Thursday 8 March 2012

La trasformazione dello Stato

(Pubblicato in « La Rassegna italiana », maggio-giugno 1930; ripubblicato in « Lo Stato mussoliniano e le realizzazioni del fascismo nella nazione », 1930)

di Alfredo Rocco

Le imponenti realizzazioni della Rivoluzione fascista, che ha dato un nuovo assetto giuridico e morale alla vita italiana in ogni suo campo, hanno come punto centrale e fondamentale la trasformazione dello Stato. Il processo di questa trasformazione si è svolto gradualmente, ma incessantemente, dal giorno della marcia su Roma. Tuttavia si possono in questo distinguere due fasi, che una data storica separa tra loro.

Fin dal giorno in cui il Fascismo assunse il Governo, si iniziò un ciclo di vaste e radicali riforme. È da ricordare specialmente, tra quelle effettuate nei primi tempi, la vasta riforma scolastica che pose le basi di una scuola educatrice non solo dell'intelletto, ma dell'animo, con un suo contenuto religioso e nazionale, formatrice dell'italiano nuovo. Importantissime le riforme finanziarie, che contribuirono all'assetto finanziario dello Stato e consentirono il risanamento del bilancio, presupposto indispensabile della ricostruzione della finanza e dell'economia italiana. Venne altresì riformato l'ordinamento gerarchico della burocrazia, riconducendo ordine e disciplina in un campo che da tempo era tra quelli più favoriti per i maneggi torbidi della demagogia. Vaste e sostanziali riforme ebbe l'amministrazione della giustizia, precipue fra le quali furono la revisione delle circoscrizioni giudiziarie e l'unificazione della Corte di Cassazione, vecchie aspirazioni mai attuate per l'opposizione irriducibile degli interessi regionali, a cui il vecchio regime parlamentare non poteva nè sapeva resistere.

Sono tutte riforme, delle quali deve essere messa in rilievo la grande importanza, collaudate ormai anche dal tempo trascorso che ne ha posto in luce la solida base, anche se, naturalmente, qualche ritocco nei particolari si sia reso poi necessario per rimuovere errori di dettaglio, inevitabili in un'opera così colossale. Furono messi a profitto rapidamente lunghi studi e lavori legislativi durati decenni. La loro attuazione dimostrò quale fosse la forza realizzatrice del Fascismo, che, imprimendo un nuovo ritmo all'azione governativa, attuò in pochi mesi quello che i precedenti governi non erano riusciti a fare nel corso di lunghi anni. Le riforme presentavano riflessi politici non indifferenti, ma, nella loro sostanza, ebbero carattere prevalentemente tecnico. Una vera e propria riforma legislativa politica non vi fu in questo primo periodo, che doveva essere necessariamente di transizione e di valida preparazione alla successiva opera del FascismoIn realtà una vasta riforma legislativa nel campo costituzionale e politico, per essere salda ed efficace, doveva essere preceduta da una profonda trasformazione dello spirito pubblico. Con la sua immensa forza di propulsione il Fascismo agì rapidamente sull'animo degli italiani e rinnovò in breve tempo la vita pubblica nazionale. Giunse allora per il Fascismo il momento di governare da solo. Il Capo del Governo, col suo intuito infallibile che lo assiste nei più gravi momenti, ne ebbe la netta sensazione e il suo discorso memorando del 3 gennaio 1925 aprì la nuova fase della Rivoluzione. Ogni residuo di collaborazione con altri partiti fu eliminato. Scomparvero i detriti del vecchio mondo politico e il Fascismo dominò da solo lo Stato. Lo spirito pubblico era diventato maturo per il completo abbandono di antiche forme giuridiche e politiche, che nel fatto risultavano già sorpassate. Si iniziò quindi la riforma costituzionale, che doveva dare nuovo aspetto allo Stato italiano, trasformandolo completamente nella sua struttura, come già la pratica del Governo fascista lo aveva trasformato nel suo contenuto. Sulle rovine dello Stato liberale democratico sorse lo Stato fascista, di cui l'edificio, saldo e quadrato, si andò rapidamente completando.

Così per il contenuto come per la forma esteriore, lo Stato fascista è proprio l'opposto dello Stato liberale democratico, che aveva condotto la Nazione italiana fino all'orlo dell'abisso. La sua salda base è nella dottrina propria del Fascismo, che la Rivoluzione ha realizzata con inflessibile coerenza, in modo organico e integrale. La creazione di uno Stato di autorità veramente sovrano, che domini tutte le forze esistenti nel paese e che, al tempo stesso, sia in continuo contatto delle masse, guidandone i sentimenti, educandole e curandone gli interessi: ecco la concezione politica del Fascismo.

È questa una concezione nettamente antitetica alle concezioni democratiche e liberali, le quali tutte erano derivazione di una dottrina filosofica di origine esotica, e cioè della dottrina individualistica, che considerava l'individuo come fine ultimo della società e questa quale semplice somma degli individui viventi in una determinata generazione, senza scopi suoi propri e diversi da quelli degli individui che la compongono. Di conseguenza, lo Stato non poteva avere altra funzione essenziale se non quella di coordinare l'arbitrio dei singoli per impedire che la libertà dell'uno invadesse la sfera della libertà dell'altro. Mancanza di un contenuto suo proprio di un proprio ideale, di una propria volontà era pertanto la caratteristica dello Stato liberale ed agnostico, incapace di fronteggiare le forze reali esistenti nella Nazione che si organizzavano, vivevano e prosperavano fuori dello Stato, e finivano per dominarlo.

Lo Stato, infatti, privo di proprio contenuto, doveva attenderlo dalle forze che erano fuori di sè, e che tutte erano autorizzate volta a volta a imprimervi il proprio spirito e la propria volontà. Donde la paralisi dello Stato e la contradizione intima, in cui ogni giorno si svolgeva la sua azione, perchè, essendo lecito a tutti prestare allo Stato che non ne possedeva alcuno, il proprio ideale ed il proprio programma, ne derivava un incontro contradittorio di opposte dottrine che rendeva lo Stato incoerente e paralitico.

Il trionfo di questa concezione liberale democratica doveva avere in Italia conseguenze assai più gravi che in altri paesi. La resistenza dello Stato liberale democratico, che di per sè presenta una fragile struttura, è legata al concorso di condizioni che mancavano nel nostro paese.

Fuori d'Italia, e specialmente nei paesi anglo-sassoni, lo Stato liberale democratico aveva potuto fiorire ed anche operare grandi cose, perchè esso trovava, nelle condizioni sociali e politiche di quei popoli, correttivi che mancavano presso di noi. Nei Paesi Anglo-Sassoni ed anche in Francia vi è una grande tradizione nazionale, e l'idea dello Stato si è fortificata attraverso secoli di lotte sostenute dallo Stato per l'affermazione della sua supremazia. In Inghilterra, inoltre, allo spirito individualistico e disgregatore del germanesimo, si è sovrapposta una educazione morale rigorosa, per cui l'individuo, pur rivendicando teoricamente di fronte allo Stato la più ampia libertà, sa nel fatto spontaneamente limitarla.

Tutte queste condizioni mancavano in Italia. La vecchia tradizione romana, splendidamente rinnovata dalla Chiesa Cattolica, era ispirata bensì al principio della disciplina, della gerarchia, della sottomissione dei singoli allo Stato, ma era tradizione ormai lontana, su cui avevano profondamente operato le influenze disgregatrici del germanesimo, l'anarchia medioevale e la servitù straniera. Quest'ultima sopratutto, facendo apparire per secoli lo Stato come strumento della oppressione straniera, aveva fatto nascere e radicato profondamente nelle masse italiane lo spirito di diffidenza e di rivolta contro la pubblica autorità. Tale spirito avrebbe dovuto essere trasformato da un'opera pertinace di educazione politica e di disciplina statale. Ma lo Stato liberale democratico era incapace, spiritualmente e materialmente, di adempiere a questa, che avrebbe dovuto essere la sua prima e più urgente funzione.

Avvenne così che, anche dopo conseguita l'unità e l'indipendenza, le masse italiane conservassero verso lo Stato nazionale quella stessa attitudine diffidente ed ostile, che avevano per secoli tenuto contro lo Stato straniero. Lo Stato liberale in Italia, in queste condizioni di cose, non poteva reggersi che stentatamente e la sua debolezza cresceva a misura che lo sviluppo della vita nazionale portava all'organizzazione di nuove forze nel Paese. L'intima virtù della stirpe e l'organizzazione militare del popolo in armi salvarono lo Stato durante la guerra, ma il grande turbamento che seguì la guerra trovò lo Stato ancora più debole e più che mai assente e privo di volontà. Minato da ogni parte, lo Stato liberale non poteva più resistere e non resistette. Ne derivò, dopo la guerra, un periodo di totale anarchia, nel quale lo Stato, divenuto l'ombra di sè stesso, dovette assistere impassibile allo scatenarsi delle lotte civili, impotente a frenarle e a dominarle.

Il penoso periodo di anarchia fu arrestato dall'avvento del Fascismo che, riportando l'ordine e la disciplina nel Paese, doveva necessariamente condurre alla trasformazione dello Stato, secondo la propria dottrina fondamentale, che è dottrina eminentemente sociale e quindi nettamente antiindividualista. Il Fascismo ha infatti una concezione organica e storica della società, che oppone alla concezione tradizionale, atomistica e materialistica, della dottrina del liberalismo. La società deve essere considerata nella sua vita continuativa, che va oltre quella degli individui, che sono elementi transeunti. Questi nascono, crescono, muoiono, sono sostituiti da altri, mentre l'unità sociale, attraverso il tempo, resta sempre identicamente sè stessa, con un proprio patrimonio, essenzialmente spirituale, di idee e di sentimenti, che ciascuna generazione riceve dalle generazioni passate e trasmette a quelle future. L'individuo non può, quindi, secondo la concezione fascista, essere considerato come il fine ultimo della società. La società ha scopi suoi propri ed immanenti di conservazione, di espansione e di perfezionamento che sono distinti dagli scopi degli individui, i quali in un dato momento la compongono. Per il raggiungimento di questi suoi fini propri, la società deve servirsi come mezzo degli individui. Alla preminenza dell'individuo sulla società, che è affermata dalla dottrina individualista, è sostituita la preminenza della società di fronte all'individuo. Capovolta rimane quindi l'espressiva formula di Emanuele Kant « l'uomo è fine e non può essere assunto al valore di mezzo ». Lo Stato pertanto, che della società è la giuridica organizzazione, è, per il Fascismo, un organismo distinto dai cittadini, che a ciascun momento ne fanno parte, il quale ha una sua propria vita e suoi propri fini superiori, ai quali devono essere subordinati i fini dei singoli. Lo Stato fascista è dunque lo Stato che realizza al massimo della potenza e della coesione l'organizzazione giuridica della società. Non è agnostico, come lo Stato liberale, ma in ogni campo della vita collettiva ha una propria funzione ed una propria missione da compiere ed una volontà sua propria.

Lo Stato fascista ha la sua morale, la sua religione, la sua missione politica nel mondo, la sua funzione di giustizia sociale, infine il suo compito economico. E perciò lo Stato fascista deve difendere e diffondere la moralità nel popolo; non può essere estraneo ai problemi religiosi, ma deve professare e tutelare la religione, che esso reputa vera, cioè la religione cattolica; deve adempiere nel mondo alla missione di civiltà affidata ai popoli di grande cultura e grandi tradizioni, il che significa adoperarsi per l'espansione politica economica intellettuale fuori dei confini; deve fare giustizia fra le classi vietando la sfrenata autodifesa di classe; infine, deve promuovere l'aumento della produzione e della ricchezza, adoperando la molla possente dell'interesse individuale, ma intervenendo, anche, quando occorra, con la propria iniziativa.

E poichè lo Stato deve realizzare fini suoi propri, che sono superiori, è necessario che esso abbia mezzi adeguati che devono egualmente essere superiori e più potenti. La forza dello Stato deve perciò soverchiare ogni altra forza; vale a dire lo Stato deve essere veramente sovrano, dominare tutte le forze esistenti nel paese; coordinarle, inquadrarle, indirizzarle tutte ai fini superiori della vita nazionale.

Questa concezione dello Stato ha avuto la sua completa realizzazione, alla quale tutta la legislazione fascista concorre armonicamente. Ma le leggi fondamentali che hanno operato direttamente la trasformazione dello Stato si riducono a poche. La riforma costituzionale vera e propria si inizia con la legge 24 dicembre 1925, n. 2263, sulle attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato; prosegue con la legge 31 gennaio 1926, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche e poi ancora con la legge 3 aprile 1926, n. 563, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro, integrata dalle relative Norme di attuazione approvate con R. Decreto 1° luglio 1926, n. 1130, e da quel documento, che non è proprio legislativo, ma che ha altissimo valore politico, cioè la Carta del lavoro del 21 aprile 1927, e si chiude, infine, con la legge 2 settembre 1928, n. 1993, sulla rappresentanza politica e con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, sull'ordinamento del Gran Consiglio. Le prime due leggi segnano la preminenza e il rafforzamento del potere esecutivo, che è l'espressione più genuina dello Stato, l'organo essenziale e supremo della sua azione.

La decadenza dello Stato ha avuto, specialmente in Italia, la sua affermazione esteriore nel crescere smisurato dei poteri della Camera elettiva a danno del esecutivo.

Lo sfrenato regime parlamentare degli ultimi decenni della nostra storia politica, a dire il vero, è del tutto ignoto allo Statuto fondamentale del Regno, che consacrava un semplice regime costituzionale, in cui la parte principale dell'esercizio della sovranità spettava sempre al potere esecutivo e al Re suo Capo Supremo, mentre al Parlamento era riservata una funzione secondaria di collaborazione e di controllo.

Ma la pratica costituzionale aveva da lunghi anni mo. dificato lo Statuto, dando sempre più al Parlamento, e per esso alla Camera elettiva, la somma dei poteri. Fino a che nella Camera vi fu una maggioranza relativamente omogenea, il sistema potè bene o male funzionare. Ma, quando con l'imprudente introduzione della rappresentanza proporzionale nel sistema elettorale nessun partito ebbe più la maggioranza, la crisi divenne irrimediabile. Diventata la Camera una somma di minoranze, anche il Gabinetto dovè diventare una coalizione di minoranze, in cui ciascun partito aveva la sua rappresentanza. Il concetto di Governo, come unità organica e solidale sotto unico Capo, venne meno del tutto, poichè nella coalizione di forze eterogenee, che costituivano il Gabinetto, ogni Ministro prese la via che le sue idee e gli ordini che riceveva fuori del Gabinetto dal suo partito gli indicavano. Questo doveva condurre e fatalmente condusse alla completa paralisi dell'azione di Governo propriamente detta.

L'unità del Governo è stata ricostituita dal Fascismo, ma in un senso completamente diverso, assai più energico e completo.

Secondo l'antica pratica costituzionale, il Governo di Gabinetto era generalmente inteso, non nel senso di vera unità di indirizzo e di azione politica, ma in quello piuttosto di una totale solidarietà fra i vari Ministri, in modo che ciascuno fosse responsabile di tutti gli atti degli altri. In tal modo l'unità del Gabinetto costituiva per questo piuttosto causa di debolezza che di forza, perchè serviva a moltiplicare i punti vulnerabili e rendeva perciò più agitata e più effimera la vita dei Ministeri.

Nella pratica del Governo fascista, la unità del Gabinetto è apparsa subito come vera e propria unità di indirizzo e di azione, mantenuta rigidamente dal Capo del Governo. Il concetto di solidarietà resta così superato ed assorbito, perchè esso suppone l'eterogeneità dell'azione e quindi non ha più ragione di essere quando l'indirizzo politico è unico, quando cioè l'azione è omogenea. Fuori dell'unità resta soltanto ciò che si attiene al campo tecnico, nei confini del quale può esplicarsi l'opera individuale e separata dei vari Ministri.

Speciale risalto così assume la figura costituzionale del Primo Ministro, che è il vero Capo del Governo. Scompare ogni traccia dei governi fatti a compartimenti stagni, propri del regime parlamentare, in cui ogni Ministro, rappresentando una propria forza, un proprio gruppo e particolari interessi economici e politici, tendeva a fare nel Governo la propria politica. Chi dirige il Governo ed ha in mano la somma delle cose, cioè l'indirizzo generale politico dello Stato deve essere uno solo, non il Consiglio dei Ministri, il quale rimane bensì un organo consultivo della massima importanza, ma per la sua stessa natura collegiale non può essere l'effettivo direttore della vita politica del Paese.

La legge di cui parliamo, svincola inoltre il Governo dalla dipendenza del Parlamento. Il Governo parlamentare sorse quando il suffragio era ristretto e le forze dello Stato erano praticamente in mano ad alcune minoranze borghesi intellettuali. Queste minoranze, che votavano e governavano, costituivano, in sostanza, le sole forze efficienti del paese, perchè la vita sociale era allora molto semplice, i contrasti di interessi tra le classi erano scarsi e le masse prive di coscienza politica ed assenti. Le cose mutarono quando le masse entrarono nella vita dello Stato per la tutela dei loro interessi economici. Le Camere, elette a suffragio universale, diventarono rappresentanza puramente numerica degli elettori e non potevano più essere l'espressione esatta delle forze politiche esistenti nel Paese, nè quindi rispecchiare esattamente la vera situazione della Nazione. Vi sono infatti altre forze vive ed operanti, non rappresentate o rappresentate in modo inadeguato ed imperfetto nel Parlamento, perchè al loro valore qualitativo non corrisponde il numero dei voti di cui dispongono. La valutazione e l'interpretazione dell'entità e dell'orientamento di tutte le forze reali esistenti nel paese sono opera assai complessa e così diversa da un puro computo numerico di voti, che non può essere compiuta se non da chi, per la sua stessa situazione, sia al di sopra di tutte le forze contrastanti e perciò, più di ogni altro, in grado di valutarle. L'Italia ha la grande ventura di essere guidata da un Sovrano, che appartiene ad una dinastia gloriosa la quale ha una millenaria esperienza di governo. E quindi il Sovrano l'unico che possa essere giudice ed arbitro della situazione nei momenti decisivi della vita nazionale.

Svincolando il Governo dalla dipendenza del Parlamento, si è riconsacrato così il principio dello Statuto che il Governo del Re è emanazione del potere Regio e non già del Parlamento, e deve godere la fiducia del Re, interprete fedele delle necessità della Nazione. In un periodo in cui la vita di un grande popolo è divenuta sommamente complessa, non è più possibile dare alla rappresentanza elettiva valore assoluto nel governo del Paese. La rappresentanza politica, infatti, è sostanzialmente rappresentanza di interessi di individui o di gruppi. Se l'organo di tali interessi acquista una posizione preminente nell'esercizio del potere sovrano e domina il potere esecutivo, la tutela degli interessi storici ed immanenti della società, di fronte ai particolarismi degli individui, delle categorie e delle classi, si affievolisce e spesso vien meno; il che significa che la sovranità dello Stato è praticamente annullata.

La legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche determina i limiti tra l'attività del Parlamento e quella del potere esecutivo nel campo della legislazione. Caratteristica degli anni anteriori all'avvento del Fascismo fu quella di vincolare in ogni modo l'azione del potere esecutivo. Sia per l'invadenza del Parlamento, sia per alcune altre ragioni contingenti, fatto è che il campo vero e proprio della legislazione si andò estendendo oltre ogni ragionevole limite, con la corrispondente riduzione della sfera regolamentare propria del Governo. Si giunse così alla strana conseguenza, che, mentre le rapide trasformazioni economiche e sociali dei tempi moderni importavano una evoluzione continua dell'attività del Governo, e richiedevano un'azione più vigile ed intensa di questo, le facoltà del potere esecutivo si andavano sempre più restringendo. Era quindi necessario riportare l'esercizio del potere regolamentare alla sua sfera originaria, per consentire al Governo l'esercizio della sua attività nell'ampia zona che gli è propria. Nel tempo stesso, la legge, colmando una lacuna dello Statuto fondamentale del Regno, fatto per un piccolo Stato, in un periodo storico di lenta evoluzione della vita economica e sociale, da la possibilità al Governo di esercitare in taluni casi il potere legislativo, anche nel campo normalmente riservato al Parlamento.

In tal modo, mentre si riconosce al Governo il suo carattere di organo, non solo preminente, ma anche permanente dello Stato, gli si consente di assicurare la continuità della vita dello Stato, nei momenti più gravi della vita nazionale.

La preminenza del potere esecutivo, nettamente affermata dalle due leggi ricordate, ha trovato poi il suo completamento in una serie di riforme minori, come per esempio quelle sulle attribuzioni dei Prefetti e sull'Ordinamento podestarile, per effetto delle quali l'autorità del potere esecutivo, attraverso i propri organi che ne sono diretta emanazione, dal centro si irradia energicamente alla periferia, dominando, come deve, la vita delle Provincie e dei comuni, dove per il passato si infeudavano spesso localistiche ambizioni.

Alla riorganizzazione del potere esecutivo nei suoi ordinamenti, nelle sue facoltà, nei suoi rapporti col potere legislativo è seguita la riorganizzazione del Parlamento.

Combattendo la degenerazione parlamentaristica ed elettoralistica dello Stato, affermando la necessità di uno Stato forte, il Fascismo non ha mai disconosciuto l'utilità di una collaborazione del Parlamento. Noi riteniamo che il Parlamento non può essere oggi più l'unico mezzo con cui il Governo si pone a contatto con le masse, prende conoscenza dei sentimenti che le agitano e influisce sul loro spirito. Noi respingiamo perciò il concetto di governo parlamentare e l'onnipotenza del Parlamento. Ma non vi è dubbio che un'assemblea, composta di uomini che, per le loro origini e il modo della loro designazione siano al tempo stesso interpreti delle idee dominanti nei vari gruppi di cui si compone la società nazionale e organi consapevoli dei grandi interessi storici della Nazione, deve trovar posto fra i vari organi costituzionali dello Stato.

È chiaro però che nel sistema politico creato dal Fascismo la Camera non poteva essere eletta con i sistemi elettorali del regime democratico liberale.

La dottrina fascista nega il dogma della sovranità popolare che da un canto faceva della Camera l'unica depositaria della sovranità e quindi l'organo dominante nello Stato, e dall'altro conduceva ad abbandonare all'arbitrio delle masse la scelta dei deputati.

Le masse di per sè stesse non sono capaci di formare spontaneamente una propria volontà, meno che mai di procedere spontaneamente ad una scelta di uomini.

Per una legge fondamentale della vita sociale, che il Maine qualificò come legge dell'» imitazione », la massa degli uomini tende a fare ciò che è voluto da alcuni elementi dominatori, dai così detti « spiriti dirigenti ». Il problema del Governo non si risolve dunque mai affidandosi ad una illusoria volontà delle masse, ma si risolve con una buona scelta degli spiriti dirigenti. Se un buon sistema di selezione non è organizzato, la forza naturale delle cose porta spesso alla direzione delle masse i meno degni. La scelta dei candidati e dei deputati rimessa completamente nelle mani del corpo elettorale significa che la scelta è in realtà abbandonata nelle mani di pochi intriganti, auto delegatisi a guide e maestri spirituali delle masse.

Nè il sistema migliorò quando si affidò ai vecchi partiti la designazione dei candidati. Nella pratica quel compito venne assunto, come era logico che venisse, dai partiti più privi di scrupoli, meno solleciti dell'interesse nazionale, più avversi allo Stato. Il dogma della sovranità popolare in materia elettorale finì così col risolversi praticamente nel dogma della sovranità di piccole minoranze composte di intriganti e demagoghi.

I vecchi sistemi elettorali disconoscevano inoltre la realtà della vita sociale, nella quale gli individui presi isolatamente hanno un valore trascurabile. La società non è una mera somma di uomini, è la risultante di una serie di aggruppamenti che si intrecciano e coesistono organicamente. Sono questi minori organismi che caratterizzano la vita nazionale, nei quali l'individuo si forma, e da cui trae buona parte delle ragioni della sua vita spirituale.

Nella dottrina fascista, che al dogma della sovranità popolare, ogni giorno smentito dalla realtà, oppone il dogma della sovranità dello Stato, organizzazione giuridica della Nazione e strumento delle sue storiche necessità, il Parlamento non può essere fuori dello Stato, ma ne costituisce uno degli organi fondamentali e i deputati per conseguenza sono pure organi dello Stato. La loro scelta deve essere regolata nel modo migliore, perchè le finalità dell'istituzione siano conseguite. E, poichè la Camera dei deputati ha per primo suo compito quello di collaborare col Governo alla formazione delle leggi, facendosi interpretate delle necessità e dei sentimenti dei vari gruppi sociali, che sono sì gran parte della vita nazionale, e armonizzandoli con le necessità storiche ed immanenti della vita della Nazione, è chiaro che un buon sistema elettorale deve poggiare anzitutto sul concorso delle forze organizzate del Paese, e deve poi garantire che gli uomini scelti a formare la Camera abbiano piena coscienza degli interessi nazionali, siano cioè uomini politici nel più elevato senso della parola.

Su queste basi fondamentali doveva quindi essere risoluto il problema della rappresentanza politica della Nazione; e la risoluzione di questo problema in modo del tutto originale e coerente alla concezione fascista dello Stato, si collega strettamente alla nuova organizzazione data alla società italiana con la legge sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro. Questa legge, completata dalle Norme di attuazione e seguita dalla Carta del Lavoro, ha importanza sociale e politica rilevantissima ed è forse tra quelle che maggiormente hanno contribuito a dare allo Stato fascista la sua fisonomia e alla sua azione un concreto contenuto sociale.

L'alta finalità sociale della riforma sindacale non ha bisogno di essere illustrata. Per effetto di essa è stato risoluto integralmente e semplicemente il problema più grave della vita contemporanea, che affatica l'umanità da oltre un secolo. Non solo il problema della pacifica convivenza fra le classi e della composizione con mezzi legali dei conflitti inevitabili fra di esse, ma anche quello della migliore organizzazione della produzione e della migliore distribuzione della ricchezza, sono stati risoluti con la riforma. Al contrario delle vecchie organizzazioni sorte fuori dello Stato e viventi fuori di esso, i nostri nuovi Sindacati fanno parte dello Stato, e sono, per lo Stato, elementi di forza e di prestigio. Ma, oltre a tutto ciò, l'organizzazione sindacale e corporativa della Nazione ha dato un nuovo assetto alla società italiana, non più costituita sulla base dell'atomismo individualistico della filosofia della rivoluzione francese, ma sulla base di una visione veramente organica della società, che non può disconoscere le differenze qualitative esistenti fra i componenti della medesima. La società italiana si è infatti riorganizzata a base professionale, vale a dire sulla base della funzione produttiva da ciascuno esercita.

Tale riorganizzazione della società ha consentito di battere una via del tutto nuova per assicurare la rappresentanza politica della Nazione. Abbandonato ogni sistema localistico nella scelta dei deputati, costituito un collegio unico nazionale, ridotto il numero dei deputati, la proposta dei candidati fu affidata alle organizzazioni sindacali legalmente riconosciute, e, sussidiariamente, ad altre organizzazioni permanenti che hanno scopi di cultura di educazione o di assistenza. Una accurata selezione dei proposti, che fa capo al Gran Consiglio, organo supremo di sintesi di tutte le istituzioni del Regime, assicura la scelta dei più idonei a realizzare, nell'ambito del Parlamento, la loro funzione di collaborazione legislativa e di tutela degli interessi generali della Nazione. Il plebiscitario concorso alle urne, che si è verificato nelle elezioni seguite col nuovo sistema, attesta l'aderenza di questo alla rinnovata coscienza del popolo italiano. La Camera elettiva nel Regime fascista non è più la Camera dei regimi liberali democratici, espressione di una inesistente volontà della massa amorfa e indifferenziata, ma è la Camera uscita dal suffragio organizzato, vicina all'anima del popolo, strumento attivo e consapevole delle fortune della Nazione.

La riforma costituzionale ha così trasformato completamente i tradizionali organi fondamentali dello Stato, dandovi nuova configurazione. Ma altri organi essenziali, con propria caratteristica fìsonomia, sono stati inseriti nella nostra costituzione. Nessun riscontro questi nuovi organismi trovano nella vecchia organizzazione statale, perchè la funzione delicatissima che essi compiono era ignota allo Stato democratico liberale, anzi nettamente contrastante con la concezione stessa dello Stato liberale.

Lo Stato fascista ha, infatti, compiti vastissimi, che la dottrina liberale riteneva estranei allo Stato. La dottrina fascista respinge il concetto dello Stato agnostico, privo di contenuto proprio, di propri fini ed estraneo alla vita dei cittadini. A differenza dello Stato demo-liberale, lo Stato fascista non può consentire che le forze sociali siano abbandonate a sè stesse. Il Fascismo ha compreso che le masse, rimaste per tanto tempo estranee ed ostili allo Stato, dovevano essere avvicinate allo Stato ed inquadrate nello Stato, il quale afferma una propria funzione ed una propria missione in ogni campo della vita collettiva, dirigendo, incoraggiando e armonizzando tutte le forze della Nazione. Il coordinamento unitario potenzia al massimo grado le energie nazionali, dirigendole efficacemente al raggiungimento dei propri fini, nell'interesse della prosperità del Paese.

È per questo che lo Stato fascista è bensì uno Stato di autorità, ma è altresì uno Stato popolare quale non fu altro mai. Non è uno Stato democratico, nel senso antico di questa espressione, perchè non da al popolo la sovranità, ma è uno Stato eminentemente democratico, nel senso che aderisce strettamente al popolo, è in continuo contatto con questo, per mille vie penetra nella masse, le guida spiritualmente, ne sente i bisogni, ne vive la vita, ne coordina le attività.

Uno degli aspetti più originali del Fascismo è dato dalle numerose istituzioni che consentono allo Stato di vivere vicino all'anima del popolo. Ho già accennato alla riforma sindacale. A differenza delle vecchie organizzazioni sorte e viventi fuori dello Stato, i nostri Sindacati fanno parte dello Stato. Il fenomeno sindacale è un aspetto insopprimibile della vita moderna. Lo Stato non può ignorarlo, ma deve regolarlo con spirito di assoluta imparzialità. Le masse organizzate sono così entrate nello Stato non più tumultuanti e malcontente, ma liete e serene. Alla antica lotta di classe, dilaniatrice della Nazione, si è sostituita la collaborazione armonica tra i vari elementi della produzione. La riforma sindacale corporativa ha così risoluto il problema dell'organizzazione delle forze produttrici e del coordinamento unitario dell'economia della Nazione, il quale coordinamento unitario trova il suo organo supremo nel Consiglio Nazionale delle Corporazioni che riassume e sintetizza tutte le attività produttive della Nazione.

Ma non è soltanto nel campo economico che si esplica l'azione statale di organizzazione e di coordinamento. Secondo la concezione totalitaria del Fascismo, lo Stato deve presiedere e dirigere l'attività nazionale in ogni campo. Nessuna organizzazione nè politica, nè morale, nè economica può rimanere fuori dello Stato. Il Fascismo si è perciò avvicinato al popolo, lo ha educato politicamente e moralmente e lo ha organizzato non solo dal punto di vista professionale ed economico, ma anche dal punto di vista militare, culturale, educativo, ricreativo.

Si è venuta, così, creando una serie di istituzioni per cui la vita del Fascismo si è sempre più identificata con la vita della Nazione. Fondamentale istituzione del Regime è il Partito, organizzazione eminentemente politica, centro direttivo e propulsivo di ogni altra attività. Il Partito vive la vita del popolo, ne interpreta i sentimenti, lo sorregge nelle difficoltà, ne forma la coscienza civile. Ogni giorno interviene a dare la sua opera disinteressata: qualunque problema nazionale si presenti, il Partito fascista è al suo posto, pronto a guidare il popolo italiano e ad illuminarlo.

L'organizzazione militare del popolo è data dalla Milizia, espressione purissima della Rivoluzione, che costituisce, dopo il Partito, lo strumento più attivo di comunicazione tra il popolo e lo Stato.

Dalla pratica dell'organizzazione fascista sono poi germogliate l'organizzazione giovanile, l'Opera Nazionale Balilla, l'organizzazione ricreativa, il dopo-lavoro; l'organizzazione sportiva, le organizzazioni femminili, le organizzazioni assistenziali. Nessun aspetto della vita nazionale sfugge a questa sapiente disciplina, per la quale si può dire che realmente tutto il popolo italiano partecipa vivamente alla vita nazionale. Sono più di dieci milioni di italiani iscritti regolarmente a queste varie istituzioni, tutti animati da unica fede nella grandezza della Nazione e cooperanti efficacemente alla prosperità dell'Italia rinnovellata.

Le molteplici istituzioni create dal movimento fascista non sono fuori dello Stato, che, conformemente alla sua funzione unitaria, è andato gradatamente inquadrandole. Il Regime fascista si identifica così con lo Stato.

Ma questo nuovo e più ampio ordinamento dello Stato rendeva necessario un organo supremo in cui tutte le forze organizzate e tutte le istituzioni del Regime venissero a contatto, creandosi una sintesi unitaria che fosse al tempo stesso disciplina e coordinamento degli sforzi.

Questo organo di coordinamento e di integrazione delle varie forze del Regime esisteva già nella pratica. Esso fu una delle grandi istituzioni uscite dalla Rivoluzione del 1922, nel seno del Partito fascista. Tutte queste istituzioni, sorte per sorreggere lo Stato, sono andate man mano inserendosi nello Stato. A questo punto era necessario che anche l'organo supremo di collegamento tra lo Stato e le masse entrasse a far parte dello Stato. Il Gran Consiglio del Fascismo è diventato così, per effetto della legge 9 dicembre 1928, n. 2693, uno degli organi fondamentali dello Stato, organo supremo regolatore di tutte le attività del Regime. Presieduto dal Capo del Governo, composto degli esponenti delle principali organizzazioni del Regime, il Gran Consiglio interpreta lo spirito delle masse presso il Governo e riceve le direttive dell'azione di preparazione materiale e morale.

Il Gran Consiglio ha assunto quindi tra gli organi costituzionali dello Stato una posizione eminente, ben distinta peraltro da quella del Governo e del Parlamento. Organo squisitamente politico, collabora col Governo, ed ha funzioni delicatissime di consulente nelle questioni costituzionali e politiche, ma non invade la sfera di attività del Governo nè quella del Parlamento. A quest'ultimo rimane piena la funzione legislativa e ispettiva, quali sono consacrate nello Statuto. Il Governo, a cui il Gran Consiglio presta il contributo della sua collaborazione, è sempre il centro propulsore dell'azione politica, che attraverso il Gran Consiglio si irradia sulla Nazione.

Questo carattere di massimo organismo politico del Gran Consiglio risulta più spiccatamente determinato in seguito alla legge 14 dicembre 1929, n. 2099, che, riducendo il numero dei componenti ai massimi esponenti delle attività politiche militari ed economiche del Regime, meglio adegua l'organo alle altissime funzioni sue squisitamente politiche, risultando con ciò stesso delineato il coordinamento tra i compiti suoi con quelli propri di altri organismi supremi, quali il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, la Commissione Suprema di Difesa, il Consiglio Superiore dell'Educazione Nazionale, ciascuno dei quali compie la sua funzione, che è egualmente di sintesi unitaria, in determinate sfere circoscritte prevalentemente o ai problemi economici o a quelli militari o a quelli culturali.

Insieme al Gran Consiglio del Fascismo, diventato organo dello Stato, anche il Partito nazionale fascista, dal cui seno sono uscite tutte le istituzioni poi assorbite dallo Stato, non poteva non essere inquadrato nello Stato. Ciò è avvenuto gradatamente e la legge del 14 dicembre 1929 segna la tappa ultima del processo.

Lo Statuto del Partito è approvato con Decreto Reale. Il Segretario del Partito è egualmente nominato con Decreto Reale, su proposta del Capo del Governo; e fa parte di diritto del Gran Consiglio, del quale è segretario, della Commissione Suprema di Difesa, del Consiglio Superiore dell'Educazione Nazionale, del Consiglio Nazionale delle Corporazioni e del Comitato Centrale corporativo. Può inoltre essere chiamato a partecipare alle sedute del Consiglio dei Ministri. I membri del Direttorio Nazionale e i segretari federali del Partito sono, infine, nominati con decreto del Capo del Governo.

Con ciò l'inquadramento del Partito nello Stato è completo. Ed anche questo è strettamente conforme alla dottrina totalitaria del Fascismo, contrastante con la tradizionale concezione politica demo-liberale. I partiti del vecchio regime erano organizzazioni private, fuori dello Stato, in lotta tra loro per impadronirsi dello Stato. Ed era necessario che così fosse, dal momento che lo Stato, privo di un proprio contenuto, doveva raccogliere quello che i vari partiti a volta a volta gli davano, avvicendandosi nella direzione della cosa pubblica.

Ma lo Stato fascista è un organismo ben definito nella sua forza e nella sua sostanza: ha il proprio contenuto e il proprio ideale politico da attuare e non può quindi attenderli da organizzazionì fuori dello Stato, quali sono i partiti del vecchio regime. Nello Stato fascista non vi è quindi posto per i partiti politici del vecchio stampo.

Il Partito fascista in verità non è un partito nel senso dei regimi liberali democratici. Sorse bensì come privata organizzazione che ha creato Io Stato. Ma, costituito saldamente il nuovo Stato, il Partito, conservando sempre il suo nome glorioso, si è trasformato gradatamente da privata organizzazione in una grande istituzione politica. Nella sua azione di propaganda, di educazione politica e sociale del popolo italiano, il Partito fascista rappresenta la milizia civile più scelta dello Stato, lo strumento fondamentale del Regime che doveva perciò trovare posto nei quadri dello Stato, pure mantenendo le necessaria libertà di movimento per l'adempimento della sua funzione.

Appare così nella sua pienezza il carattere totalitario dello Stato fascista, che si presenta come integrale organizzazione di tutte le forze esistenti nel paese, realizzando appieno la formula di Mussolini: « Nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato ».

Lo Stato fascista, questo blocco granitico nel quale sono fuse tutte le energie e le risorse di nostra gente, è dunque uno Stato di autorità e di forza, ma che ha piena aderenza alle masse, è cioè un vero regime di popolo.

Il contrasto fatale tra le necessità dell'organizzazione politica e quella dello sviluppo armonico della personalità umana è risoluto dal nuovo Stato; poichè, se in questo l'individuo ha una posizione subordinata di fronte alla società, questa stessa subordinazione è a sua volta causa di sviluppo e di prosperità degli individui, che sono possibili solo dove esista la tutela di uno Stato vigoroso e bene organizzato. Sono quindi due termini strettamente connessi, che erroneamente la dottrina liberale riteneva separati ed antagonistici. La floridezza della vita individuale dei singoli è condizione dello sviluppo e della prosperità di tutta l'unità sociale, ma dipende al tempo stesso dalla salda organizzazione statale.

Quale sia l'autorità, quanta la forza di questa potente organizzazione sociale che è lo Stato fascista, dimostrano le mirabili opere compiute.

Lo Stato fascista ha ricondotto l'ordine e la tranquillità nel popolo italiano, ne ha ravvivata la fede, ne ha elevato il prestigio nel mondo. La vita economica pulsa con ritmo costante, senza sperperi di ricchezza provocati da irrequietezze malsane e da lotte continue fra le classi sociali. Il lavoro operoso, nei campi e nelle officine non è turbato dagli antichi contrasti tra capitale e lavoro, che cooperano armoniosamente al miglioramento e all'aumento della produzione.

Sradicati gli ultimi residui di turbolenze politiche, riordinata l'amministrazione pubblica, consolidato il bilancio, risoluto il problema monetario ed affrontata la inevitabile crisi di assestamento economico, lo Stato fascista procede risoluto per la sua strada, seguito dal fervido consenso del popolo italiano, nelle feconde opere di pace. La vittoriosa battaglia del grano, che va liberando il Paese dal suo gravoso tributo verso l'estero, le colossali opere pubbliche che hanno ridato bellezza e valore alle nostre regioni, la bonifica integrale che offre nuovi campi alle feconde fatiche degli agricoltori, sono altrettante tappe della costante ascensione del nostro Paese.

Nessun problema generale è trascurato. Sempre e dovunque lo Stato fascista interviene con la sua azione efficace, si tratti di proteggere la infanzia o di tutelare la famiglia, o di accrescere la natalità o di gelosamente curare l'integrità fisica e morale della nostra stirpe.

Lo Stato ha ridato la pace religiosa alle nostre popolazioni, eliminando il dissidio che tormentava la coscienza degli italiani dall'epoca del Risorgimento, con la risoluzione dell'annosa questione romana e con il Concordato con la Santa Sede, che ha posto su nuove basi i rapporti tra lo Stato e le autorità religiose, portando quindi alla riforma generale della vecchia legislazione ecclesiastica.

In primo piano sono sopratutto nello Stato fascista i problemi culturali. Accanto alle scuole completamente rinnovate sono sorte istituzioni ed enti di alta cultura, quali l'Accademia d'Italia, il Comitato nazionale delle ricerche, il Comitato nazionale di scienze storiche, l'Istituto fascista di cultura, l'Università italiana per gli stranieri.

Nei rapporti internazionali lo Stato fascista, pure rifuggendo dall'internazionalismo puramente verbale, è sempre in prima linea allorchè vi sia da fare opera pratica in favore della collaborazione tra i popoli. L'Istituto internazionale per l'unificazione del diritto privato, quello per la cinematografia educativa, la Commissione italiana di cooperazione intellettuale sono esempi evidenti dell'efficace collaborazione del nostro paese.

Trasformato lo Stato, rinnovata la vita nazionale, si procede alla riforma completa della legilazione generale. I nuovi codici, che sono in preparazione, non solo rappresenteranno un sensibile progresso tecnico di fronte ai vecchi, ma avranno anche decisiva importanza politica, perchè daranno un complesso di leggi pienamente aderente al nuovo assetto politico e sociale. Al principio individualistico della rivoluzione francese, che ispira tuttora la legislazione generale, sarà sostituito il principio della organizzazione e della socialità, che è la base della dottrina fascista. Con la riforma generale dei codici l'Italia riprenderà nel campo giuridico quel primato che ebbe ripetutamente nel mondo.

Il profondo sentimento giuridico, di cui è massimo esponente l'ideale di giustizia così radicato da secoli nel popolo italiano, lo Stato fascista fa suo e realizza. Nella riforma generale dello Stato non furono infatti toccati gli istituti caratteristici della giustizia amministrativa, che fu merito di Francesco Crispi di aver creato in Italia. Essi hanno invece ricevuto autorità e vigore nello Stato fascista, che è e vuole essere uno Stato forte, ma nella legge, cioè uno Stato giuridico.

All'idea dello Stato forte e sovrano non contraddice infatti l'ideale di giustizia, come non vi contraddice il carattere essenzialmente popolare. L'uno e l'altro sono anzi elementi che integrano e potenziano la forza e la sovranità dello Stato fascista. Anche da questo lato si appalesa così la saldezza e l'armonia della struttura di questo potente organismo che la Rivoluzione fascista nel suo cammino incessante, sotto la guida di Benito Mussolini, ha costruito per le nuove fortune d'Italia.