(Conferenza tenuta a Firenze, nel Salone dei Cinquecento, l'8 marzo 1925, tratta dal libro « Che cosa è il fascismo: discorsi e polemiche », 1925.)
di Giovanni Gentile
Signori,
devo confessarvi che non prendo a parlare senza una certa preoccupazione. Venivo a Firenze per tenere una lezione al Circolo di Cultura Fascista, dove si legge, si studia, si discute tra fascisti desiderosi di riflettere e chiarire le proprie idee; e avevo perciò in mente un discorso adatto a quel luogo e a quell’uditorio. Invece, con mia grande sorpresa, mi tocca di parlare a migliaia di ascoltatori variamente preparati e disposti, in quest’aula solenne e magnifica di memorie e di glorie, dove non si potrebbe venire a tenere una “lezione” senza dar prova di troppo cattivo gusto, né certo si possono tollerare parole che non riecheggino l’alto suono della storia e non preconizzino una fede generosa della patria. Per fortuna, l’argomento stesso del mio discorso è di quelli che suscitano passioni ardenti e universali che destano e alimentano in tutti l’interesse provocando l’adesione o la polemica e mettendo in moto l’animo e la mente verso i problemi essenziali del proprio paese e della stessa vita in generale. E insieme con la qualità dell’argomento, la vostra accoglienza cordiale mi anima a parlarvi sinceramente, schiettamente, di quelle cose che intorno al fascismo ho a lungo meditate e sento vivamente nel profondo del cuore, nella speranza di riuscire anche qui a essere inteso da tutti, o almeno a non essere frainteso. Dov’è sincerità, ivi pure è buona disposizione a comprendere oltre quel che si dice e si può dire, scorgendo il punto giusto dei motivi che ispirano chi parla. Comprendere in buona fede: ciò che non sempre accade di ottenere. Del resto, quello che io devo chiedere a voi, avrei pur dovuto chiederlo alla breve cerchia degli amici che avrei trovati nel Circolo di cultura. Anche parlando del fascismo a fascisti io, come ogni altro fascista, avrei avuto bisogno di fare un’avvertenza preliminare. E dire: badate, il fascismo di cui io parlo è il mio fascismo. L’essere infatti un movimento così largo, che stringe insieme intorno a una stessa bandiera e in una fede comune centinaia di migliaia d’italiani, ed essere per tutti un solo movimento, e quindi una stessa via, uno stesso ideale, non toglie che ognuno che vi aderisce non lo veda coi suoi occhi, non l’intenda con la sua intelligenza, non lo senta col suo animo. L’unità risulta da questa molteplicità, da questa infinità di temperamenti e psicologie e sistemi di cultura e concezioni della vita. La forza del fascismo deriva da questa ricchissima inesauribile fonte d’ispirazioni e connessi bisogni ed energie spirituali. Ed esso si essiccherebbe e inaridirebbe nella monotonia meccanica delle formule vuote se potesse definirsi e restringersi negli articoli di un credo determinato. Del resto, il nostro grande Gioberti in quel suo libro frammentario ma sparso di pensieri geniali, con cui mirava a indurre la Chiesa Cattolica a quelle riforme che a lui parevano indispensabili per rinnovare e ravvivare il millenario meraviglioso istituto, anche del Cattolicesimo che è il tipo delle religioni costituite con caratteri rigidamente obbiettivi, diceva giustamente che ogni cattolico ha il suo. «Ma il Papa – si poteva obbiettare – non è di questa opinione». «Ebbene – il Gioberti replicava – è quello appunto che io dico». E non era sofisma. Perché per quanti sforzi si faccia di rinunziare alla propria personalità e aderire a un credo comune, questo credo non sarà accettato mai se in qualche modo non si sarà inteso; e intendere non si può, a cominciare dalle stesse parole in cui le idee sono espresse, se non servendosi della cultura e dei sentimenti e delle tendenze e, insomma, di tutto il complesso degli elementi in cui si organizza e concreta la nostra personalità. Intorno al fascismo, come intorno a qualche cosa di ben determinato e individuato, che tutti egualmente sanno che cosa sia, siamo tutti raccolti a lavorare e lottare quanti siamo italiani del nostro tempo: pro o contro, non importa. Anche gli avversari sono stati costretti dalla stessa intensità del movimento fascista a prender posizione verso di esso. Ognuno ne avrà un’idea chiara od oscura, e più e meno oscura: ma tutti, esaltandolo o condannandolo, parlano egualmente del fascismo; tutti, volenti o nolenti, vanno innanzi al problema che è l’argomento di questo discorso: che cosa è il fascismo? Ma i fascisti certamente concepiscono il fascismo in modo molto diverso dagli avversari; e per la stessa ragione, quantunque la diversità sia incomparabilmente minore da fascista a fascista quel concetto varia; e la soluzione del problema centrale, a cui tutti lavorano, riesce sensibilmente diversa. Dissimulare o nascondere queste differenze, come ogni ipocrisia o menzogna, sarebbe indizio di scarsa fede e di ottusa intelligenza della vita che è propria d’ogni grande movimento spirituale. Giacché la vita è sempre svolgimento e perciò cambiamento continuo incessante: quindi unità, ma anche varietà, e conflitto interno di elementi discordi, dal quale la vita è promossa a nuove forme. E dove è calma d’acqua stagnante, l’aria s’ammorba e la vita si spegne. Il che può suonar male all’orecchio di chi grossolanamente rappresenta la disciplina d’un partito o la saldezza d’una scuola come l’abbrutimento degli uomini che aderiscano a quello o a questa. Ma né i bruti né gli uomini abbrutiti hanno fatto mai storia. E tutto ciò che è grande nel mondo degli uomini, programma politico o dottrina filosofica, è stato sempre a quel modo stesso in cui mi rappresento il fascismo: una struttura fondamentale, un nucleo, che è un’idea viva, e quindi una direzione di pensiero, un’ispirazione e una tendenza, in cui gli spiriti si incontrano e s’affiatano e partecipano a una stessa vita tanto più vigorosa e possente quanto maggiore il numero di quelli che vi concorrono; e intorno a quel nucleo, per germinazione spontanea dei tanti semi di pensiero che nella storia si vengono ad ora ad ora maturando, un fiorire svariato di riflessioni e sistemi, che sono nuovi organi onde l’organismo centrale s’irrobustisce accogliendo e appropriandosi dall’atmosfera, in cui esso vegeta e vive, sempre nuove energie. In quel nucleo è l’unità e la fede. Lì è l’essenziale, la radice della vita e della forza. Io vengo al fascismo dagli studi, dalla storia, dalla filosofia. Altri dall’arte. Altri dallo squadrismo della lotta politica quotidiana. Altri dalla polemica del giornalismo. Altri dall’arte del giuoco parlamentare. Altri da altre origini. Ognuno con la sua anima, con la sua cultura, le sue abitudini, la sua vita, la sua personalità. Ma tutti giungono allo stesso punto, e s’incontrano tutti sulla medesima via: che è la via in cui oggi il fascismo viene combattendo la sua bella battaglia in Italia e nel mondo per dare una sua forma allo Stato, e attraverso lo Stato a tutto lo spirito. Tutti: anche quelli che come me vissero sempre nella scuola e negli studi e meditarono, fuori della politica militante di tutti i giorni, i problemi nazionali attraverso la storia e la filosofia. Giacché c’è filosofia e filosofia, o Signori. E quella antica, famosa e venuta in proverbio, del filosofo che guardava il cielo e non vedeva la terra su cui camminava e perciò cascò dentro la fossa, quella filosofia, di cui da Aristofane in poi gli uomini di senno hanno fatto la satira e riso di cuore, fuori della vita ed estranea alla lotta in cui la vita consiste, senza occhi agl’interessi che alimentano questa lotta e per cui tutti gli uomini vivono, gioiscono e sperano, o soffrono e si tormentano, e sanno che la vita è fatica, sforzo, sacrificio di sé, abnegazione, passione e brama inesausta della mèta sempre da raggiungere e non raggiunta mai; questa filosofia è morta ormai da un pezzo. La nostra filosofia è sì pensiero, ma perché la vita è pensiero; è riflessione sulla vita, ma perché la vera vita è riflessione su se stessa, attività luminosa, la quale si spiega per la via che è sua, perché essa consapevolmente se la fa, sapendo dove va e in che modo può giungervi. Tutta la vita umana per noi, fin dalle sue più umili forme, è filosofia. E quella che oggi sarà filosofia degna del nostro tempo non potrà essere una vita impoverita o snaturata e quasi svanita nel pallido riflesso d’un pensiero astratto; anzi sarà la vita stessa più intensa, più energica, quasi potenziata ed esasperata dalla coscienza vigilante delle proprie leggi. Lasciate, dunque, che io cerchi di rispondere a modo mio alla domanda, che ci siamo proposta, che cosa sia il fascismo. E cerchiamo di avvicinarci insieme a quello che si potrebbe dire, come ho accennato, il nucleo vivo ed unico del fascismo, a cui tutti guardiamo e che tutti abbiamo comunque interesse di vedere esattamente.
Le due Italie
E per cominciare, v’invito a considerare se non si possa dire che dalla storia ci vengano incontro come due distinte e differenti immagini dell’Italia, che noi vi cerchiamo. Tutti, in verità, la cerchiamo. La storia non è un passato che interessi soltanto gli eruditi: essa è presente, viva negli animi di tutti. Quanti sono italiani, lo sentono: sentono di appartenere a questa Italia,che non è soltanto l’azzurro del suo cielo, dei suoi colli e delle sue marine, né la desolata o alpestre terra che s’alterna ai suoi piani ubertosi e ai suoi ridenti giardini. Chiudiamo gli occhi, facciamo astrazione dagli orizzonti dei suoi paesaggi così vari di bellezza e di luce: e l’Italia ci resta nell’animo, anzi si ingrandisce e giganteggia nella gloria di quel che essa è nella mente e nei cuori di tutti gli uomini civili, che le rendano giustizia o almeno la riconoscano come la nazione dell’intelligenza e della millenaria cultura non mai tramontata e dell’arte e dei pensatori solitari e della travagliata vita civile tra le difficoltà interne, di una nazionale lenta nel suo processo laborioso di organizzazione e unificazione e tra le esteriori potenze lottanti nel più vasto processo organizzativo dell’Europa moderna. Tutti, vedendo più o meno, e più o meno penetrando e intendendo e sentendo, hanno in sé, senza potersene distaccare, questa Italia storica, viva, ma di una vita che si prolunga e s’affonda con le sue radici nei secoli, e già è l’Italia, con i caratteri nazionali che si faranno sempre più evidenti, intorno al Mille, quando pullulano dall’Impero disfatto i Comuni con l’impeto delle loro libertà e delle loro arti, e preparano quel Rinascimento, che sarà la più geniale creazione dello spirito italiano, splendido faro agli uomini d’ogni parte del mondo, che gli italiani stessi del Rinascimento raddoppiarono, cercanti il porto della nuova scienza, della nuova arte, del nuovo pensiero, della nuova fede, e insomma dell’età moderna. Questa Italia, che tutti rechiamo nel cuore, e che forma infatti la sostanza del nostro essere e del nostro carattere nel mondo, se la guardiamo oggi intensamente, con lo sguardo fatto più acuto dalla nostra odierna passione di una più alta e forte vita nazionale, da questa passione che ci cova dentro dopo le prove della Grande Guerra, da quando provammo l’angoscia della sconfitta e l’orgoglio della vittoria, noi questa Italia la vediamo ora presentarcisi in un aspetto, e ora in un altro molto diverso. Noi vediamo due Italie innanzi a noi: una vecchia e una nuova: l’Italia dei secoli, che è la nostra gloria ma è anche una triste eredità, che ci grava le spalle e ci pesa sull’anima: ed è pure – diciamolo francamente – la vergogna, di cui noi vogliamo lavarci, di cui dobbiamo fare ammenda. Ed è appunto quella grande Italia, che ha così gran posto – come dicevo – nella storia del mondo. La sola Italia, si può dire, che sia conosciuta e studiata e indagata da tutti i popoli civili, e la cui storia non sia una storia particolare, ma un’epoca della storia universale: il Rinascimento. Nel quale è tanta luce, sì, e sono tanti titoli di vanto nazionale per gl’italiani: ma è pur tanta ombra. Giacché il Rinascimento è pur l’età dell’individualismo, che trasse la nazione italiana attraverso i sogni splendidi della poesia e dell’arte all’indifferenza, allo scetticismo, all’imbelle neghittosità degli uomini che nulla hanno da difendere intorno a sé, nella famiglia, nella patria, nel mondo dove si riversa e si impianta ogni umana personalità conscia del proprio valore e della propria dignità, perché in nulla credono che trascenda il libero e lieto giuoco della propria fantasia creatrice. Donde la frivolezza d’un costume che viene decadendo e corrompendosi a mano a mano che si smarrisce il sentimento attivo della nazionalità e gli animi s’infiacchiscono; una letteratura in cui canti carnevaleschi e bizzarrie burlesche d’ogni sorta si mescolano a una commedia che trae dalla novellistica beffarda, faceta e cinica la sua materia e il suo spirito; una commedia che non è perciò mai vera arte, la quale anche sotto il riso faccia sentire il pianto, ossia la serietà dello spirito che sa la miseria dei difetti, onde gli conviene liberarsi a fatica per ascendere a quell’ideale, in cui solo può vivere; e le accademie si trasformano in radunanze di ingegni colti ma oziosi, in cui la dissertazione decade a cicalata; i nomi, una volta coniati nel metallo antico dell’ingenuo ma serio e profondo umanismo, gareggiano in argutezze e stranezze d’invenzioni, allusioni e analogie ridevoli; la religione diventa forma esteriore ed esanime, la filosofia è perseguitata con la tortura ed i roghi, e la scienza illanguidisce nell’esercitazione intellettualistica, capace d’accendere le passioni dei letterati (come anche gli scienziati si chiamavano), ma inetta a scuotere gli animi e gettarvi dentro il pungolo di quei problemi, in cui l’uomo s’arma di tutte le sue forze per muovere incontro al mistero ed al destino. Letteratura vuota, superficiale, senz’anima.
Sonetti, canzoni a bizzeffe: ma un uomo, che canti ed esprima la sua passione, mai. Accademie paiono mascherate. Cultura quanta se ne vuole; ma infeconda e morta. Gli uomini senza volontà, senza carattere; la vita senza programmi, che non siano quelli del particolare individuo che pensa a sé, ma niente di più. L’Italia perciò degli stranieri, e non degli italiani. Gl’italiani senza fede, e perciò assenti. Non è questa la vecchia Italia della decadenza?
I residui della vecchia Italia
Quell’Italia, per noi, è morta; e ce n’è un’altra, grazie al cielo. E si può dire in certo senso, come chiarirò or ora, che la prima sia morta da duecento anni. Ma non è così morta, che noi a volte non ce la troviamo innanzi anche oggi, in quest’anno di grazia millenovecentoventicinque. C’è ancora troppa gente in Italia che non crede a nulla e ride di tutto, e sospira per l’arcadia e le altre accademie; e se la piglia astiosamente con chi gli turbi la digestione. Vi ricordate della tremenda vigilia italiana della Grande Guerra, quando i pochi che credevano trascinarono i molti che alzavano le spalle ripetendo la vecchia ingiuria straniera che gl’italiani non si battono? Quando i giovani si sentivano fremere nel petto un oscuro istinto e vi si abbandonavano sicuri, ciecamente confidando nel fato nazionale, nelle forze della stirpe, nella necessità di una grande prova cruenta che comunque cementasse la recente unità nazionale, più pensata che creduta o più creduta che sperimentata e realizzata, e temprasse nelle lotte, a cui ogni libero popolo dev’essere pronto sempre, la fibra degl’italiani? E gli uomini maturi, i savi sorridevano e calcolavano, e inorridivano al pensiero di sacrifici inutili come dicevano, e tremavano dei pericoli, che in virtù di calcoli non sono stati mai affrontati, e che non si affrontano da chi non sia animato da una indimostrabile fede? Oggi quel pavido miope e scettico neutralismo è sinonimo, per moltissimi almeno degl’italiani, di inettitudine a italianamente sentire i problemi italiani; non è vero? Ma quella specie di temperamento spirituale vecchio stile, che non osa perché non crede, rifugge dall’ardimento perché non vede vantaggio nel sacrificio, misura la fortuna nazionale dal benessere individuale, e ama perciò sempre camminare sul sodo, non compromettersi, non riscaldarsi mai, e cede ai poeti, alle donne o tutt’al più ai filosofi l’ideale, e mette volentieri da parte ogni questione che possa mettere in pericolo la concordia e il quieto vivere, e si compiace di scherzare su tutto e su tutti, e gettare sempre l’acqua fredda della prosa sugli entusiasmi della poesia, e raccomanda la moderazione a ogni costo, e ostenta un sacro orrore per le polemiche e le violenze, e inculca nel prossimo tutte le massime dell’egoismo, e riflette, studia, capisce, e la sa lunga come la quintessenza dell’accorgimento e della sapienza; questo non è ancora per troppi il non plus ultra della finezza tutta propria degl’italiani? Ci sono i massoni, i quali – si sa – hanno piantato il chiodo della famosa laicità, che non è per la religione né contro la religione; ma, anche non massoni, quanti italiani non preferiscono oggi tacere di cose religiose, e hanno ritegno e pudore di scoprire e difendere i propri convincimenti, quando ne hanno? Tutto ciò è la vecchia Italia, l’Italia dell’individualismo, l’Italia del Rinascimento; quando anche il martirio dei filosofi era infecondo perché non onorato, e inonorato perché conforme alla logica delle loro stesse dottrine, tutte individualisticamente rinchiuse in un mondo senza rapporti con quella vita, in cui era la concreta realtà e in cui si urtava perciò necessariamente, e vi s’incontrava quindi il martirio. L’uomo allora non sentiva la sua personalità innestata nel mondo sociale a cui ciascuno appartiene, in cui soltanto può vivere con i suoi interessi umani, con la sua famiglia, con la sua fede di uomo morale che ha dei doveri, un programma da realizzare, una verità da professare. Giacché niente vive nel segreto dell’animo nostro che non ci tragga ad uscire di dentro, a predicare quello che è la nostra verità, a comunicarla altrui, a potenziarla di tutte le energie che vi possono concorrere per la collaborazione, per la convivenza, per l’accomunamento della nostra vita morale. Ogni fede accomuna gli uomini.
L’italiano del Rinascimento fino a Galilei
L’uomo del Rinascimento, o Signori, poté sì grandeggiare nell’arte, perché l’arte è sogno che astrae dalla realtà, in cui pure gli altri uomini e il mondo a cui è legata la nostra vita e con cui facciamo tutt’uno, e spazia nel libero mondo della fantasia dove l’individuo è creatore e signore assoluto delle proprie creature. Grandezza di artisti, che è il suo difetto; poiché in questa libera vita che ci scioglie da ogni legame, si perde il duro sentimento di quella che può dirsi la realtà storica, dov’è la nostra famiglia, che ha tanti bisogni, che sono pure bisogni nostri poiché a noi tocca di soddisfarli e moralmente non possiamo farne a meno; e ci sono tutti gli altri uomini, con cui la stessa necessità di soddisfare i nostri bisogni ci stringe in un indissolubile vincolo, con doveri comuni in un sociale organismo a cui la persona è avvinta e a cui sono pure legate tutte le nostre fortune e per la cui salvezza ci conviene pertanto fare ogni sforzo ed esporre perfino la vita. E però questi nostri poeti ed artisti e pensatori, uomini colti e raffinati, non sentirono la patria. E gli italiani poterono essere ammirati e insieme disprezzati; e le loro città poterono essere conquistate col gesso; e fu possibile ad esempio una disfida di Barletta, perché agl’italiani non mancò il valore personale e anche nell’arte di addestrare e condurre gli eserciti si seppe eccellere, e famosi furono molti dei nostri capitani: ma un esercito italiano non si ebbe mai, non ci fu mai una battaglia che si potesse dir vinta dagli italiani. L’arte stessa infine doveva decadere. Perché neanche l’arte può vivere fuori di quel mondo morale, che diciamo ideale: quel mondo che l’uomo attua con lo sforzo del suo spirito, ponendosi al disopra della vita che egli sarebbe portato a vivere naturalmente insieme con tutti gli altri viventi; e lo attua perché comincia a vagheggiarlo come quella migliore realtà, che non esiste ma che egli può far esistere e deve: tanto più, quanto più alto ne è il valore. Ora tutti i valori nessuno li scorge ed apprezza ed idoleggia come qualcosa che appartenga al chiuso segreto della sua coscienza; bensì sempre come qualcosa di universale, a cui tutti aspirano, e che è certamente patrimonio di tutti. L’arte stessa perciò diventa giuoco; e spetta alla letteratura italiana quel genere che nel Cinquecento ebbe tanta fortuna: la poesia bernesca. E fin dal Quattrocento arte e cultura poterono ritenersi “vanità”: quelle vanità a cui si ribella l’anima eroica di Savonarola, che pagò qui in piazza con la vita la sua ripugnanza allo spirito frivolo e scettico del Rinascimento. Troppo egli pigliava la vita sul serio, quando di tutti gli uomini rappresentativi dello spirito italiano nessuno la pigliava davvero sul serio. Troppo egli voleva dall’uomo, quando l’uomo mancava. E mancò per secoli, l’uomo, mentre dilagava l’accademia. Di cui, ripeto, non riusciamo ancora a guarire. Non è un accademico, un letterato, anche il grande Galilei? Al cui genio innovatore, al cui pensiero rigorosamente scientifico noi c’inchiniamo. Ma quando ne studiamo la vita trepida e guardinga, quando ne leggiamo quelle lettere così ossequiose, quando lo vediamo, egli, il più grande italiano tra i coetanei, prosternarsi innanzi ai signori che gli danno lo stipendio e l’agio di studiare, o destreggiarsi ed infingersi ai piedi degli Inquisitori purché lo lascino meditare e scrivere e coltivare la sua gloria letteraria, e mai un accenno o un gesto sdegnoso a quei diritti, che in lui si conculcavano, mai una fiera rivendicazione della propria dignità di pensatore e di uomo, mai una qualsiasi allusione alla tristezza dei tempi e della patria, mai un generoso sentimento per i grandi pensatori perseguitati, morti o viventi, al cui pensiero il suo tuttavia si annodava, allora non possiamo non sentire che anche in questo grande italiano qualche cosa di ciò che è essenziale mancava: e l’uomo era inferiore allo scienziato. E anch’egli indulge alla frivolezza dei cosiddetti poeti contemporanei; e scherza e ride in capitoli berneschi contro i suoi avversari scientifici. Neanche in lui c’è una fede.
Vico e il suo tempo
Tra Galilei e Vico quale abisso! A distanza di meno di un secolo ecco spuntare uno spirito nuovo. Paragonato a Galilei, che pure ammira, ed a tutto il Rinascimento, al quale per tanti rispetti si riconnette anche lui, Giambattista Vico pare che appartenga a un altro popolo, a un’altra storia. Vuole essere anche lui un letterato ed è gelosissimo della sua gloria letteraria; ma non sa concepire altro fine agli studi che «coltivare una specie di divinità nell’animo nostro». Il suo pensiero, la sua vita, tutto l’uomo è assorto in una visione religiosa della storia, che è il nuovo mondo scoperto dalla sua filosofia. Filosofo oscuro, strano agli occhi dei più, scrittore di libri che egli stesso oscuramente sentiva portare una rivoluzione in tutto ciò che si era sempre pensato, e iniziare un’epoca nuova nello spirito umano, ma che nessuno gli voleva stampare, e quando egli li stampava con grave sacrificio suo e della sua numerosa famiglia, nessuno capiva, e coloro tra i suoi stessi amici e colleghi, a cui egli li regalava, non gliene facevano cenno, e scantonavano quando s’imbattevano nell’autore, per non essere costretti a parlargliene. Poi per lungo tempo ammirato bensì, talvolta per i lati meno importanti del suo pensiero, ma incompreso: solitario, come torre altissima in un deserto. Intorno a lui nessuno spirito fraterno, che collabori e intenda e illustri qualche parte almeno del suo sistema. Ed egli non ride mai. Quando tenta il riso, la satira gli si trasforma in invettiva, e si sente la grande amarezza dell’animo turbato da meschini avversari inintelligenti dell’alta sua visione del divino, a cui nessun uomo si volse mai ridendo. Con Vico risorge la coscienza religiosa italiana, si comincia a sentire che la vita va presa sul serio: si comincia a udire una voce che, quando verrà ascoltata, scenderà profondamente negli animi, e li porrà di fronte a problemi che non sentivano più da secoli in Italia.
Alfieri
Vico è già secolo XVIII, benché si possa dire che egli sia contro tutto il secolo XVIII: il secolo dell’astratto razionalismo, dell’illuminismo, del materialismo, dell’individualismo. Nella seconda metà dello stesso secolo ecco un altro grande spirito solitario e d’eccezione: un altro precursore o profeta (come egli stesso si definisce) di un’Italia opposta a quella del Rinascimento: Vittorio Alfieri. Un altro italiano che non ride: e scrive satire e commedie, ma non meno fiere delle sue tragedie; e ha il culto anche lui delle “lettere”, ma per risolvere questo problema, che è il suo problema e il problema dell’Italia della fine del Settecento e dell’alba del secolo seguente: il problema dell’uomo. Egli sente che non può essere letterato chi non è uomo, un carattere, una volontà. Volere, essere sé stesso, perciò affermarsi fieramente, accamparsi nel mondo con la propria coscienza, nella gelosa tutela e difesa di sé medesimo, con un proprio pensiero, anche oscuro, e un proprio programma, anche modesto: porsi come una persona libera e padrona di sé, nel proprio essere particolare, ma anche nella propria coscienza di cittadino, di italiano, e così di uomo che sia veramente uomo: questo il problema letterario di Alfieri, che è anche il problema morale di tutti gli uomini, e il problema degl’italiani che cominciano a riscuotersi dalla torpida soggezione spirituale agli stranieri, a sentirsi italiani, e ad avvertire quel che ad essi occorre per non restare al di sotto delle altre nazioni: non restarvi moralmente, per non restarvi politicamente. L’influenza della personalità e dell’insegnamento dell’Alfieri sulla generazione successiva, che è poi la generazione del ‘21, è grandissima.
Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale
Ma già nei primi del secolo XIX, a Milano, centro della nuova vita italiana, sotto l’impulso che la Rivoluzione e Napoleone hanno dato alla coscienza nazionale, c’è uno scrittore, fino a pochi anni fa non conosciuto e non apprezzato in misura adeguata alla sua importanza storica: uno scrittore, che non riuscì in nessuna opera a dare forma matura ed intera al suo pensiero, ma con un saggio storico mirabile di acume politico, di profondità filosofica e di senso storico dell’anima italiana, con una specie di romanzo storico, artisticamente sbagliato ma ricco di pensieri eloquentemente espressi, e soprattutto con un’attività giornalistica di copiosa vena, di alta ispirazione e di grande efficacia, riuscì a piantare nel cervello e nel cuore degl’italiani suoi contemporanei – a cominciare dai sommi, Foscolo e Manzoni – il concetto e il sentimento di una nuova Italia. La quale già albeggiava all’orizzonte, ma si poteva promuovere con una nuova educazione morale, politica, militare, e insieme filosofica e letteraria. Un’Italia consapevole del passato glorioso, non per insuperbirne vanitosamente, ma per trarne argomento e nuove speranze, e a virili propositi di risorgimento a dignità di nazione. Vincenzo Cuoco, storico, pensatore, scrittore, riprende il pensiero del Vico, ne schiarisce e volgarizza alcuni concetti fondamentali, illumina con essi la mente dei contemporanei, ne fa strumento di un nuovo ideale morale e politico del popolo italiano; e accende una grande fiaccola a capo della via, su cui s’incamminerà nel secolo nuovo il popolo vaticinato dall’Alfieri. Dopo di lui il problema soprattutto morale dell’astigiano si fa politico: e diventa il segreto del nostro Risorgimento. Rifare la tempra, la coscienza, il carattere degli italiani; i quali non potranno mai ottenere quello che non avranno meritato e conquistato da sé. Gl’italiani, che con Napoleone avevano imparato a combattere, cominciano a sentire come si possa dare anche la vita per vivere; almeno per vivere quella vita che è necessaria all’uomo che la pigli sul serio. Risorge il sentimento religioso. I nostri patrioti, in un modo o nell’altro, concepiscono religiosamente la vita.
Mazzini
Signori, il tipo del patriottismo italiano, che ci ha dato una patria; quegli a cui noi ci rivolgeremo sempre con animo reverente e grato, perché egli fu il profeta più alto e più vero del Risorgimento, l’Ezechiele della nuova Italia, che per lui finalmente è risorta tra le nazioni, ed è in piedi ormai, e sa e afferma che c’è anche lei nel mondo, con i suoi doveri ma anche coi suoi diritti, e non cadrà, non giacerà più, poiché la vecchia Italia di cui abbiamo parlato, se non è ancora tutta morta, deve morire: fu Giuseppe Mazzini. Egli insegnò agl’italiani come si ama, e come si acquista una patria; insegnò che cos’è la vita in cui la patria si può amare e acquistare, e quali sono perciò i doveri degli uomini. Orbene, egli (come un suo zibaldone giovanile ci ha testé rivelato) lesse, trascrisse e meditò gli articoli più italianamente ammonitori di Vincenzo Cuoco, senza neanche saperne fautore. E forma con lui una catena. La quale unisce tutti gli artefici del nazionale Risorgimento, poiché tutti risentirono direttamente o indirettamente l’influsso del suo spirito o lavorarono sopra una base che egli con l’ardore della sua fede e col fervore della sua instancabile operosità creò, dando un principio, un orientamento e un concreto programma ai cospiratori pullulanti per tutta Italia prima di lui. E giunge fino a noi, e stringe e conclude in un’idea e in una fede tutta la storia di questa Italia nuova che si compie a Vittorio Veneto, sfolgorando e annientando il suo antico avversario. Ora, il vangelo mazziniano sopravvive alla meraviglia del Risorgimento, poiché è la fede dell’Italia che ne è sorta; di quella giovane Italia che il Mazzini evocò. È il vangelo fascista, è la fede della gioventù del 1919, del ‘22, d’oggi: della gioventù ideale di quest’Italia, che è fatta e deve essere ancora fatta; e rimane perciò giovane anche nel cuore dei canuti, che sentano la verità della fede che fu preconizzata da Giuseppe Mazzini. Sono pochi gli articoli di questa fede; e perché pochi, e sparsi, non avvolti nelle maglie d’un laborioso e solido sistema filosofico, da prender tutto o tutto lasciare, poterono essere afferrati facilmente e compresi da moltitudini di spiriti ben disposti. E s’appresero a migliaia di cuori giovanili e vi misero radici, e germogliarono e fruttificarono, sicché molti giovani poterono poi staccarsi da Mazzini per quelle cose accessorie, che tante volte gli uomini s’intestardiscono a considerare essenziali; e poterono dimenticare d’essere stati una volta mazziniani; ma ne riportarono il cuore rifatto e il petto fortificato.
Il concetto mazziniano della Libertà
Il primo articolo era ed è: combattere il materialismo. Il Mazzini, senza essere un filosofo di professione, come un Rosmini o un Gioberti, combatté tutta la vita tenacemente, fieramente, efficacissimamente il materialismo. Era infatti la prima radice di tutte le debolezze e magagne di cui si dovevano liberare gli italiani per sentire veramente la patria e fare quindi un’Italia. La patria è legge e religione, che richiede l’assoggettamento del particolare a un interesse generale e perenne, a una idealità superiore a tutto ciò che c’è stato e c’è, negl’individui passati e presenti, e che per ogni singolo individuo è tutto quel che esista o abbia valore. Ma per il materialista non c’è altro che l’individuo particolare, coi suoi istinti, col suo attaccamento alla sua vita particolare, come a bene supremo e assoluto, col suo bisogno di godere; di godere lui stesso, e gli altri in quanto il loro godimento rientri nel suo e lo aumenti: il «particolare», di cui parlava il vecchio Guicciardini, l’uomo “savio” del Rinascimento, l’italiano vecchio stampo. E il Mazzini sentì che questo materialismo è indegno dell’uomo che pensa; sentì che nessun uomo veramente può vivere vita degna di chiamarsi umana ispirandosi al materialismo, che fu per lui sinonimo d’individualismo. In verità, o Signori, anche torcendo gli occhi per vile desiderio del proprio comodo dagli alti ideali della patria, del dovere, dei vincoli morali di fratellanza che avvincono a una stessa vita tutti gli uomini, chi è che possa anche chiudersi pigramente nell’angusto ambito dei suoi pensieri e della sua egoistica vita di passione gretta e misantropa senza pensare, per lo meno, e confidare a sé medesimo i propri pensieri? E si può pensare, senza tenere per ferma la verità di quel che si sta pensando? E ci può essere per alcuno verità così soggettiva che non valga se non per lui che se ne contenta, senza che gli dia diritto di affermarla e proclamarla quando che sia, come quella verità in cui chiunque debba consentire, almeno se la guardi dal suo stesso punto di vista? E si può dire parola, anche nel silenzio dell’animo nostro, la quale, se pronunziata, non abbia o sia per avere mai significato per altri? O non sentiamo tutti piuttosto il contrario? Il pensiero prorompe irresistibilmente e s’afferma e s’espande e propaga; perché noi lo pensiamo, ma come pensiero di tutti, che unisce infatti nella verità uomini di luoghi e tempi lontani. E la parola non ci suona dentro senza tendere da sé a pronunziarsi e suscitare intorno sempre più vasta onda di moto spirituale, di cui essa sia l’espressione o forma vivente. E quella stessa parola che ci resta chiusa nel segreto del cuore è un anello di una catena: è parte di un discorso da tempo iniziato e che sarà proseguito, e fu espresso da altri e sarà, se non altro lasciando una traccia (al pari di tutte le parole che facciamo sonare all’orecchio altrui) nell’animo nostro, dove non si cancellerà più ancorché si dimentichi, e riecheggerà in altre parole e azioni, con cui ci rivolgeremo agli altri uomini. Così sempre la parola ci lega insieme, come cosa nostra e non nostra: nostra e degli altri. Degli altri che ci sono e ci saranno; e degli altri che ci sono stati; poiché la parola ha una storia, è nazionale, ossia di tanti che non parlano se non per la nostra lingua. Dunque? L’individuo particolare è un prodotto dell’immaginazione, mediante la quale ognuno di noi si rappresenta sé stesso come uno dei tanti, nella folla, circoscritto dentro gli estremi limiti della nascita e della morte e nel breve confine della sua persona fisica. Laddove quel che è ognuno di noi, egli lo sente bene dentro sé stesso in quanto ha un diritto da affermare, un sentimento da esprimere, un ricordo da rammentare, una parola da dire, un’immagine luminosa da gettare nel canto, nel suono, nel colore e insomma in una forma eterna: e in generale una fede, una qualunque fede, alta o umile, a cui afferrarsi per palpitare nel ritmo incessante della vita spirituale, da cui è impossibile, per giuochi d’immaginazione, estraniarsi mai totalmente. Anche al tempo del Mazzini c’erano i liberali che mettono l’individuo a capo di tutti; i liberali che noi abbiamo ancora tra i piedi, e ricalcitrano e si oppongono al movimento irresistibile della storia. E il liberalismo levava al tempo del Mazzini una fiammante bandiera, quella bandiera della libertà che anche Mazzini adorava, e per cui anch’egli combatteva. E la libertà era allora, politicamente, bisogno della nazione verso gli stranieri e bisogno dei cittadini verso lo Stato; era la questione principale. Ma già Mazzini diceva che la vera libertà non è quella del liberalismo individualistico, che non conosce nazione al disopra degli individui, e non intende perciò la missione che spetta ai popoli, né il sacrificio a cui sono tenuti i singoli. E contro questo liberalismo egli lanciava l’accusa dell’esecrato, cieco ed assurdo materialismo.
Il concetto di Nazione
Libertà, sì, diciamo oggi anche noi, ma nello Stato. E lo Stato è nazione; quella nazione che pare qualche cosa che ci limiti e ci assoggetti a sé, e ci faccia sentire e pensare e parlare e prima di tutto essere a un certo modo: italiani in Italia, figli dei nostri genitori e della nostra storia, che ci sta alle spalle e ci mette un cuore in petto, e in bocca una favella, a quel modo stesso che la natura, in generale, con le sue leggi, ci fa nascere con una certa forma e figura e destina a una certa vita ben definita e fondamentalmente irriformabile. Pare, ma è altro. Un altro degli articoli della fede mazziniana, altra gloria immortale del Mazzini, è questo concetto: che una nazione non è un’esistenza naturale, ma una realtà morale. Nessuno la trova perciò dalla nascita, ognuno deve lavorare a crearla. Un popolo è nazione non in quanto ha una storia, che sia il suo passato materialmente accertato, ma in quanto sente la sua storia, e se l’appropria con viva coscienza come la sua medesima personalità; quella personalità, alla cui edificazione gli tocca di lavorare giorno per giorno, sempre; che perciò non può dir mai di possedere già, o che esista come in natura esiste il sole o il monte o il mare; ma è piuttosto prodotto di volontà attiva che s’indirizza costantemente al proprio ideale; e perciò si dice libera. Un popolo è nazione se conquista la sua libertà, apprezzandone il valore e affrontando tutti i dolori che può richiedere tale conquista e raduna la sue membra sparse in un corpo solo, e si redime, e fonda uno Stato autonomo, e non presume ma crea il proprio essere con l’assistenza di Dio che si rivela ed opera nella sua stessa coscienza.
Questo l’alto concetto mazziniano della nazione, che poté infatti riscuotere il sentimento nazionale degl’italiani, e porre il nostro problema nazionale come problema di educazione e di rivoluzione: di quella rivoluzione, senza la quale neanche Cavour sarebbe stato in grado di fare l’Italia. Questa la nazione, per cui gl’italiani non potranno non sentirsi sempre affiliati della Giovine Italia mazziniana e oggi si dicono fascisti. La nazione sì, veramente, non è geografia e non è storia: è programma, è missione. E perciò è sacrificio. E non è, né sarà mai un fatto compiuto. Non sarà mai quel grande museo che era l’Italia una volta per gl’italiani, che lo custodivano e lo sfruttavano, e per gli stranieri che venivano a visitarlo, gettando un po’ di monete in mano ai custodi. Sì, musei, gallerie, monumenti d’antica grandezza e splendore: ma a patto di sentircene degni, a patto di volerne essere degni, e non cacciar farfalle sotto l’arco di Tito né sedere smemorati a feste e commemorazioni accademiche in Campidoglio; a patto di stare fieramente a difesa delle memorie con opere che riprendano le tradizioni più vetuste e il passato nobilitino nel presente e nell’avvenire. E le memorie siano patrimonio da difendere non con l’erudizione, ma col nuovo lavoro, e con tutte le arti della pace e della guerra, che quel patrimonio conservino rinnovandolo e accrescendolo. Ed ai monumenti aggiungiamone anche dei nuovi, se vi piace. Innalziamoli sulle nostre piazze a ringagliardire la tempra, ad onorare i vivi più dei morti nella consacrazione delle memorie recenti, più gloriose veramente di quante ne abbia la storia italiana, e per elevare nell’ammonimento di ricordi generosi la nostra coscienza di liberi cittadini di una grande nazione. Poiché, ove s’intenda così la nazione, anche la libertà più che un diritto è un dovere: un’alta conquista, che non si ottiene se non attraverso l’abnegazione del cittadino pronto a dare tutto alla sua patria senza nulla chiedere.
Ritorno del Fascismo allo spirito del Risorgimento
Anche questo concetto della nazione, sul quale oggi noi insistiamo, non è un’invenzione fascista. È l’anima di quella nuova Italia, che a poco a poco deve aver ragione della vecchia. Il fascismo, col suo vigoroso sentimento dello slancio nazionale che trasse gl’italiani al fuoco della Grande Guerra e fece loro sostenere vittoriosamente la tragica prova, con la sua energica reazione ai materialisti di ieri che tentavano annientare il valore di quella prova e prostrare l’anima dei cittadini nello scoraggiamento disperato della stanchezza e dell’ansia di un benessere tanto più impazientemente bramato quanto più difficile ad ottenersi; il fascismo agita innanzi agli occhi del popolo la grandezza e la bellezza del sacrificio compiuto come il suo più grande patrimonio per l’avvenire. E così ha scosso un’altra volta con mano possente la coscienza degl’italiani affinché si ricordassero d’esser figli d’Italia e si ricordassero delle condizioni, che resero possibile questa Italia, fin dal suo primo Risorgimento; delle condizioni che diedero ai nostri padri il modo di vergognarsi dell’antico servaggio, uscire dall’inerzia, liberarsi dal vecchio abito della retorica e della letteratura, cominciare a parlare seriamente di libertà. Il fascismo è ritornato allo spirito del Risorgimento con quel maggior vigore che poteva derivare dalla coscienza nuova della grande prova compiuta con tanto onore dal popolo italiano e dalla certezza della sua capacità di battersi e di vincere e contare insomma nella storia del mondo. Vi è ritornato con un impeto insofferente di ogni fiacchezza e di ogni viltà, in un ardore irrefrenabile di ridestare la nazione dal recente e certo momentaneo oscuramento e assopimento della sua coscienza, perché il frutto dell’immenso sacrificio non andasse disperso, perché il posto finalmente meritato e già quasi raggiunto di grande potenza, ossia di nazione che ha una sua volontà, non si perdesse affatto di vista, anzi diventasse oggetto di questa volontà, per essere conquistato e mantenuto saldamente.
La violenza fascista
In questo ardore impetuoso il fascismo, quando lo ha creduto necessario, è ricorso alla violenza. Della qual cosa gli uomini della vecchia Italia a un certo punto hanno mostrato di scandalizzarsi. A un certo punto; perché in un primo tempo quella violenza servì a qualche cosa anche per essi: quando lo Stato pareva andare in sfacelo, e non era più in grado di garantire l’ordine pubblico. Il che, com’è naturale, presentava qualche inconveniente anche per chi fosse disposto a lasciar disperdere e calpestare gli stessi valori morali della guerra, e a continuare a sorridere della religione mazziniana della nazione, purché l’individuo avesse dai poteri pubblici la sicurezza della vita, dal lavoro al pensiero, per tutta la serie delle libertà naturali; in altri termini, purché ogni galantuomo che pensasse a sé e alla sua famiglia fosse lasciato vivere, una buona volta, dopo tutte le privazioni e le corvées della guerra! E per quel primo tempo anche i manganelli degli squadristi parvero una grazia di Dio. Ma, una volta riordinato lo Stato, riacquistata la sicurezza della vita normale, dimenticate – è tanto facile dimenticare le noie passate! – le cause che resero necessaria quella violenza, non bastò che il Capo del Governo fascista dichiarasse che ormai il manganello andava riposto in soffitta, e che c’era ormai lo Stato, uscito dal fascismo, a promuoverne e difenderne gl’ideali; non bastò che lo squadrismo diventasse una milizia regolare, quantunque volontaria, dello Stato; non bastò protestare ogni giorno che tutto il fascismo non voleva più essere una forza fuori dello Stato: il manganello, nella sua brutalità materiale, divenne il simbolo della violenta anima fascista fuori da ogni legge. E con malvagia perfidia si sfruttò ogni delitto, ogni sopruso, ogni prepotenza che si perpetrasse da delinquenti di parte fascista (poiché un partito che tende a investire e permeare, e così a educare le masse, e conta più centinaia di adepti, non è meraviglia che comprenda nel suo seno anche dei delinquenti, dei profittatori, dei prepotenti, sul cui conto esso possa ingannarsi, e che riesca a conoscere ahimè troppo tardi e con suo proprio danno) per colpire moralmente questo fascismo che ormai diventava un’ira di Dio. Ed ecco una predicazione di francescana dolcezza e carità del prossimo, che non s’era mai sentita in Italia. Ecco un quaccherismo di cui gli italiani non avevano avuto esempio. Ecco la solita questione morale, con cui in Italia s’è cercato sempre di scrollare i governi forti, che avessero una certa consapevolezza di quel che sia lo Stato, che se non è forte, non è Stato. Non voglio insistere su questo punto. La vecchia Italia questa volta deve aver pazienza e nella questione morale aspettare il giudizio della storia. Il fascismo non si confonde cogli uomini che, qua o là, oggi o domani, possono rappresentarlo: è un’idea, un movimento spirituale, che trae la forza da sé medesimo, dalla propria verità, dalla propria rispondenza a bisogni profondi, storici e nazionali. E quello che oggi ognuno può notare è questo fatto curioso: che gli avversari sapendo che il fascismo è un’idea, non se la pigliano con questo o quel fascista, ma con tutti i fascisti, senza distinzione. O almeno con quelli che si fanno avanti e lottano per il fascismo. Contro di essi questi predicatori di francescana carità – che ora si dicono liberali! – scaraventano dalla mattina alla sera botte da orbi: ridicolo, invettive, accuse fantastiche, diffamazioni, calunnie che sanno di esser tali. Una violenza di linguaggio e un cinismo calcolato dei mezzi di combattimento da degradarne un brigante. E nessuno di costoro se ne fa scrupolo: neanche i letterati e filosofi che pullulano, per ovvie ragioni, nell’antifascismo, come pullularono sempre nella vecchia Italia contro cui il fascismo è insorto. Dire a un galantuomo «tu sei una bestia, o un profittatore o un violento, un appaltatore di delitti o un istigatore di malefatte», questo per i nostri liberali innocentissimi non è violenza. Purché, stampata, la violenza non è violenza. Tanta è la magia del sincerissimo culto per la libertà di stampa. Ora, o Signori, diciamolo chiaro ancora una volta per tutti gli uomini di buona volontà. C’è violenza e violenza; e nessun fascista mai, degno di marciare sotto un gagliardetto, le ha mai scambiate. E chi le avesse scambiate, non è degno di stare con noi; e sarà espulso, quando sarà scoperto. C’è la violenza del privato, che è arbitrio, anarchia, disgregazione sociale; e se il fascismo non è una parola vuota di senso – ciò che neanche gli avversari pretenderanno – nessun nemico codesta violenza ha trovato mai più risoluto, più schietto, più formidabile del fascismo. Ma c’è un’altra violenza, che è voluta da Dio e da tutti gli uomini che credono in Dio e nell’ordine e nella legge che Dio certamente vuole nel mondo: la violenza per cui tra la legge e il delinquente non c’è parità; e non è possibile ammettere che questi liberamente si persuada ad accettare o meglio a chiedere quella pena, che pure, come giustamente osservò un grande filosofo, è un suo diritto. La volontà della legge annulla la volontà del delinquente: cioè è una santa violenza. E gli uomini, a cominciare da Gesù, ad atti di violenza ricorsero, sempre che ritennero fermamente che essi rappresentassero la legge, o un interesse superiore ed universale. Nella Chiesa Cattolica non solo i domenicani, ma anche i seguaci di San Francesco. Nello Stato sempre tutte le forze armate. Quando lo Stato fu in crisi, sempre gli uomini della rivoluzione che è l’instaurazione di un nuovo Stato. Il fascismo è una rivoluzione? La sua idea è certamente rivoluzionaria. A negargli il carattere rivoluzionario sono coloro che parlano con un enorme sproposito dei modi pacifici, e vogliono forse dire incruenti, della marcia su Roma, ma sono tutti i giorni impegnati a deplorare e a denunziare urbi et orbi la violenza sanguinaria e irriducibile del fascismo.
La ricorrente barbarie di Vico
Noi abbiamo ricordato tra gl’iniziatori memorandi della nuova Italia il grande filosofo napoletano Giambattista Vico. Ebbene, sorrideranno forse i nostri profondi contraddittori a sentire che il buon filosofo cattolico della Scienza nuova è tra i maestri spirituali del fascismo. Ma io li rimando allo studio della “morale eroica” del Vico propria nell'età in cui, sotto il terrore degli dèi, i primi uomini abbandonano per pudore la Venere vaga e con la forza e le violente passioni conformi ai disegni della Provvidenza fondano le famiglie e quindi la società e lo Stato; li rimando alla sua dottrina della ricorrente barbarie onde in eterno (e perciò non soltanto in epoche determinate, ma sempre che occorra e per quanto occorra) si torna alla forza violenta per riordinare e far risorgere gli Stati degenerati e corrotti dalla libertà propria delle nazioni più civili dove la ragione tutta spiegata abbia via via prodotto un regime di assoluta eguaglianza civile. Quante volte il fascismo non è stato accusato con inintelligente malevolenza di barbarie? Ebbene sì: intendete il significato giusto di questa barbarie, e noi ce ne vanteremo, come di sane energie frantumatrici di idoli fallaci e funesti, e restauratrici della salute della nazione nella potenza dello Stato consapevole dei suoi sovrani diritti, che sono i suoi doveri. La nostra barbarie sdegnerà la falsa cultura intellettualistica traviatrice e falsificatrice, prona e indulgente alle velleità individualistiche e agli egoismi anarcoidi, come sdegnerà la falsa pietà e la ipocrita fratellanza e perfino le regole del galateo che divezzino dalla rude e sana franchezza e avvezzino al reciproco inganno e a tutte le intollerabili tolleranze; ma accenderemo nell’anima italiana una sete inestinguibile del sapere che è fatica e riforma interiore dell’uomo e conquista di mezzi morali e materiali per una vita sempre più alta, sempre più feconda, al particolare e alla nazione, anzi all’umanità e al mondo, che è nostro, o Signori, poiché in esso viviamo e di esso; ed educheremo i nostri figli, i giovani che ci stanno intorno vibranti d’entusiasmo, a sentire che la vita non è piacere, ma dovere, e che si ama il prossimo non procurandogli e agevolandogli il quieto vivere anzi aiutandolo e allenandolo al lavoro, al sacrificio. Così i genitori amano davvero i figliuoli: non carezze e moine, ma premura operosa vigile austera e preveggente, affinché ognuno sia pronto e pari alle necessità della vita, alle leggi del mondo, al dovere.
Dottrina fascista dello Stato
Dalla nostra mazziniana coscienza della santità della nazione, come realtà che si attua nello Stato, noi traiamo i motivi di quell’esaltazione che siamo soliti fare dello Stato. Esaltazione che pare una nuova retorica agli scettici vecchio stile, che ci guardano, ammiccano, sorridono, tra lo scemo e il furbesco: e ripetono mormorando: statolatria! È la solita fissazione del liberalismo, che il Mazzini diceva individualistico e materialistico! Mi torna in questo momento al pensiero quel che diceva nel 1882 un valentuomo, che fu anche lui un liberale, ma un liberale di buona lega, uno di quelli che credevano davvero nella libertà, e l’amavano seriamente. «Noi siamo a questo – diceva egli lamentando i disordini del parlamentarismo e le prepotenze dei radicali contro lo Stato da essi ridotto strumento dei loro capricci e delle volubili pretese delle folle o delle cricche –; noi siamo a questo, che dello Stato in Italia s’è smarrito perfino il ricordo della sua etimologia». Lo Stato, rispetto almeno all’arbitrio individuale, deve stare: deve reggere, come qualcosa di fermo, saldo, incrollabile. Legge e forza: legge che si faccia valere e non ceda ogni volta che al singolo non piaccia o non torni a favore di questa o quella categoria. E perché sia questa forza, deve essere potenza, interna ed esterna: capace di realizzare la propria volontà. Volontà razionale, o ragionevole, come tutte quelle che possono non rimanere allo stadio di semplice velleità, ma tradursi in atto e trionfare; ma volontà che non ne può ammettere altre che la limitino. Quindi, volontà sovrana, assoluta. La volontà legittima dei cittadini è quella che coincide con la volontà dello Stato che si organizza e si manifesta per mezzo dei suoi organi centrali. Rispetto alle relazioni esterne ed internazionali, la guerra, in ultima istanza, sperimenta e garantisce la sovranità dello Stato singolo nel sistema della storia, a cui tutti gli Stati concorrono. E lo Stato dimostra nella guerra la propria potenza, che è come dire la propria autonomia.
Stato etico
Questo Stato che vuole, anzi è la sola volontà concreta, – poiché tutte le altre si possono dire volontà solo astrattamente, in quanto si prescinde dai rapporti indissolubili onde ogni individuo è legato alla società e ne respira quasi l’atmosfera come lingua, costume, pensiero, e interessi, aspirazioni – questo Stato, dico, non sarebbe volontà, se non fosse una persona. Giacché per volere bisogna avere coscienza di quel che si vuole, dei fini e dei mezzi; e per aver una tale coscienza, bisogna prima di tutto aver coscienza di sé, distinguersi dagli altri, affermarsi nella propria autonomia, come centro di attività consapevole; insomma, essere persona. Ma chi dice persona, dice attività morale; dice una attività che vuole quel che deve volere, secondo un ideale. E lo Stato che è coscienza nazionale e volontà di questa coscienza, attinge da questa coscienza l’ideale a cui esso mira e indirizza tutta la sua attività. Perciò lo Stato non può non essere una sostanza etica. Consentitemi questa terminologia filosofica. Il significato è trasparente, se ognuno di voi si appella alla propria coscienza e vi sente la santità della Patria che comanda, con ordine che non si può discutere, di essere servita senza esitazioni, senza eccezioni, fino alla morte. Lo Stato ha per noi un valore morale assoluto, come la persona in funzione della quale tutte le altre hanno un valore, che coincidendo con quello dello Stato è pur esso assoluto. Ponete mente: la vita umana è sacra. Perché? L’uomo è spirito, e come tale ha un valore assoluto. Le cose sono strumenti, gli uomini fini. Eppure la vita del cittadino, quando le leggi della Patria lo richiedano, deve essere sacrificata. Senza queste verità evidenti e perciò piantate nel cuore di tutti gli uomini civili, non c’è vita sociale, non vita umana. Stato etico? I liberali adombrano. Non si rendono chiaro conto di questo concetto; e perciò levano le più alte proteste, e si appellano a tradizioni, i cui princìpi sono la negazione d’ogni realtà morale, quantunque derivino da una preoccupazione di ordine morale; e precipitano in quel materialismo, che fu proprio del secolo in cui la dottrina liberale classica venne formulata. I liberali oppongono che la moralità è attributo dell’individualità concreta, che è la sola vera volontà, la sola personalità nel senso proprio della parola; e lo Stato non è se non il limite esterno delle libere personalità individuali, le cui attività deve conciliare impedendo che l’una si realizzi a danno delle altre. Questo concetto negativo e vuoto dello Stato, il fascismo respinge risolutamente; non già perché presuma di porre uno Stato al di sopra dell’individuo; ma perché, secondo l’insegnamento già ricordato di Mazzini, non è possibile concepire l’individuo in un astratto atomismo che lo Stato poi dovrebbe comporre in una sintesi impossibile. Noi pensiamo che lo Stato sia la stessa personalità dell’individuo, spogliata dalle differenze accidentali, sottratta alla preoccupazione astratta degl’interessi particolari, non veduti e non valutati nel sistema generale in cui è la loro realtà e la possibilità della loro effettiva garanzia; personalità ricondotta e concentrata nella loro coscienza più profonda: dove l’individuo sente come suo l’interesse generale, e vuole perciò come volontà generale. Questa profonda coscienza che ognuno di noi realizza e deve realizzare dentro di sé come coscienza nazionale nel suo dinamismo, con la sua forma giuridica, nella sua attività politica, questa base stessa della nostra individualità, questo è lo Stato. E concepirlo al di fuori della vita morale, è privare l’individuo stesso della sostanza della sua moralità. Lo Stato etico del fascista non è più – s’intende – lo Stato agnostico del vecchio liberalismo. La sua eticità è spiritualità: personalità che è consapevolezza; sistema che è volontà. E sistema vuol dire pensiero, programma. Vuol dire storia d’un popolo raccolta nel fuoco vivo di una coscienza attuale e attiva. Vuol dire concetto di quel che si è, si può e si deve essere: vuol dire missione e proposito, in generale e in particolare, remoto e prossimo, mediato e immediato, tutto determinato. Lo Stato è la grande volontà della nazione; e perciò la grande intelligenza. Nulla ignora; e non si ritiene estraneo a nulla di ciò che tocca l’interesse del cittadino, che è il suo interesse: né economicamente, né moralmente. Nihil humani a se alienum putat. Lo Stato non è né una grande facciata, né un vuoto edificio: è l’uomo stesso; la casa costruita e abitata e avvivata dalla gioia e dal dolore del lavoro e di tutta la vita dello spirito umano.
Contro l’accusa di statolatria
È statolatria? È la religione dello spirito, che non sia precipitato nell’abietta cecità del materialismo. È la fiaccola agitata dal giovanile pugno fascista per accendere un vasto incendio spirituale in questa Italia che si è riscossa – ripeto – e combatte per la propria redenzione. Ma non si potrà redimere se non restaura nel suo interno le forze morali, se non si abitua a concepire religiosamente tutta la vita, se non si addestra nella semplicità virile del cittadino pronto sempre; senza esitazione, a servire l’ideale, a lavorare, a vivere ed a morire per la Patria, posta in cima ai suoi pensieri, veneranda, santa; e se non ama la milizia e la scuola che fanno potenti i popoli, e il lavoro come fonte d’ogni prosperità nazionale e privata, palestra di volontà e di carattere.
Fascismo e classi lavoratrici
E il fascismo, ribelle nella maniera più intransigente ai miti e alle menzogne del socialismo internazionalista dei senza patria e senza doveri, esasperatore del sentimento del diritto e quindi dell’individualità in nome di un astratto e vuoto ideale di fratellanza umana, il fascismo, che questo Stato forte etico concepisce non come plumbea cappa soffocatrice d’ogni germe che fermenti nella vita spontanea della nazione, anzi come la forma suprema e l’unità cosciente e possente di tutte le forze nazionali nel loro maggiore sviluppo successivo, non torna a cacciare dalla scena politica il proletariato che vi fu introdotto ed esaltato dal socialismo. Lo Stato etico deve scaturire dalla stessa realtà e perciò aderirvi; e da questa aderenza derivare la sua forza e la sua potenza. Perciò oggi il fascismo si travaglia a riorganizzare sopra un fondamento nazionale e in perfetto accordo col suo concetto morale dello Stato le masse lavoratrici; e vagheggia una forma di ordinamento che, sottraendo lo Stato alla menzogna convenzionale del vecchio Parlamento dei politicanti di professione, vi componga in assetto tanto più durevole e solido quanto più dinamico tutte le forze sociali, economiche ed intellettuali, onde si generano le sane e schiette correnti politiche del paese. Non entrerò in particolari, che potranno essere corollari della dottrina fascista, ma non sono il fascismo. Non sono i corollari che danno significato storico al nostro movimento. La sua importanza è nell’idea, nello spirito animatore; quello contro il quale, ne siamo certi, portae inferi non praevalebunt.
II Fascismo è religione
Signori, il fascismo è un partito, una dottrina politica. Ma il fascismo, – e questa è la sua forza, lo sappiano quelli che ancora non se ne sono capacitati; questo è il suo gran merito, e il segreto del prestigio che esercita su tutti gli animi che non sono vittima del chiacchierio maligno e interminabile di certi giornali – in tanto è un partito, una dottrina politica, in quanto prima di tutto è una concezione totale della vita. Non si può essere fascisti in politica e non fascisti, come ricordavo testé alla Sezione del Fascio, in scuola, non fascisti nella propria famiglia, non fascisti nella propria officina. Come il cattolico, se è cattolico, investe del suo sentimento religioso tutta la propria vita, e, parli ed operi, o taccia e pensi e mediti nella propria coscienza, o accolga e nutra dei sentimenti, se veramente è cattolico, e ha senso religioso, si ricorderà sempre del più alto monito della sua mente, per operare e pensare e pregare e meditare e sentire da cattolico; così il fascista, vada in Parlamento, o se ne stia nel Fascio, scriva sui giornali o li legga, provveda alla sua vita privata o conversi con gli altri, guardi all’avvenire o ricordi il suo passato e il passato del suo popolo, deve sempre ricordarsi di essere fascista! Così si adempie quella che veramente si può dire la caratteristica del fascismo, di prendere sul serio la vita. La vita è fatica, è sforzo, è sacrificio, è duro lavoro; una vita in cui sappiamo bene che non c’è da divertirsi, non si ha il tempo di divertirsi. Innanzi a noi sta sempre un ideale da realizzare; un ideale che non ci dà tregua.
Non possiamo perder tempo. Anche dormendo, dobbiamo rispondere dei talenti che ci sono stati affidati. Dobbiamo farli fruttare, non per noi che non siamo niente, ma per il nostro paese, per la Patria, per questa Italia che ci riempie il cuore con le sue memorie e con le sue aspirazioni, con le sue gioie e con i suoi travagli, che ci rampogna per i secoli che i nostri padri perdettero, ma che ci riconforta con i recenti ricordi, quando lo sforzo italiano apparve un miracolo; quando l’Italia tutta si raccolse in un pensiero, in un sentimento, in un desiderio di sacrificio. E furono appunto i giovani, fu la giovine Italia del Profeta, che fu pronta, corse al sacrificio, e morì per la Patria. Morì per l’ideale per cui soltanto gli uomini possono vivere, per cui gli uomini possono sentire la serietà della vita. E pensando a questi ricordi recenti in cui si concentrano tutte le memorie della nostra stirpe, in cui e da cui prendono le mosse tutte le speranze del nostro avvenire, noi che abbiamo coscienza di italiani, coscienza fascista, noi sentiamo di non potere i nostri seicentomila morti non vederli sempre innanzi a noi, risorti ad ammonirci che la vita deve essere presa sul serio, che non c’è tempo da perdere, che l’Italia deve essere fatta grande come essi la videro nel loro ultimo sogno, come grande deve essere e sarà se anche noi per essa ci sacrificheremo, giorno per giorno, sempre.