità di partenza e quelle attuali, tra i conflitti parziali e il sistema di essi, ha ormai assunto tali proporzioni da poter apparire il conflitto come un gigantesco evento che trascina i popoli al di là di ogni previsione e di ogni effettiva consapevolezza.
Ora, è su questo profondo mutamento del significato del conflitto mondiale che gli uomini di cultura italiani devono sentire il bisogno di concentrare tutta la loro attenzione, con la spregiudicatezza e la serenità necessarie per capire di più e meglio lottare. Ed è anche chiaro come essi, a causa del ben più ampio punto di vista dal quale vogliono porsi, non possano non augurarsi un atteggiamento simile da parte degli uomini di cultura di tutto il mondo, con la speranza di eguale spregiudicatezza e serenità.
Dei due nuovi fattori che sono stati indicati come caratteristici del conflitto e cioè il rapporto tra occidente e oriente e quello tra democrazia, bolscevismo e fascismo, la prima revisione, che molti occorre che facciano per facilitare l’ulteriore cammino, riguarda pro prio il « Fascismo » e cioè l’ideologia politica in nome della quale il mondo ha preso le armi.
Oggi il Fascismo, dopo venticinque anni di vita dalla riunione di piazza San Sepolcro, si trova ancora di fronte al bolscevismo, ma si trova, inoltre, direttamente impegnato contro la democrazia. Vorremmo dire, tra oriente e occidente. Ed è proprio questa situazione di fatto nel conflitto che vale a chiarire l’intima natura del Fascismo e della rivoluzione politica e sociale ch’esso rappresenta.
Il Fascismo ha avuto sempre questo volto bifronte e tutta la sua storia si comprende davvero solo quando si approfondisca la duplice esigenza informatrice e il conseguente bisogno di sintesi.
Nella sua storia interna, il Fascismo, sorto dalla lotta contro il disordine, fu sostenuto dalla borghesia e apparve movimento di reazione borghese. E da que sto punto di vista è stato giudicato da tanti, anche dopo l’8 settembre 1943. Ma il movimento assunse ben presto una diversa fisionomia e, se di reazione si volle continuare a parlare, bisognò pure riconoscere l’affermarsi di una tecnica di governo, la cui caratteristica fondamen tale è il così detto totalitarismo. Cominciò, in altri termini, un processo di statilizzazione, che a poco a poco ha investito tutta la vita politica e sociale, preparando l’inevitabile processo di unificazione delle classi sociali. Sì che, a poco a poco, se si è voluto continuare nell’opposizione contro il Fascismo e contro il Corporativismo, l’opposizione stessa si è venuta scindendo in due estremi significativi.
Da una parte infatti, è continuata l’accusa di borghesismo e di capitalismo, e nella fine della lotta di classe si è visto il soffocamento del proletariato; da un’altra parte, invece, è esploso il vecchio liberalismo borghese denunciando lo statilismo del Fascismo e riconoscendo in esso un’affinità sostanziale con il bolscevismo. Significativi estremi che inducono ormai, ogni volta che ci si trova di fronte a un antifascista, a chiedere un’ulteriore precisazione: liberale o comunista? Volete dunque voi, antifascisti, un regime politico in cui si smontila macchina statale, che ha disciplinato tutta la vita economica, sottraendola alla libera concorrenza, e ha disciplinato tutta la vita politica, gerarchizzandola? Volete la fine del principio gerarchico e della unicità del comando politico per riportare la lotta politica sul piano dell’ugualitarismo democratico? O volete, invece, la fine di ogni residuo borghese, uno statalismo di ferro atto a frantumare ogni ulteriore velleità del privato, la subordinazione assoluta dell’individuo all’organismo politico, la dittatura ad oltranza e la minaccia continua dell’esecuzione capitale? Liberali o comunisti? Ma, alla domanda, gli antifascisti rispondono ponendosi a destra e a sinistra, dimostrando per ciò stesso, con palmare evidenza, che il problema politico dell’oggi è appunto quello del rapporto tra liberalismo e comuniimsmo, vale a dire quello di cui il Fascismo rappresenta il primo geniale tentativo di soluzione. Al posto della destra contro la sinistra e della sinistra contro la destra si forma una nuova posizione politico-sociale, che è contemporaneamente di destra e di sinistra.
Eguale destino ha avuto il Fascismo nella sua storia esterna. Da una parte, le democrazie, scandalizzate dell’autoritarismo, della fine della libertà, dello statalismo, dell’autarchia; dall’altra, il bolscevismo, che nel Fascismo ha ravvisato un regime borghese e capitalistico, anzi il più borghese e il più capitalistico di tutti i regimi. E, come all’interno liberali e comunisti hanno di comune soltanto l’antifascismo, così all’esterno democrazia e bolscevismo si son trovati insieme soltanto in funzione di antifascismo. Ma, se sul piano interno e su quello intemazionale il Fascismo fosse abbattuto, quale sarebbe il domani? La risposta a questa domanda comincia ormai a diventare evidente, perchè alla fine del Fascismo non potrebbe succedere che il rinnovato scontro di liberalismo e comuniSmo, e quindi un nuovo fatale Fascismo.
Questa la ragione per cui i tempi sono maturi affinchè gli uomini, anche gli avversari, compiano una revisione del problema del Fascismo.
La necessità del suo avvento è già sentita sul piano mondiale e il processo della guerra accelera il movimento della conversione ideologica e politica. La stessa alleanza delle democrazie e del bolscevismo conduce fatalmente al ravvicinamento dei due estremi in una qualche forma di Fascismo. Ecco l’autoritarismo e la dittatura affermarsi sempre più in Inghilterra e in America, ecco la macchina statale stringere progressivamente l’iniziativa privata, ecco il problema sociale imporsi e i vari piani tipo Beveridge echeggiare i motivi della legislazione fascista. E, insieme a questa trasformazione, il bisogno di attribuire alla Russia un’evoluzione in senso opposto, verso una maggiore libertà e verso un ritorno a esigenze individuali, finora compresse o soffocate. Ancora contro il Fascismo, dunque, ma assumendone sempre più il problema e avvicinandosi alle sue soluzioni. Ancora contro il Fascismo, ma, nonostante tutto, per il Fascismo. Il Fascismo ha già vinto la guerra, perchè ha vinto sul piano rivoluzionario.
Gli è che il Fascismo prima di ogni altra ideologia politica, ha compreso che il problema veramente rivoluzionario era quello della sintesi di liberalismo e socialismo, e che vano è ormai ogni altro tentativo politico che voglia affermarsi trascurando uno dei due bisogni essenziali dell’attuale vita politica: il riconoscimento della personalità dell’individuo e un’effettiva soluzione del problema sociale. Democrazie e bolscevismo hanno finora compreso uno solo dei due bisogni e non ne hanno perciò compreso sul serio nessuno.
Ma, se il principio informatore del Fascismo è già divenuto esigenza più o meno consapevole di ogni altro regime politico, sì da consentire la previsione del suo generalizzarsi, un’obiezione fondamentale si sente spesso muovere contro di esso, ed è quella che concerne il modo col quale il principio è stato tradotto nella realta. Allora non si nega più l’esigenza dal Fascismo espresas, ma si continua a negare che il Fascismo abbia saputa assolvere il compito propostosi e si insiste sulla necessità di perseguire lo stesso intento per altra via, e in maniera ben altrimenti efficace. Allora nel Fascismo si vede non la sintesi ma il misconoscimento di liberalismo e socialismo, un ibrido connubio, cioè, in cui sono mortificate le esigenze dell’uno e dell’altro ideale, senza alcun risultato di carattere positivo. E allora, pur ponendosi sullo stesso piano del Fascismo, si comincia a suggerire qua e là la ricetta di una più vera e comprensiva sintesi, in cui si salvi il meglio dei due regimi opposti e se ne rinneghino i difetti e i limiti. Non più Fascismo, dunque, nè Corporativismo, ma un altro nome qualunque, che sia esso a designare quel principio politico e sociale che il Fascismo non avrebbe saputo attuare.
Ora, a nessun fascista sincero può venire in mente di negare un qualche fondamento, almeno fino all’8 settembre, a questa obiezione, ed anzi l’obiezione stessa è nata e continua a nascere prima che in altri proprio nei fascisti più consapevoli. Essa costituisce, infatti, per quel tanto che è giustificata, l’intema forza di propulsione del movimento rivoluzionario, lo stimolo per la continua revisione di se stesso, l’insoddisfazione che è feconda di miglioramenti anche radicali. Il Fascismo per quanto possa vantare una storia lunga e creatrice non è che all’inizio del suo cammino e ben altri passi dovrà compiere prima che il suo ideale possa dirsi purificato dalle scorie che lo hanno compromesso nel passato e che volentieri tenterebbero di comprometterlo ancora. Il Fascismo perciò rivendica a se stesso il diritto e il dovere di farsi lui questa obiezione e di poggiare su di essa le speranze e la volontà dell’avvenire. Il Fascismo conosce le sue insufficienze, i pericoli che incombono su di esso, la distanza che ancora lo separa del fine proposto; conosce le forze che ne hanno spesso reso faticoso e ambiguo il rammino; ha conosciuto, soprattutto, la resistenza attiva e passiva, interna e esterna, che lo ha alterato e sfibrato. Tutto epiesto conosce e si confessa il Fascismo, ma, appunto per questo, nega con tutte le sue forze che l’obiezione possa essere pronunciata da altri che fascisti non siano. Perchè il Fascismo non è una astratta ideologia che possa giudicarsi sul piano delle astrazioni, non è un’utopia che possa aspirare alla perfezione di una logica formale, ma è un movimento politico che si inserisce e opera in una determinata realtà storica e non può prescindere da essa. Sì che autorizzati all’obiezione potrebbero essere soltanto i partecipi di un altro movimento politico che avesse saputo tradurre nella realtà lo stesso principio ideale evitando gli errori del Fascismo. E’ troppo facile stabilire in una carta o nella formulazione di alcuni punti un ideale politico proiettato nel futuro, di cui si rinvia al dopoguerra il concreto inizio.
Troppo facile contrapporre a una difficile prassi una perfezione soltanto teorica. A una siffatta pretesa il Fascismo risponde denunciando gli attuali catoni come i veri responsabili degli aspetti negativi del Fascismo. E non soltanto, si comprenda bene, i catoni interni che, rifugiandosi nel passato, hanno creduto di poter straniarsi dal Fascismo depauperandolo della propria esperienza e contribuendo direttamente o indirettamente alle sue deviazioni; ma anche, e soprattutto, i catoni esterni che con la loro venticinquennale incomprensione hanno sino al 25 luglio costretto il Fascismo a irrigidimenti e reazione di cui ora tutti pagano le conseguenze e soprattutto l’intera nazione. Sono state le forze reazionarie di dentro e di fuori che nell’asprezza della polemica, nel sordo ostruzionismo, nell’alterazione più o meno cosciente dei fatti, hanno giorno per giorno attentato alla vita del Fascismo e hanno cercato di logorarlo intellettualmente e moralmente. Ma ora costoro invano rivendicano il diritto di contrapporre al Fascismo un altro ipotetico regime, che del Fascismo abbia la stessa ragion di essere pur non avendone le imperfezioni. Essi non possono contrapporre realtà a realtà e non possono quindi garantire la bontà di un futuro di cui si sono mostrati radicalmente incapaci per il passato.
Quando dalla parola i nostri censori vorranno passare ai fatti si accorgeranno che la purezza dei loro ideali dovrà intorbidarsi alla stessa maniera e per le stesse ragioni che hanno caratterizzato il cammino del Fascismo. Sì che alla previsione di un estendersi del Fascismo nel dopoguerra possiamo aggiungere l’altrettanto facile previsione di un Fascismo con le negatività del nostro e forse anche peggiore del nostro. E peggiore, si comprende, proprio perchè venuto in ritardo, e cioè là dove le forze reazionarie sono più potenti e più radicate che non da noi, dove gli ostacoli e le deviazioni saranno più gravi. Peggiore, soprattutto, perchè più grave che non da noi è il fenomeno del capitalismo e perchè più grave sarà lo scontro tra borghesia e proletariato dopo un altro periodo di maturazione politica delle masse.
La maggior negatività del Fascismo straniero di fronte a quello italiano riguarderà naturalmente il principio fondamentale di ogni vita politica: il principio della libertà. Ora, è proprio in rapporto all’idea di libertà che il Fascismo viene più frequentemente osteggiato ed è proprio guardando ad essa che si auspica un regime politico che vada oltre il Fascismo.
Se non che, anche sotto questo riguardo, il Fascismo non può accettare la lezione che si pretende di impartirgli contrapponendogli la difesa di alcune libertà fondamentali o di alcuni diritti di libertà. Non può accettarla perchè essa proviene da chi ha dato prova di non saper comprendere il più grande dei diritti di libertà: il diritto al lavoro. E questo semplice diritto vale a porre in termini essenzialmente nuovi il problema della libertà, che i non fascisti si illudono di poter conservare nei termini tradizionali, sia pure con qualche aggiunta e qualche concessione al proletariato.
La borghesia deve ormai comprendere il significato della rivoluzione sociale e politica in atto e deve riconoscere che unificare le classi significa unificare le libertà delle classi. Ma, fino a quando essa insisterà a non prendere atto della libertà cui tende il proletariato, non avrà la possibilità di comprendere la differenza che corre tra libertà e privilegio, tra diritto e arbitrio. Due classi vogliono dire due gradi di libertà, e cioè propriamente privilegio e schiavitù: voler difendere oggi la libertà mantenendo la distinzione delle classi sociali significa soltanto retorica e malafede.
Ma come si unificano le classi e i loro diritti di libertà? Evidentemente, se si tratta di due gradi distinti quantitativamente e qualitativamente, occorrono una rinunzia e una trasformazione più o meno grande di una classe a favore dell’altra. La classe borghese, cioè, deve perdere quel tanto della sua libertà che costituisce il suo privilegio e deve attendersi un mutamento della vita in funzione dei bisogni di massa. Se di questa necessità riesce a convincersi, collabora all’unificazione col minimo sacrificio possibile; se, invece, non riesce, non può non piagnucolare impotente sulle libertà conculcate e non rendere più grave e più distruttivo il periodo di transizione.
Ora, tutte le proteste che all’interno e all’estero si levano contro l’offesa alla libertà segnata dal Fascismo sono fondamentalmente dovute all’incomprensione del suo significato, e, quanto più grande è l’incomprensione, tanto più forte diventa il bisogno rivoluzionario di reagire e di accentuare il contrasto. Ne viene di conseguenza che lo sforzo del Fascismo di unificare le classi è costretto a svolgersi sempre più nel senso di sacrificare i valori tradizionali alle necessità delle nuove esigenze.
E’ di questa necessità storica che il liberalismo deve convincersi di fronte al Fascismo. Andare incontro alla libertà delle masse non significa, come crede o finge di credere il vecchio liberale, concedere alle masse i diritti di libertà della borghesia, bensì concedere, in via preliminare e come presupposto di ogni altra libertà, il diritto al lavoro e la parità delle posizioni iniziali per la lotta della vita. Il quale presupposto implica tutta un’altra serie di presupposti che si chiamano economia programmatica, indipendenza economica della nazione, vincolo dell’iniziativa privata, trasformazione del diritto di proprietà e, sul piano internazionale, ridistribuzione delle ricchezze del mondo. Se di fronte a queste necessità la borghesia nazionale e internazionale dà prova di intelligenza e di collaborazione, il processo rivoluzionario può compiersi con relativa tranquillità; se, al contrario, la borghesia reagisce irrigidendosi nella propria posizione di privilegio, divengono fatali l’urto, la violenza, la mediazione autoritaria dell’arbitro. Così è nato l’autoritarismo fascista, e, se di esso i nostri avversari volessero indicare il vero responsabile, non potrebbero che individuarlo nella mentalità anacronistica del liberale.
Ma l’autoritarismo, poi, ha anche un’altra funzione tecnica transitoriamente insostituibile. Per comprenderla basta guardare alle necessità del tempo di guerra, della così detta bardatura bellica. Allora tutti avvertono il bisogno dei pieni poteri, la mano forte che unifichi gli sforzi per il raggiungimento del fine comune; allora nessuno sente di dover protestare contro le limitazioni imposte dall’organismo statale.
Ebbene, una rivoluzione ha le stesse esigenze di una guerra e non può compiersi sul serio senza un’eccezionale forma di disciplina. Il nuovo regime politico non può sorgere a un tratto, immediatamente adagiandosi nella forma di un’ordinaria amministrazione. Esso ha bisogno di un centro unificatore che caratterizzi il periodo di transizione, durante il quale la scienza e la vita andranno costruendo i nuovi istituti politici atti a rendere organica quella unificazione delle classi che non può materialmente e spiritualmente instaurarsi senza un adeguato processo di maturazione.
Ecco perchè l’autoritarismo ha caratterizzato, sia pure in forme diverse per la diversità delle singole condizioni storiche, tutti i nuovi regimi rivoluzionari, dal bolscevismo al fascismo, al nazismo, al falangismo, dei Paesi grandi e di quelli minori, fino alla Turchia, alla Romania al Portogallo. Ma ecco soprattutto perchè l’autoritarismo è alle porte, e più che alle porte, delle grandi democrazie, che fino a ieri irridevano alle forme politiche del Fascismo. Il problema sociale non può più essere trascurato o lasciato in secondo piano e la stessa necessità storica deve imporsi a tutti i Paesi.
Il Fascismo è in grado di dare all’ordine sociale e giuridico un contenuto concreto e di realizzare la condizione perchè l’idea di uguaglianza acquisti il suo vero senso.
In fondo l’aspetto essenziale e nuovo del Fascismo consiste nell’avere proclamato, nell’avere reso risibile a tutti, nell’avere reso, per così dire, ufficiale questo vuoto della società. Con chiara potente intuizione il Fascismo ha colto questo vuoto come l’epilogo di tutto il mondo moderno e di questa immensa carenza ha fatto la premessa della sua azione.
Infatti Mussolini, cogliendola con una visione singolare per la sua profondità, ha intuito che la crisi del mondo moderno si traduceva in un vuoto sociale, in una società nella quale il vincolo sociale era cessato, se vincolo sociale è il riconoscimento dell’individuo, nel senso attivo e concreto di vita vissuta in comune nel comune godimento dei beni della vita.
Esiste lo Stato quando il popolo ne è fuori, quando intere masse ne restano fuori socialmente e giuridicamente? Questo interrogativo, posto dal Fascismo durante tutta la sua esperienza, ha segnato un vero e proprio ritorno alle origini dello Stato, un riproporre il problema della politica nei suoi termini costitutivi: la fondazione della città sociale, la fondazione dello Stato.
Una rivoluzione non si concepisce senza una rivelazione. E che altro può essere la rivelazione se non la conoscenza di uno stato d’animo, l’interpretazione di un costume di vita che urge, batte alle porte di quei nuovi tempi che sono insistentemente cercati, la consapevolezza di nuove necessità, di nuovi bisogni?
Che significato avrebbe la parola genio politico ove si escludesse un potere inventivo, morale e politico? Genio è colui al quale la verità si rivela, che trova la verità nascosta o che crea la verità. Per primo egli vede quello che gli altri non vedono, trova ciò che gli altri non ricercano.
Ma possono i nostri nemici avere dimenticato le parole del messaggio dell’anno IX, col quale Mussolini, come ogni vero scopritore, certo della verità misconosciuta, proclama che la concezione fascista, rispondendo ad esigenze di carattere universale, risolve il triplice problema dei rapporti tra lo Stato e l’individuo, tra lo Stato ed il gruppo, tra il gruppo ed i gruppi organizzati?
Ora il problema non può avere che una sola soluzione vera. E poiché non si può negare l’esistenza di questo triplice problema, trovata la soluzione vera, essa distrugge le pseudo-soluzioni.
Insomma, come la risposta ad un problema aritmetico è una, così nei grandi e decisivi momenti della storia, nei movimenti che segnano le epoche del cammino dei popoli, la risposta ad un problema politico è una.
Queste per sommi capi, sono le ragioni per le quali sentiamo il bisogno di rivolgerci agli uomini di cultura italiani e stranieri e di invitarli a una revisione del giudizio sulla realtà del Fascismo.
Dopo venticinque anni di Fascismo gli Italiani sentono di aver una concezione essenzialmente più libera di quella dei loro giudici e di essersi posti concretamente dei problemi che altri riescono soltanto oggi a intravedere. Perciò essi sanno che la distruzione del Fascismo è un’utopia, il cui vano perseguimento può soltanto disseminare il cammino di inutili rovine. Quand’anche i nemici riescissero a imporre a tutta l’Italia un diverso regime politico, non perciò il Fascismo sarebbe morto, cliè anzi il suo problema risorgerebbe più drastico, in un ben più feroce scontro di liberalismo e comunismo. L’unico risultato che si potrebbe ottenere sarebbe quello di rinunciare a un'esperienza di venticinque anni e di tutti i problemi che in questo periodo si son venuti faticosamente elaborando.
La cultura italiana è più libera perchè arricchita di questa insostituibile esperienza ed è in grado di comprendere le opposte esigenze altrui. Essa deve continuare a lavorare per dare al Fascismo, che, dopo l’8 settembre 1943, ha avuto un nuovo grande impulso rivoluzionario, profondi sviluppi dottrinali. Ma intanto oggi, mentre il conflitto sta per giungere alle sue fasi decisive, l’Italia sente di essere la nazione più serena per poter dire una parola che non sia soltanto di parte. E gli altri popoli possono ascoltare senza prevenzioni questa voce che non inganna. Non può ingannare, perchè, se l’Italia odia il nemico, tutti sanno che l’odio è soltanto per il male e aspira a tramutarsi in un sentimento di viva solidarietà; non può ingannare perchè, se essa parla d’impero ha dato prova di intendere l’impero soltanto come ragione di lavoro fecondo e beneficatore. Non può ingannare, infine, perchè tutta la storia d’Italia è là a dimostrare che una sola aspirazione è stata sempre alla radice della nostra coscienza ed è quella di una visione della vita che abbia carattere di universalità. Il Fascismo vuole avere anch’oggi questo carattere di universalità e se combatte, a oriente e a occidente, è soltanto in vista di un domani in cui possa realizzarsi una superiore collaborazione di questi due mondi ancora tra di loro molto estranei spiritualmente.
Ma, appunto perchè italiana in quanto universale è la fede per la quale l’Italia combatte, nessuno s’illuda di poterla ancora facilmente piegare. Se chi guarda dall’esterno e superficialmente può notare l’intima insoddisfazione di un processo rivoluzionario che tende al meglio, stia pur sicuro che, sotto questa veste critica caratteristica dell’intelligenza italiana, si cela oggi come non mai la profonda coscienza di difendere una superiore realtà ideale.