di Alfredo Rocco
Si parla oggi correntemente della Rivoluzione Fascista. La frase, che suscitava ancora poco tempo fa, perfino nel campo fascista, qualche ripugnanza e qualche dissenso, è oramai universalmente accettata per designare quel complesso fenomeno che si iniziò nel 1919 con la formazione dei Fasci di Combattimento, si affermò con la Marcia su Roma il 28 ottobre 1922, e che gradualmente, ma incessantemente, negli ultimi quattro anni, ha trasformato lo spirito delle masse e la struttura stessa dello Stato.
Rivoluzione, dunque, senza dubbio. Rivoluzione, non tanto perchè movimento violento di popolo, culminato con la conquista del potere, in virtù di un atto di forza, ma sopratutto perchè ha cambiato radicalmente gli ordinamenti, e la nozione stessa dello Stato, ha sostituito alla vecchia classe dirigente una nuova, formatasi durante il duro travaglio della guerra e del dopoguerra, ed ha operato profondamente sulla psicologia delle masse, trasformandone l'orientamento spirituale.
Come si vede, io pongo sopratutto nel nuovo assetto giuridico e morale creato dal Fascismo la sua intima virtù rivoluzionaria. Una rivoluzione, in realtà, non merita tal nome, se non mette capo ad un nuovo sistema di diritto pubblico e ad un nuovo spirito del popolo. Credere, come avviene talvolta, che la rivoluzione possa esaurirsi nei moti di piazza, nelle violenze, nelle esecuzioni capitali e nelle stragi popolari, è confondere la forma con la sostanza, l'episodio col fatto storico. Certamente ogni rivoluzione ha i suoi episodi tremendi e tragici, ma tuttociò non è ancora la rivoluzione. Se fosse, meriterebbero il nome di rivoluzione le « jacqueries », le rivolte dei contadini o degli schiavi, le esplosioni di ira della folla malcontenta o eccitata; sarebbe stata rivoluzione l'anarchia bolscevica che imperversò in Italia nel 1919 e nel 1920. La rivoluzione, lo stesso nome lo dice, è sopratutto un rivolgimento politico o sociale, ovvero politico e sociale in sieme, quindi un processo storico che mette capo a un nuovo ordinamento dello Stato o della Società o di ambedue. In altri termini la rivoluzione non può essere fine a se stessa, è necessariamente mezzo per la formazione di un ordine nuovo. Il travaglio per questa formazione è di regola molto lungo e molto duro. La rivoluzione francese non mise capo ad un ordine nuovo che dopo più di dieci anni, e divenne vero regime solo con le riformè napoleoniche. Ma, indubbiamente, la mèta di ogni rivoluzione è quella di creare dopo aver distrutto. Pari all'ape che muore generando, la rivoluzione come tale si estingue, quando l'ordine nuovo è creato. In questo momento la rivoluzione diventa, mi si passi l'antitesi, conservatrice; conservatrice del nuovo sistema che è nato da essa.
Può darsi che un vasto movimento di rinnovazione sorto da una ideologia politica e sociale, non riesca al fine che lo determinò, ma ne consegua un altro diverso. Vale a dire, non sempre l'idea che mosse la rivoluzione trionfa nella rivoluzione: è il caso del bolscevismo russo, il quale, dopo aver fatto la rivoluzione per attuare il comunismo marxista, si avvia decisamente verso un assetto, che non è nè comunista nè marxista, ma che è certo profondamente diverso da quello della Russia del 1914.
Il Fascismo invece appartiene al novero di quelle rivoluzioni, le quali, sia pure con gli inevitabili adattamenti, imposti dalle necessità storiche, realizza la sua ideologia. La realizza nel campo spirituale, svegliando nella massa il sentimento del dovere, l'abitudine della disciplina, l'idea della subordinazione dell'individuo alla Nazione. La realizza nel campo giuridico, creando, sulle rovine dello Stato liberale e democratico, lo Stato Fascista.
Questo processo di trasformazione è in atto. Esso è lungi dall'essere compiuto, è anzi appena all'inizio. Ma già le grandi linee del nuovo edificio cominciano ad apparir chiare, attraverso le manifestazioni del regime. Dal punto di vista giuridico non vi è dubbio che gli anni 1925 e 1926 segnano una tappa decisiva verso la trasformazione dello Stato. E, poichè come Guardasigilli del Governo Fascista in questo periodo fortunoso, ho avuto la ventura di collaborare alla maggior parte delle riforme legislative, in virtù delle quali sulle rovine dello Stato liberale agnostico ed abulico, dello Stato democratico dominato dagli egoismi particolaristici, sta sorgendo lo Stato Fascista, credo non inutile riunire in volume i discorsi e le relazioni, con cui, per incarico del Capo del Governo Benito Mussolini, ho avuto l'onore di illustrare davanti al Parlamento la nuova legislazione del regime.
Questo significa che non tutta la legislazione fascista si trova riprodotta e commentata in questo volume, ma solo quella, alla cui elaborazione ho dato la mia opera personale. Altre leggi fondamentali, che pure hanno contribuito potentemente a dar fisonomia al nuovo assetto dello Stato, rimangono fuori dal quadro di questo volume, come la riforma della scuola, e la riforma dei Comuni. Queste leggi ed altre ancora che l'inevitabile sviluppo della trasformazione fascista renderanno necessarie, saranno sistematicamente illustrate a suo tempo, quando il ciclo rinnovatore della rivoluzione sarà compiuto. L'intento di questa raccolta non può essere sì vasto: il presente momento dell'evoluzione fascista non lo consentirebbe. Mi limito, pertanto, oggi a presentare, riuniti in volume, i documenti della trasformazione giuridica operata dal Fascismo dopo il 3 gennaio 1925 nel campo più generale della organizzazione dello Stato, in quello cioè che rientra più specificamente nella competenza del Ministro Guardasigilli.
Indubbiamente, anche in questo campo, il 3 gennaio segna una data decisiva. Dal 28 ottobre 1922 al 3 gennaio 1925 il Fascismo non governò da solo l'Italia; la governò in collaborazione con altri partiti. Tale collaborazione, molto larga nel primo momento, era andata gradualmente restringendosi; ma in sostanza solo col 3 gennaio ogni residuo del Governo di coalizione fu eliminato, e il Fascismo dominò da solo lo Stato. Era pertanto naturale che, finchè detriti del vecchio mondo politico, con mentalità totalmente diversa, professanti dottrine antitetiche a quella fascista, collaboravano col Fascismo nel Governo, fosse difficile iniziare vigorosamente una totale trasformazione dello Stato. Aggiungiamo che l'opinione pubblica non era ancora matura, malgrado il trionfo della marcia su Roma, per l'abbandono completo di forme giuridiche e politiche, che avevano avuto diritto di cittadinanza in Italia per quasi ottanta anni. La reazione antinazionale del secondo semestre del 1924 dette al Fascismo la sensazione netta, che era venuto per esso il momento di governare da solo e di trasformare lo Stato, o di acconciarsi al fallimento della rivoluzione. Fra le due vie la scelta non poteva essere dubbia, e Mussolini, con l'intuito infallibile che lo assiste nei più gravi momenti, nel discorso del 3 gennaio, complemento necessario della marcia su Roma e perciò atto eminentemente rivoluzionario, aprì la nuova fase della rivoluzione: quella di realizzazione del Fascismo e di creazione dello Stato Fascista. Che il momento per tale decisione fosse opportuno, è mostrato dal consenso unanime, con cui il popolo italiano accolse l'inizio del nuovo periodo. L'annunzio infatti che il fascismo avrebbe d'ora innanzi attuato in modo intransigente il suo programma di rinnovazione, fu accolto come una liberazione da tutti fascisti e non fascisti. Dai fascisti, che acquistavano la certezza della realizzazione delle loro dottrine. Dai non fascisti, e voglio dire anche dagli avversari del Fascismo, che d'ora innanzi si vedevano perciò assoggettati con maggior rigore alla disciplina legale dello Stato, ma eran posti per ciò stesso al sicuro dalle reazioni extralegali dovute appunto alla insufficienza delle sanzioni giuridiche.
Tuttavia il valore storico decisivo per la realizzazione dello Stato fascista, che si deve attribuire alla data del 3 gennaio 1925, non toglie che, anche nel periodo antecedente, che fu di transigenza e di collaborazione, riforme importanti non siano state attuate. Specialmente nell'anno 1923, una notevole opera di revisione dell'assetto legislativo dello Stato venne operata dal Governo, in virtù dei pieni poteri ottenuti dal Parlamento. Si trattò, come i tempi consentivano, di una riforma principalmente tecnica, ma che non deve venire dimenticata, sia perchè fu il coronamento di lunghi lavori legislativi condotti durante decenni, e che mai erano riusciti a un risultato concreto, per la debolezza insanabile dei Governi antecedenti, sia perchè ebbe qualche riflesso politico non indifferente.
Sotto questo punto di vista il primo posto spetta indubbiamente alla riforma della scuola, preparata ed attuata da Giovanni Gentile con ferrea coerenza e con indomabile energia, che trasformò profondamente tutti gli ordini di scuole, da quella primaria all'Università, e che non fu soltanto riforma di ordinamenti o di programmi, ma di spirito e di metodo. Dalla scuola agnostica, priva di contenuto morale, senza idealità, pura fornitrice di nozioni, che lo Stato liberale democratico aveva creato, uscì la scuola educatrice, non solo dell'intelletto ma dell'animo, con un suo contenuto religioso e nazionale, formatrice dell'italiano nuovo, degno della nuova storia d'Italia, capace di comprenderla e di realizzarla. Malgrado le critiche e le opposizioni che una sì vasta e profonda riforma doveva suscitare, e malgrado anche gli inevitabili errori di dettaglio, che in un'opera così colossale, preparata ed attuata in pochi mesi, non potevano mancare, la riforma della scuola resterà come uno dei titoli fondamentali di benemerenza del Fascismo verso l'Italia. Giustamente il Goy, capo dell'ufficio informazioni della Sorbona, dichiarava: « Questa riforma Gentile passa di molto il quadro delle istituzioni puramente scolastiche: essa è in primo luogo un avvenimento politico », e aggiungeva che la riforma « avrà conseguenze incalcolabili sull'avvenire della Nazione vicina ».
Accanto alla riforma della scuola dell'On. Gentile vanno poste le riforme finanziarie dell'On. De Stefani. Riforme tecniche certamente, ma che contribuirono potentemente all'assetto finanziario dello Stato e che consentirono il risanamento del bilancio, presupposto indispensabile della ricostruzione della finanza e dell'economia italiana. Basti ricordare il riordinamento dei tributi, i quali hanno avuto finalmente un assetto definitivo ed organico, la revisione della legge di contabilità generale dello Stato, che ha stabilito un ferreo controllo delle spese facendo di un Governo uscito dalla rivoluzione il più cauto e ordinato amministratore, e infine la riforma dell'ordinamento gerarchico della burocrazia, che dette all'Amministrazione italiana un assetto, non forse privo di mende, ma che ha posto finalmente ordine in una materia, divenuta da tempo campo preferito di azione degli interessi particolaristici e delle pretese demagogiche.
Ma dopo la riforma tecnica doveva venire la riforma politica. Io non sono un feticista delle riforme, sono anzi in questo campo un eretico. Le riforme, infatti, operate dalle leggi sono caduche se esse non si realizzano sopratutto nel costume, nello spirito, nella tradizione. Solo quelle riforme sono durevoli che sono fatte prima negli animi e poi nelle leggi.
Ecco perchè, se il Fascismo, anticipando i tempi, avesse, al suo primo avvento al potere, iniziato immediatamente la riforma dello Stato, avrebbe forse fatto opera vana. Bisognava infatti prima creare, nei costumi e nello spirito, il nuovo Stato auspicato dal fascismo, e dopo, ma dopo soltanto, si poteva dare ad esso una forma legale e un'organizzazione giuridica. Dopo due anni di Governo fascista, anche la riforma legislativa fu possibile, perchè in sostanza lo Stato fascista esisteva nella realtà.
Le caratteristiche dello Stato liberale democratico sono infatti due. Anzitutto esso è un'organismo estraneo alle forze vive operanti nel Paese, che pone tutte alla stessa stregua e tutte egualmente tutela. In secondo luogo, esso è un organismo privo di un suo contenuto concreto, senza ideali propri, aperto a tutti gli ideali e a tutti i programmi. Le conseguenze di questa duplice premessa sono evidenti. Lo Stato liberale democratico non domina le forze esistenti nel Paese, ma ne è dominato: sono queste che decidono, lo Stato subisce la decisione e la esegue. Non basta, lo Stato liberale democratico, non avendo una sua idea da imporre, diviene il campo aperto alle lotte di tutte le correnti e di tutte le forze che esistono nel Paese: tutte hanno diritto, volta a volta, di penetrare nello Stato, o alternativamente, ovvero, peggio ancora, concorrentemente, in proporzione della importanza di ciascuna.
Questa concezione dello Stato era così radicata in Italia che essa era diventata una premessa comune a tutti i partiti, anche quelli che più aspramente si combattevano fra di loro. Era una di quelle verità che non si discutono, perchè evidenti a tutti, un truism, come dicono gli inglesi. Questa concezione era accettata non solo dai liberali e dai democratici, ma anche dai socialisti, i quali, pur combattendo per l'avvento di un diverso tipo di Stato, in realtà realizzavano in concreto anche essi lo Stato liberale, e per lo Stato liberale operavano ogni giorno; e gli stessi popolari, che pretendevano derivare la loro dottrina dalla dottrina cattolica, che è così lontana dal liberalismo, erano divenuti i fautori più accaniti dello Stato liberale democratico. In verità pareva che in Italia il liberalismo e la democrazia, figli legittimi del protestantesimo, fossero per celebrare la loro più grande vittoria, quella sul cattolicesimo, che erano sul punto di assorbire e di convertire.
Nessuna meraviglia che questo trionfo quasi totale del liberalismo e della democrazia in Italia abbia condotto lo Stato italiano sull'orlo dell'abisso.
Fuori d'Italia, specialmente nei paesi anglo-sassoni, lo Stato liberale democratico aveva potuto fiorire ed anche operare grandi cose, perchè esso trovava nelle condizioni sociali e politiche di quei popoli correttivi che mancavano presso di noi. Nei Paesi Anglo-Sassoni ed anche in Francia vi è una grande tradizione nazionale, e l'idea dello Stato si è fortificata attraverso secoli di lotte sostenute dallo Stato per l'affermazione della sua supremazia. In Inghilterra, inoltre, allo spirito individualistico e disgregatore del germanesimo, si è sovrapposta una educazione morale rigorosa, per cui l'individuo, pur rivendicando teoricamente di fronte allo Stato la più ampia libertà, sa nel fatto spontaneamente limitarla.
Tutte queste condizioni mancavano in Italia. La vecchia tradizione romana, splendidamente rinnovata dalla Chiesa Cattolica, era ispirata bensì al principio della disciplina, della gerarchia, della sottomissione dei singoli allo Stato, ma era tradizione ormai lontana, su cui avevano profondamente operato le influenze disgregatrici del germanesimo, l'anarchia medioevale e in ultimo la servitù straniera. Quest'ultima sopratutto, facendo apparire per secoli lo Stato come strumento della oppressione straniera, aveva fatto nascere e radicato profondamente nelle masse italiane lo spirito di diffidenza e di rivolta contro la pubblica autorità. Tale spirito avrebbe dovuto essere trasformato da un'opera pertinace di educazione politica e di disciplina statale. Lo Stato liberale democratico era, purtroppo, incapace, spiritualmente e materialmente, di adempiere a questa, che avrebbe dovuto essere la sua prima e più urgente funzione. Avvenne così che, anche dopo conseguita l'unità e l'indipendenza, le masse italiane conservassero verso lo Stato Nazionale quella stessa attitudine diffidente ed ostile, che avevano per secoli tenuto contro lo Stato straniero o cliente dello straniero.
In questa condizione di cose è da meravigliare che lo Stato liberale in Italia abbia potuto reggere per sessantadue anni, e che la conquistata indipendenza non sia stata travolta dall'anarchia. Ma era evidente che al primo grande urto quella larva di Stato sarebbe caduta in frantumi. Durante la grande guerra lo salvò, benchè lontano e incapace, l'intima virtù della stirpe e l'organizzazione militare del popolo in armi. Ma il grande turbamento che seguì la guerra trovò lo Stato più debole e più che mai assente e privo di volontà. Venuta meno l'organizzazione militare, lo Stato liberale, minato da ogni parte, non poteva più resistere e non resistè. Ne derivò, dopo la guerra, un periodo di totale anarchia, nel quale lo Stato, divenuto l'ombra di se stesso, dovette assistere impassibile allo scatenarsi delle lotte civili, impotente a frenarle e a dominarle.
A questo punto lo Stato liberale democratico era virtualmente in Italia finito. La Marcia su Roma fu la consacrazione storica del crollo. Anche se le forze del fascismo fossero state meno imponenti di quello che erano, esse avrebbero egualmente trionfato. Nessun regime cade per la forza dei propri avversari, tutti cadono per la propria debolezza.
La conquista dello Stato da parte del Fascismo doveva portare necessariamente alla sua trasformazione. Gradualmente, ma incessantemente, come abbiamo veduto, prima nel fatto, poi nelle leggi, si è venuto formando lo Stato fascista che, come contenuto e come forma, si differenzia totalmente dallo Stato liberale.
Dico Stato fascista e non Stato nazionale, come pur si usa da taluni, perchè l'espressione è più comprensiva e più esatta.
Lo Stato fascista è infatti lo Stato, che realizza al massimo della potenza e della coesione l'organizzazione giuridica della Società. E la società, nella concezione del fascismo, non è una pura somma di individui, ma è un organismo, che ha una sua propria vita e suoi fini, che trascendono quelli degli individui, e un proprio valore spirituale e storico. Anche lo Stato, che della società è la giuridica organizzazione, è per il Fascismo un organismo distinto dai cittadini, che a ciascun momento ne fanno parte, il quale ha una sua propria vita e suoi propri fini, superiori a quelli dei singoli, a cui i fini dei singoli debbono essere subordinati.
Stato fascista è dunque lo Stato veramente sociale, qualunque sia il tipo di società che in esso si organizza. Vi è uno Stato fascista nelle società a tipo cittadino, dominante nel mondo antico e medioevale. Vi è uno Stato fascista nelle società a tipo nazionale, che ancora oggi prevalgono nei paesi civili. Vi è uno Stato fascista nelle società a tipo imperiale, delle quali ci offre esempi cospicui l'antichità e che si vanno oggi sempre più affermando nel mondo. Può essere fascista lo Stato-città, lo Stato-nazione e lo Stato-impero.
Quando si dice che lo Stato fascista è lo Stato nazionale, si dice cosa vera per l'Italia di oggi, che è una società a tipo nazionale, non si dice cosa vera per quella che sarà l'Italia di domani, nè per quello che sono oggi l'Inghilterra, la Francia, il Giappone, gli Stati Uniti di America : in questi casi lo Stato fascista sarebbe lo Stato imperiale. In sostanza mentre il concetto di Stato nazionale risponde a una condizione concreta di vita sociale, quello di Stato fascista risponde a una condizione generale ed astratta, che si verifica tutte le volte che una società si organizza fortemente a Stato, per la realizzazione dei fini perpetui della specie.
Da ciò possono desumersi facilmente le differenze che distinguono lo Stato fascista dallo Stato liberale. Sono differenze che concernono tanto il punto di vista sociale, cioè il contenuto, quanto il punto di vista giuridico, cioè la forma.
Socialmente lo Stato fascista ha fini suoi propri, cioè una propria funzione e una propria missione. Lo Stato fascista non è agnostico, come lo Stato liberale, in ogni campo della vita collettiva; al contrario in ogni campo ha una sua funzione e una sua volontà.
Lo Stato fascista ha la sua morale, la sua religione, la sua missione politica nel mondo, la sua funzione di giustizia sociale, infine il suo compito economico. E perciò lo Stato fascista deve difendere e diffondere la moralità nel popolo; deve occuparsi dei problemi religiosi, e perciò professare e tutelare la religione vera, cioè la religione cattolica; deve adempiere nel mondo alla missione di civiltà affidata ai popoli di grande cultura e grandi tradizioni, il che significa adoperarsi per l'espansione politica economica intellettuale fuori dei confini; deve fare giustizia fra le classi vietando la sfrenata autodifesa di classe; infine, deve promuovere l'aumento della produzione e della ricchezza, adoperando, quando occorre, la molla possente dell'interesse individuale, ma intervenendo anche, quando occorre, con la sua propria iniziativa.
Ciò dimostra ancora una volta quella verità che ho avuto ripetutamente ragione di affermare: lo Stato fascista contiene in sè gli elementi di tutte le altre concezioni dello Stato, ma non già, come in esse, in modo unilaterale e quindi erroneo, ma in maniera integrale, e quindi vera. Lo Stato fascista contiene il liberalismo e lo supera: lo contiene, perchè si serve della libertà quando essa è utile; lo supera, perchè raffrena la libertà quando è dannosa. Lo Stato fascista contiene la democrazia e la supera; la contiene, perchè fa partecipare il popolo alla vita dello Stato in quanto è necessario; la supera, perchè tiene in riserva la possibilità di far decidere i problemi essenziali della vita dello Stato a coloro, che hanno la possibilità di intenderli, sollevandosi sopra la considerazione degli interessi contingenti degli individui. In ultimo lo Stato fascista contiene il socialismo e lo supera: lo contiene, perchè vuole, come esso, realizzare la giustizia sociale; lo supera perchè non consente che questa giustizia sia fatta mediante l'urto brutale delle forze sociali, nè crede che sia necessario per attuarla un mastodontico e complicato sistema di produzione collettiva, che finirebbe col sopprimere ogni spirito di risparmio, e assorbire tutto l'utile del processo produttivo.
Giuridicamente non meno profonde sono le differenze fra lo Stato liberale e lo Stato fascista. Lo Stato fascista è lo Stato veramente sovrano, quello cioè che domina tutte le forze esistenti nel paese e tutte sottopone alla sua disciplina. Se, infatti, i fini dello Stato sono superiori, anche i mezzi che esso adopera per realizzarli debbono essere più potenti di ogni altro, la forza di cui esso dispone deve essere soverchiante sopra ogni altra forza.
Questa teoria dello Stato sovrano non è, in realtà, nuova, perchè tutta la scuola giuridica di diritto pubblico la professa. Questa scuola ha sempre insegnato che la sovranità non è del popolo, ma dello Stato, principio affermato in tutti gli scritti dei maestri del diritto pubblico stranieri e italiani, e anche di molti giuristi nostri, che nel campo politico si dichiaravano poi liberali o democratici, senza dubitare affatto della patente contraddizione, in cui venivano a trovarsi con sè medesimi. In realtà, dire che lo Stato è sovrano è negare il liberalismo e la democrazia, per cui una superiorità di fini dello Stato su quelli dell'individuo non esiste, come non esiste la sovranità dello Stato.
Tale contraddizione, negli stessi uomini, tra la concezione giuridica e la concezione politica dello Stato è tanto più meravigliosa, in quanto è chiaro che dalla teoria della sovranità dello Stato discende logicamente la teoria dello Stato fascista. Se infatti lo Stato è sovrano, se in sua mano è un potere soverchiante, che domina e disciplina tutte le altre forze esistenti nella società, ciò significa che lo Stato adempie a fini suoi propri, superiori a quelli degli individui. Non è infatti concepibile che una forza soverchiante sia concessa allo Stato, se non per realizzare fini superiori ed adempiere ad una superiore missione, altrimenti quella forza si risolverebbe in semplice sopraffazione e mera tirannia.
Superiorità di fini, supremazia delle forze; in questa dicotomia si riassume la concezione dello Stato fascista.
Tutta la nuova legislazione fascista tende a realizzare questa concezione dello Stato.
Trasformare lo Stato liberale democratico, senza un suo contenuto e senza una effettiva sovranità, nello Stato fascista, avente suoi fini concreti, la volontà di realizzarli, e la forza necessaria per realizzarli, significava da un canto dare allo Stato un contenuto positivo di volontà e di azione, dall'altro fornirgli lo strumento indispensabile, per adempiere alla sua missione, cioè rendere effettiva la sua sovranità ed efficiente la sua autorità. Nell'ordine logico il primo compito precede il secondo, nell'ordine pratico è il secondo che soverchia, perchè la trasformazione spirituale dello Stato è opera essenzialmente morale e politica, la sua trasformazione giuridica è opera essenzialmente legislativa, e questa dipende più direttamente dalla volontà e dall'azione di governo.
Tuttavia, il problema stesso della creazione di uno Stato, avente un suo proprio contenuto nel campo etico, religioso, politico ed economico, se dipende sopratutto dalla trasformazione dello spirito dei governanti e delle masse, del costume politico e della cultura politica, dipende anche in parte dall'indirizzo pratico dell'azione di governo e della legislazione.
Le riforme legislative attuate durante i primi quattro anni del Governo fascista hanno avuto un'importanza grande per questa trasformazione interiore dello Stato. Ho già accennato al valore decisivo della riforma scolastica sotto questo punto di vista; creando una scuola educatrice del carattere, propagatrice del sentimento religioso, formatrice della coscienza nazionale, si è dato allo Stato un compito, a cui per l'innanzi esso si riteneva estraneo. Ma non minore importanza hanno le leggi sulla maternità e sull'infanzia e sopratutto quella sull'Opera Nazionale dei Balilla. Questa grande istituzione si prepara a dare una educazione militare e nazionale alla gioventù dai sette ai diciassette anni, mediante un'opera ininterrotta, compiuta nelle scuole e fuori delle scuole, che in breve volger d'anni, trasformerà radicalmente lo spirito e il carattere del popolo italiano. Così l'Italia, per virtù della guerra e del fascismo, dopo secoli di indisciplina e di neghittosità, tornerà ad essere una grande nazione militare e guerriera.
Anche la riforma dei codici, già autorizzata dal Parlamento, ed ormai in via di attuazione, contribuirà a dare allo Stato quel contenuto concreto di cui finora mancava. Nel codice civile, nel codice penale, lo Stato si affermerà vigorosamente come tutore della moralità e dell'ordine famigliare; nel codice civile ancora e nel codice di commercio, la tutela della proprietà privata, strumento indispensabile per la formazione del risparmio, e la disciplina del credito saranno considerate come essenziali funzioni dello Stato; nel codice civile, nel codice di commercio, nel codice penale gli interessi politici ed economici della nazione avranno, come è dovere dello Stato, una forte garanzia; nel codice penale e in quello di procedura penale troveranno posto adeguato e adeguata soddisfazione le necessità della difesa della Società e dello Stato, repressiva e preventiva, contro la delinquenza; nel codice di procedura civile, infine, l'amministrazione della giustizia non sarà più considerata come una passiva funzione di interesse esclusivamente privato, ma come una delle più alte attività dello Stato, avente lo scopo eminentemente politico di garantire la pace sociale con l'attribuire a ciascuno ciò che gli spetta.
Ma la riforma, a mio avviso, che ha maggiormente contribuito a dare allo Stato fascista la sua fisonomia e alla sua azione un concreto contenuto sociale, è pur sempre quella realizzata mediante la legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro e il relativo regolamento legislativo.
Questa legge pone fine al secolare agnosticismo della Stato in materia di conflitti fra le categorie e le classi, e considera l'attuazione della giustizia sociale come un problema, che esso deve risolvere nel suo ambito e con le sue forze. Con questa legge lo Stato finalmente dà un assetto stabile ai rapporti tra le categorie e le classi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di arbitro e di moderatore, in modo da impedire che l'una sopraffacesse l'altra, e che dalla lotta dell'una contro l'altra derivi l'anarchia, la miseria e la servitù dei cittadini, Ma, oltre che a risolvere il problema della sostituzione della giustizia di Stato alla autodifesa di classe, la nuova legislazione sindacale risolve anche il problema dell'organizzazione della società italiana a base professionale. Il sistema democratico dell'atomismo suffragistico, che ignorava il produttore e conosceva solo il cittadino, se aveva potuto in un primo momento servire a distruggere un'organizzazione sociale e politica, come era quella del secolo XVIII, sorpassata dalla evoluzione sociale ed economica del tempo, non aveva avuto nessuna virtù ricostruttrice. Esso partiva da una concezione fondamentalmente erronea della vita sociale, che disconosceva la natura organica della società, le differenze necessarie tra gli uomini, il loro diverso valore, e la diversità delle funzioni a ciascun individuo affidate nel complesso e multiforme meccanismo della vita sociale. Il giorno, in cui il sistema era stato condotto alle sue estreme conseguenze e aveva prodotto gli estremi danni, minacciando di travolgere in una universale anarchia tutta la moderna civiltà, il problema di una riorganizzazione della società e dello Stato, non più sulla base dell'atomismo individualistico della filosofia della rivoluzione francese, ma sulla base di una visione organica della Società, si poneva nettamente. La risoluzione di questo problema è uno dei compiti più importanti dello Stato fascista, che con la legge del 3 aprile 1926 e il regolamento 1 luglio dello stesso anno, l'ha affrontato risolutamente, disciplinando in modo organico tutto il fenomeno sindacale. Realizzazione della giustizia sociale per opera dello Stato, riorganizzazione della Società sulla base della funzione produttiva da ciascuno esercitata, ecco il nuovo compito assegnato allo Stato, che dà allo Stato fascista una nuova forza e una nuova vita.
Nè in questo campo della formazione di uno Stato bene attrezzato all'esercizio delle sue funzioni sociali, può essere dimenticata la legge sulla istituzione dei consigli provinciali dell'economia, per cui lo Stato viene fornito di uno strumento adeguato per l'esercizio della sua azione economica, che fino ad oggi mancava, giacchè nelle provincie lo Stato era rappresentato da molti organi, ma era assente proprio nel campo economico.
Non meno importante della trasformazione interiore dello Stato deve considerarsi la trasformazione esteriore operata dal fascismo in questi ultimi anni. Intendo per trasformazione esteriore la restituzione allo Stato della pienezza della sua sovranità inceppata durante il regime liberale democratico da una quantità di vincoli, di restrizioni, di controlli e sopratutto sopraffatta ed annullata dall'irrompere senza limiti di molteplici forze che tendevano a diminuirla e a usurparla.
Restituire allo Stato il pieno esercizio della sua sovranità significa anzitutto rafforzare il Potere esecutivo. Il potere esecutivo, è la espressione genuina dello Stato, l'organo essenziale e supremo della sua azione.
Dovunque, ma specialmente in Italia, la decadenza dello Stato ha avuto come manifestazione esteriore il crescere smisurato dei poteri del Parlamento e specialmente della Camera elettiva, a danno del potere esecutivo. Fenomeno significativo, e che fa pensare immediatamente ad un rapporto di causa ad effetto, tra questo accrescimento e quella decadenza. E in verità, se si penetra dentro all'essenza delle cose, così deve appunto concludersi, giacchè la Camera elettiva, che formalmente e giuridicamente figura nella costituzione come organo dello Stato, è dal punto di vista sostanziale organo di interessi particolaristici, dei più diversi e svariati interessi particolari. La rappresentanza politica, infatti, checchè ne dicano i teorici del diritto costituzionale, non è sostanzialmente designazione di capacità, ma rappresentanza di interessi, naturalmente interessi di individui o di gruppi e perciò spesso contrastanti con quelli dello Stato. Ora, finchè la funzione del Parlamento, come organo dello Stato, è limitata a una semplice partecipazione all'esercizio della sovranità, il danno non è grave. Ma diventa gravissimo quando, con la naturale tendenza esclusiva ed usurpatrice degli interessi particolari, l'organo di tali interessi viene acquistando una posizione preminente nell'esercizio del potere sovrano. Quando ciò si verifica e il potere parlamentare domina il potere esecutivo, la tutela degli interessi storici ed immanenti della Società, di fronte ai particolarismi degli individui, delle categorie e delle classi, si affievolisce e spesso vien meno. A questo punto la sovranità dello Stato è praticamente annullata, e ad essa si sostituisce la sovranità degli individui e dei gruppi in perpetua lotta fra di loro, quindi il cozzo continuo di forze brute, che tendono a sopraffarsi vicendevolmente; ciò che significa il disordine permanente e l'anarchia.
Tale era lo stato di cose, che la sopraffazione parlamentare aveva creato in Italia prima dell'avvento del Fascismo, e che il Fascismo ha fatto immediatamente cessare, restituendo al potere esecutivo la sua naturale posizione di organo preminente della sovranità. La legislazione fascista doveva consacrare giuridicamente questa preminenza. Non già che nella costituzione scritta dello Stato italiano ciò non fosse già stabilito; come tutti sanno, lo Statuto fondamentale del Regno ignora lo sfrenato regime parlamentare degli ultimi decenni della nostra storia politica. Esso consacra un semplice regime costituzionale, in cui la parte principale dell'esercizio della sovranità spetta sempre al potere esecutivo ed al Re suo capo supremo, mentre al Parlamento è riservata una funzione secondaria di collaborazione e di controllo. Ma la pratica costituzionale aveva da lunghi anni modificato lo Statuto, dando sempre più al Parlamento, e per esso alla Camera elettiva, la somma dei poteri. Tale sistema potè, bene o male, funzionare, finchè vi fu nella Camera una maggioranza relativamente omogenea e capace di esprimere dal suo seno un Governo omogeneo. Ma, quando, con la imprudente introduzione della rappresentanza proporzionale nel sistema elettorale, nessun partito ebbe più la maggioranza, la crisi divenne irrimediabile. Quando la Camera non fu più costituita da una maggioranza e da una o più minoranze, ma da una serie di minoranze, si impose la necessità del Governo di coalizione, costituito dall'unione di più partiti di minoranza. Simile sistema doveva condurre e fatalmente condusse alla paralisi di governo. Ciascun gruppo, che partecipava al potere non aveva sufficiente forza per governare, ma ne aveva abbastanza per impedire che gli altri governassero. Si attuò così il liberum veto dei gruppi, che condusse rapidamente all'annullamento del potere esecutivo. Una tradizione simile doveva essere radicalmente troncata, e perchè ciò accadesse era necessario che una serie di leggi direttamente ed indirettamente sancissero, in modo esplicito, il principio che l'organo permanente e supremo dell'esercizio della sovranità è il potere esecutivo, riducendo il compito del Parlamento al campo, nel quale è solo praticamente possibile, della collaborazione e del controllo.
Il Fascismo, pertanto, cominciò immediatamente coll'abolire l'assurdo sistema della rappresentanza proporzionale, per cui lo Stato veniva considerato come un possesso privato dei partiti, da dividersi tra essi in proporzione delle forze di ciascuno. Dal sistema totalmente proporzionale della legge del 1919 si è passati al sistema maggioritario a scrutinio di lista nazionale, con residui di proporzionalismo nella rappresentanza delle minoranze, consacrato nella riforma elettorale del 1923; e in ultimo si è ritornati al sistema schiettamente maggioritario dello scrutinio uninominale con la legge del 1925.
In seguito, con una serie di provvedimenti legislativi vennero direttamente rafforzati i poteri del Governo.
A questo gruppo di leggi appartengono: la legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, la legge sulle facoltà e le prerogative del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato; la legge sulla istituzione dei podestà nei Comuni e la sostituzione delle Consulte Municipali ai Consigli Comunali.
La legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, colmando una lacuna dello stesso Statuto fondamentale del Regno, fatto per un piccolo Stato e in un periodo storico di lenta evoluzione della vita economica e sociale, dà la possibilità al Governo, organo permanente e supremo della sovranità, di esercitare in taluni casi il potere legislativo, anche nel campo normalmente riservato al Parlamento. In tal modo, mentre si riconosce al Governo il suo carattere di organo, non solo preminente, ma anche permanente dello Stato, gli si consente di assicurare la continuità della vita dello Stato nei momenti più gravi della vita nazionale. Non solo, ma, attribuendo al Governo la possibilità di emanare, in caso di urgenza, norme aventi forza di legge, si è resa possibile l'approvazione di leggi, che per la inevitabile opposizione dei particolari interessi contrastanti, non giungerebbero mai in porto con l'ordinaria procedura parlamentare. È questo un punto forse secondario, ma molto importante della riforma, che non va trascurato. Vi sono leggi, che il Parlamento non riesce mai ad approvare, appunto perchè vi si oppongono fortemente interessi particolari, piccoli talvolta, ma ostinati. Così ricordo una leggina di nessuna importanza sopra gli atti notarili fatti durante l'occupazione austriaca nelle provincie invase, che per tre legislature si è trascinata fra Camera e Senato, senza che si riuscisse mai a ottenere su di un unico testo il consenso delle due Camere, perchè gli interessati, agendo volta a volta nell'uno e nell'altro ramo del Parlamento, riuscivano a farvi introdurre emendamenti che ne ritardavano l'approvazione.
La legge sui poteri e le attribuzioni del Capo del Governo, con.centrando la direzione del Governo nelle mani del Primo Ministro e dando a questo la somma dei poteri e delle responsabilità, costituisce un altro contributo al rafforzamento del potere esecutivo, la cui azione, divenuta omogenea e unitaria, è anche necessariamente più efficace. Si pone termine così al Governo fatto a compartimenti stagni, proprio del regime parlamentare, in cui ogni Ministro rappresentando una propria forza, un proprio gruppo e particolari interessi economici e politici, tendeva a fare nel Governo la propria politica. Ma il significato più profondo della legge sui poteri del capo del Governo sta nell'avere svincolato, con formale disposizione di legge, il Governo dalla dipendenza del Parlamento, riconsacrando il principio, già contenuto nello Statuto, ma per lunga tradizione dimenticato, che il Governo del Re è emanazione del potere regio e non già del Parlamento, e deve godere la fiducia del Re, interprete fedele delle necessità della Nazione. In tal modo la Camera elettiva appare quello che è, uno dei modi di manifestazione delle necessità e dei sentimenti del Paese, non già l'unica e decisiva. In un periodo, in cui la vita di un grande popolo è divenuta sommamente complessa, non è più possibile dare alla rappresentanza elettiva, basata sull'atomismo suffragistico, un valore assoluto nel Governo della Nazione.
Alla stessa necessità di rafforzare il potere esecutivo nelle Provincie e nei Comuni si ispira la legge sui poteri dei Prefetti, e quella importantissima e veramente decisiva per la vita italiana, così intensa localmente, sopra l'istituzione dei podestà e delle Consulte Municipali.
Ma l'onnipotenza della Camera elettiva non era la sola causa della disgregazione dello Stato liberale democratico. Le forze, che attraverso il parlamento, usurpavano la sovranità e la esercitavano nel proprio interesse sotto le forme legali del parlamentarismo, agivano anche più profondamente e in modo illegale fuori del Parlamento. I partiti, le organizzazioni sindacali, la stampa erano venuti costituendo altrettanti Stati nello Stato, creando una condizione di cose divenuta, in ultimo, veramente intollerabile, per cui nella nazione tutti comandavano, meno che lo Stato; donde una guerra perpetua di tutti contro tutti, che aveva soppresso ogni libertà e creato una condizione di vicendevole sopraffazione, che paralizzava la vita del paese. In tal modo, contraddizione solo apparente, lo Stato liberale, nell'ultima fase del suo disfacimento, doveva assistere impotente alla fine di ogni libertà.
Si poneva pertanto allo Stato il dilemma: o trasformarsi o pe rire; o riaffermare la propria sovranità su tutte le forze esistenti nel Paese o dissolversi nella universale anarchia.
Lo Stato Fascista ha operato questa trasformazione; esso ha affermato il proprio dominio su tutte le forze esistenti nel paese, tutte coordinandole, tutte inquadrandole e tutte indirizzandole ai fini superiori della vita nazionale. Una serie di leggi riafferma tale necessaria superiorità dello Stato.
A questa serie di leggi appartiene la legge sulle associazioni segrete, la quale mira a ricondurre sotto il controllo dello Stato tutte le Associazioni, che operano nel territorio nazionale e che, se ha colpito specialmente una particolare associazione, la Massoneria, che si era abbarbicata allo Stato e che in mille modi lo teneva avvinto e lo dominava, è in realtà un provvedimento di indole generale. Il quale mira a disciplinare, nella forma più limitata e moderata, il fenomeno associativo, così importante nella vita moderna, e che lo Stato non può, senza consacrare la sua piena abdicazione, ignorare.
Alla stessa categoria di provvedimenti appartiene la legge sulla stampa, che vuole infrenare uno dei fenomeni più tristi dell'ultimo periodo della vita italiana. Si era infatti costituita in Italia una forza immensa, come è quella della stampa, che rivendicava a sè il diritto di rimaner fuori dalla legge ed irresponsabile, a questa conseguenza avendo condotto la degenerazione dell'istituto del gerente. La stampa ha una funzione alta e nobilissima, ma la costituzione, entro lo Stato, di una forza superiore allo Stato, incontrollata ed irresponsabile, non poteva essere ulteriormente tollerata.
Ed egualmente dicasi della legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro. Questa legge, ho detto, si propone sopratutto alte finalità sociali: quella di rendere giustizia fra le classi e di organizzare le forze produttive del paese. Ma essa ha anche un altissimo compito politico: quello di ricondurre nell'orbita dello Stato le forze che si erano costituite fuori di esso e contro di esso. Il fenomeno sindacale è un aspetto insopprimibile della vita moderna; lo Stato non può ignorarlo, deve conoscerlo, regolarlo, dominarlo; dominarlo con quello spirito di assoluta imparzialità che è proprio dello Stato, tutore dei generali e supremi interessi della nazione, e non, come si vuole dal materialismo marxista, rappresentante di una classe sopraffattrice.
Infine, deve ricondursi a questo ciclo di leggi restauratrici della sovranità dello Stato sui gruppi minori, anche la legge sulla riforma forense. Come i sindacati, come i partiti, come la massoneria, come la stampa, così anche certi organi professionali si erano organizzati in maniera affatto indipendente dallo Stato, in modo da costituire forze superiori allo Stato, incontrollate ed incontrollabili. Gli ordini professionali, anche i più nobili e di più grandi tradizioni, come gli ordini forensi, non sono che parte dell'organismo dello Stato; hanno pubbliche funzioni, che esercitano in vece e in nome dello Stato e quindi non possono sottrarsi al suo controllo. Tale controllo appunto è stato stabilito nei limiti più riguardosi e discreti con la recente riforma forense.
Si viene realizzando così la formula Mussoliniana: tutto per lo Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato. Ciò che non significa, come taluno affetta di credere, la costituzione di uno Stato onnipossente, che tutto assorbe e tutto opprime. No; la nostra concezione dello Stato è bensì quella di uno Stato sovrano e superiore agli individui, ai gruppi, alle classi, ma con il chiaro ed esplicito presupposto che lo Stato debba di tale sovranità servirsi, non per fare opera di oppressione, bensì per realizzare fini superiori. Nella superiorità dei fini dello Stato, nell'adempimento della sua missione di perfezionamento morale e civile all'interno e all'esterno, sta la ragione della superiorità dei suoi poteri. Così la potenza dello Stato, lungi dall'opprimere i cittadini, si riflette in modo benefico su di essi. Non furono mai felici i cittadini di uno Stato debole e miserabile. Al contrario, solo attraverso lo Stato può il cittadino trovare le vie del proprio benessere e delle proprie fortune, verità che i romani espressero scultoriamente con la formula: civis romanus sum.