Wednesday 25 April 2012

Storia del fascismo (1932)

(Pubblicato nell'Enciclopedia Italiana, 1932)

di Gioacchino Volpe


Storia

Il nome di fascismo (da fascio, unione di forze, più o meno omogenee, ma tenute fortemente insieme da vincoli ideali e disciplinari, in vista di fini comuni da raggiungere), ci riconduce, per non uscir dalla fase storica in cui veramente il fascismo nasce, ai Fasci di azione rivoluzionaria, sorti per opera di Benito Mussolini nel gennaio del 1915, durante la lotta per l'intervento dell'Italia in guerra, e composti di elementi di sinistra, socialisti a fondo rivoluzionario e sindacalisti, tutti piccoli borghesi e operai o ex-operai, in rotta con gli altri partiti. Rappresentarono, questi fasci, l'interventismo popolare o rivoluzionario, numericamente non grande, moralmente e politicamente importante, perché spezzava la solidarietà neutralista del socialismo italiano; apriva una breccia nelle ideologie classiste e internazionaliste di quel partito e forniva lo spunto alla formazione di un socialismo nazionale; arricchiva di elementi e pensieri e voci nuove l'interventismo dei nazionalisti, dei liberali, dei repubblicani, dei democratici, sebbene non molto diverse, per il momento, le motivazioni interventiste di Mussolini e dei fasci da quelle di un Bissolati o dei radicali del Secolo, insomma degli uomini della democrazia. Ma diverso, in quelli, e specialmente in Mussolini, l'animo: energia e passione viva, perenne insofferenza delle posizioni raggiunte, capacità di rinnovarsi e adeguarsi alle mutevoli circostanze.

Indipendentemente dalle parole, il movimento interventista, specialmente in talune sue frazioni di sinistra, è da tener presente per l'intelligenza del fascismo che nasce nel 1919. Si vide allora giungere quasi a compimento il processo di corrosione dei vecchi partiti e iniziarsi le nuove formazioni politiche, determinate dal fatto nuovo che si chiama guerra, troppo grande perché potesse essere idealmente contenuto nel quadro di quei partiti. Si vide, sotto la spinta dei gruppi interventisti, la nazione farsi innanzi direttamente, fuori e contro la rappresentanza legale, e direttamente indirizzarsi al governo e al re, fiancheggiare il ministero Salandra che preparava l'intervento contro il Parlamento che lo osteggiava, imporre il ritorno di Salandra al governo dopo le sue dimissioni. La guerra ci sarebbe stata anche senza l'interventismo. Ma l'interventismo, che fu, a un certo momento, agitazione violenta di piazza, diede a essa un carattere rivoluzionario che altrimenti non avrebbe avuto. E venne la guerra. La quale, da parte sua, eccitò passioni patriottiche; ridiede piena e sentita attualità al Risorgimento e ai suoi uomini più rappresentativi, in specie a quelli che più visibilmente incarnavano lo spirito volontaristico e l'iniziativa popolare, Mazzini o Garibaldi; avvicinò e fuse, nella figura del combattente, elementi sociali che erano ancora lontani e chiusi gli uni di fronte agli altri; attrasse nel cerchio ideale della nazione ceti e gruppi sociali ancora ignari o restii; fece emergere, insieme, la forza della massa e la forza degl'individui singoli, nonché delle piccole formazioni selezionate, fatte di uomini disposti a tutto osare, risvegliando nella nazione il senso del valore di questa forza di individui e di élites; spinse in alto, sulla scala dei valori militari, gente del popolo e della piccola borghesia che poi, riluttante e incapace di tornare nei vecchi ranghi, opererà come energico fermento rivoluzionario, nella società italiana ancora così mobile. Si aggiungano, a questo, gli spostamenti della ricchezza e la formazione di nuove stratificazioni sociali un po' sopra il popolo dei lavoratori (operai specializzati, artigiani fattisi piccoli industriali, mezzadri divenuti coltivatori o affittuari, ecc.): aspiranti poi a trovare un loro posto adeguato, anche nell'ordine politico, e disposte a seguire questa o quella bandiera, e magari prima questa e poi quella, che le guidasse e le portasse alla vittoria. Si aggiungano gl'illimitati poteri conferiti allo stato, anche nei rapporti economici della produzione e degli scambi: ciò che, per un verso, incoraggiò il partito socialista italiano, pur avversissimo alla guerra e sdegnoso di fronte a questa specie di socialismo di stato, ma disposto a riconoscere in esso un efficace apporto al vero socialismo; per l'altro, stimolò la varia reazione del dopoguerra contro lo stato monopolistico, paternalista, burocratico e lo sforzo verso una nuova e diversa costruzione dello stato, a base di decentramento e di organi periferici, inquadrati e contenuti in uno stato tanto semplice di struttura quanto forte di energie morali. Nel tempo stesso, la guerra fu una grande prova per la vecchia classe di governo, poco mutata sostanzialmente nel sessantennio dell'unità. E dalla prova, questa classe uscì piuttosto logora e screditata, non ostante la vittoria finale: sia perché parve che non bene avesse preparato militarmente, moralmente e, in ultimo, diplomaticamente il paese al terribile cimento; sia perché sembrò incapace di adeguare spirito, mente, sistemi di governo alle necessità dell'ora. Di fronte alla massa di uomini nuovi che la guerra aveva mobilitato e avvalorato ed energicamente educato, apparve sempre più sparuta e fiacca quell'oligarchia di dirigenti, una specie di trust per l'esercizio del potere, riservato ai vari e alternantisi gruppi personali, avversi e pur solidali, che da 50 anni governava l'Italia. Non meno logoro e screditato il sistema parlamentare, in sé stesso, come funzionamento e rendimento. Trovatasi la Camera a legiferare sulle cose della guerra, mentre alla guerra la maggioranza o una forte minoranza era avversa o mal disposta, essa diede al governo più impaccio che aiuto, al paese più materia di scandalo che conforto a resistere.

Si giunse così alla fine del grande cimento, conchiuso vittoriosamente sul Piave e sul Grappa. Ma cominciò allora un altro dramma che è un po' il dramma di tutti i dopoguerra. Ma ora, dramma proporzionato a tanta guerra e, in Italia, maggiore che negli altri paesi vincitori; pari, quasi, a quello dei paesi vinti, poiché anche noi uscimmo dalla guerra con la psicologia di un popolo vinto. Le delusioni amareggiarono l'anima della nazione. Si scatenò il risentimento verso gli alleati che cercavano di ridurre a nulla il merito nostro e i frutti nostri della vittoria. Precipitarono nel discredito gli idola, cioè i princìpi animatori della guerra, un po' nostri un po' accattati dagli alleati, lasciando vuoti e disorientati gli spiriti. Si spezzò, davanti ai problemi della ricostruzione interna e dei rapporti con l'estero, il fronte unico degli antichi interventisti, e alla collaborazione, sia pur fredda e condizionata, sottentrò una fiera polemica fra quelli che stavano fermi al patto di Londra e quelli che volevano transigere e “rinunciare”; fra quelli che abbandonavano agli Slavi la Dalmazia per aver Fiume, e quelli che pretendevano Dalmazia e Fiume e altro ancora, compreso o no nel patto di Londra, ma dovuto a noi dagli altri per lo sforzo grandissimo da noi compiuto nell'interesse generale della coalizione, maggiore assai di quello a cui, nel 1915, erano parsi adeguati corrispettivi le pattuizioni di Londra. Esplose apertissimo e violento, poi, il cruccio degli ex-neutralisti di parte liberale o conservatrice, parlamentari, giornalisti, uomini di lettere, che rinfacciarono agli avversari gl'inutili sacrifici, sparsero ironia e sarcasmo su entusiasmi e speranze e illusioni degl'interventisti, risero delle “radiose giornate”, come gli altri chiamavano quelle del maggio 1915, quando la minoranza interventista, con impeto idealistico, fece quasi rivoluzionariamente sentire e pesare la sua volontà di guerra. Con baldanza ancora maggiore, anche in seguito a queste interne scissioni della borghesia, risollevarono il capo i socialisti, come credessero ormai giunto il momento della loro guerra, non più alla frontiera ma nell'interno. Essi guardarono alla Russia, come a maestra e guida; inalberarono falce e martello; deliberarono di uniformare l'attività del partito ai princìpi di Lenin e di Trockij; invocarono pur essi la “dittatura del proletariato”, sola capace di dar la vittoria al socialismo. Ritenevano il regime borghese, ormai, in liquidazione. Qualcuno, cioè le classi lavoratrici, doveva raccoglierne l'eredità. Il momento, dicevano, poteva essere non buono: il capitalismo non aveva ancora compiuto il suo ciclo; e poi, la vita economica era depressa. Ma la guerra trascinava rapidamente al crollo il sistema capitalistico e i lavoratori dovevano assumere per necessità quella gestione. Il socialismo italiano ebbe una fase di vera ebbrezza. Aspettava il miracolo, la soluzione totalitaria e definitiva. Anche le masse erano ebbre. Cresciute le loro aspirazioni e aspettazioni: tanto della gente che era stata al sicuro nelle officine, satura di propaganda antibellica e sovversiva; quanto dei combattenti che tornavano stanchi, inquieti, disillusi del vecchio, illusi sul nuovo che sembrava prepararsi. Un po' essi abboccavano agli ami gettati nelle torbide acque dai politicanti, specialmente dai nuovi politicanti, peggiori degli antichi; un po' i politicanti si facevano interpreti, riecheggiatori, rafforzatori di queste aspettazioni apocalittiche e, sotto apparenza di precedere e guidare, seguivano e, anziché fare appello ai sentimenti migliori, lusingavano gl'istinti peggiori delle masse. E così non le frazioni più temperate del socialismo, più disposte e più preparate a un'eventuale collaborazione, prevalsero, ma le frazioni estremiste. E anche le prime non reagirono troppo alle seconde. Non avrebbero corso rischio di perdere ogni contatto e credito presso le masse? E le masse, allora, non si sarebbero buttate sempre più al bolscevismo? Così quei socialisti di destra dicevano. E così, volenti o nolenti, anche essi si colorarono un po' di quel colore rosso acceso, che era il colore dell'atmosfera di quel momento. Anche essi fecero il processo alla guerra e a chi l'aveva voluta. È giunta, proclamava alla Camera il deputato C. Treves, è giunta per l'Italia interventista e intervenuta l'ora dell'espiazione! E la sua voce aveva larghe risonanze. Per parecchi mesi, buona parte dell'Italia, pur uscita vittoriosamente dalla guerra, alla guerra volse dispettosamente le spalle; smarrì la coscienza del suo valore per la vita della nazione e per la fortuna dello stesso proletariato; rinunciò, anzi rigettò ogni titolo di gloria che dalla guerra e dalla vittoria poteva venire alla collettività e agl'individui.

Bisogna tener presente tutta questa vicenda italiana dal 1914 al 1919, crisi di vecchi partiti, interventismo rivoluzionario, discredito di ceti e istituti, violenta polemica di socialisti passati all'interventismo contro il partito, sentimento più profondo di problemi nazionali e sociali suscitato dalla guerra nei combattenti migliori, disillusioni ed esasperazione nazionalistica tanto contro gli ex-alleati quanto contro il governo che male amministrava il patrimonio della vittoria, rinnovata e più acerba offensiva dei socialisti contro la guerra, baldanzose speranze d'imminente e totale rivoluzione di tipo russo; bisogna tener presente tutto questo e altro, per spiegare il fascismo. Il quale cominciò a vivere nel sentimento e nel pensiero dello stesso creatore dei “Fasci di azione rivoluzionaria”, Benito Mussolini, un romagnolo di sangue caldo e di lungimirante volontà, giovane ancora ma ricco di varie e dolorose esperienze, socialista e direttore dell'Avanti! fino all'autunno '14, ma individualista per temperamento, fiducioso più nella virtù delle élites che delle masse, assetato di azione e di rivoluzione. L'interventismo e l'abbandono del partito non era stato per lui passaggio da un campo all'altro opposto, ma tedio di troppo lunga attesa; sdegno per lo spirito accomodante e l'incapacità rivoluzionaria del vecchio socialismo, caduto nelle mani di “politicanti”, dalla mentalità borghese e parlamentaristica; speranza di compiere con altri modi e per altre vie, pur sempre nell'orbita spirituale del socialismo, quella rivoluzione che gli altri ormai si dimostravano restii e inetti a fare; anzi, visione della guerra, di quella guerra specialmente, come di una rivoluzione essa stessa, contro la borghesia parassitaria, scettica e neutralista, contro la monarchia ritenuta germanofila e triplicista, contro gl'imperi centrali che rappresentavano l'autocrazia. Naturalmente, la guerra voleva dire anche patria, nazione e valori nazionali, solidarietà di classi, ecc. E Mussolini accettò ancora di più questi valori, che del resto egli già aveva cominciato a sentire e vivere quando, a Trento, si era trovato a combattere, insieme con Cesare Battisti, le battaglie di quel socialismo trentino che era anche, in un paese minacciato dal germanesimo, principio di nazionalità e affermazione italiana. Ma come il socialismo di Mussolini - che era specialmente una posizione di lotta - si aprì all'accettazione piena dei valori nazionali, così questi valori non misero troppo nell'ombra quel socialismo: il quale, respinto energicamente come partito, respinto anche come dottrina e come filosofia a fondo materialistico, rimase come sentimento, rimase come simpatia per il mondo del lavoro, come aspirazione a liberare le masse dal giogo del partito e dalla corruzione della politica, allo scopo di promuoverne l'autoeducazione, farne l'artefice diretto della propria fortuna, come del resto era nella concezione dei sindacalisti.

Così, avvicinando nazione e popolo, Mussolini poté attendersi dalla guerra tanto il trionfo della “libertà e giustizia” contro gl'imperialismi e le autocrazie; tanto la liberazione del proletariato italiano e il suo pieno entrar nella storia partecipando alla storia, cioè alla guerra; quanto l'elevazione del popolo italiano, la sua maggior compenetrazione con lo stato, il suo avvaloramento come nazione e forza internazionale. Era quasi il fondersi o mutuo fecondarsi, sotto l'alta temperatura della guerra, di problemi e sentimenti e pensieri sino allora in Italia quasi distinti nei vari gruppi politici, variamente innovatori, formatisi negli ultimi decenni, socialisti, sindacalisti, nazionalisti, nazionali-liberali, ecc. Nei quattro anni che durò la guerra Mussolini nel suo giornale, il Popolo d'Italia, batté e ribatté che la classe operaia non poteva prescindere dalla nazione; che le condizioni del proletariato italiano erano in diretta dipendenza del credito e della forza dello stato a cui apparteneva; che bisognava dare alla guerra un contenuto sociale, sentirla come impostazione e avviamento alla soluzione di problemi sociali; che il lavoro avrebbe dovuto avere una parte grandissima nella ricostruzione politica, economica, morale della nazione. E nei giorni dell'armistizio, scriveva che si doveva andare incontro ai lavoratori che tornavano dalla trincea, aiutarli, tener desta in loro la virile coscienza della propria forza e l'orgoglio della vittoria.


Il "movimento" fascista

Ed ecco Mussolini dopo la guerra, con il suo interventismo fieramente custodito nel cuore e difeso e tenuto alto come una bandiera, mentre vacillava o cadeva in altri; con la sua avversione, inasprita dalla polemica e diventata un po' anche questione personale, con i socialisti del partito; con quello spirito di sostanziosa democrazia che la guerra combattuta e sofferta in mezzo ai fanti aveva accentuato e che, liberatasi dall'involucro socialista, accennava sempre più a concretarsi in una concezione sindacalista, come del resto in tutti gli ex-socialisti passati attraverso l'interventismo. Interventismo e, ora, difesa della vittoria e di tutti i suoi beni, di tutte le sue possibilità, nessuna esclusa; antisocialismo e democrazia a base di sindacati; ecco i pensieri o, meglio ancora, le passioni da cui prese le mosse Benito Mussolini; ecco non solo gli elementi costitutivi di un programma politico, ma anche, e più, gl'impulsi all'azione, sentita come grande maestra e guida, come feconda creatrice di non pensate e non pensabili realtà nascoste nel misterioso avvenire.

Erano passati pochi mesi dall'armistizio, ed egli cominciò a chiamare a raccolta gl'interventisti del 1915. Un suo articolo del 3 gennaio 1919 portava il titolo “Verso la costituente dell'interventismo italiano”: come toccasse ad esso, e solo ad esso, tracciar le linee del nuovo ordine politico e istituzionale italiano. Ai primi di marzo, annunciava che intendeva fondare l' “antipartito”, cioè i fasci di combattimento, organo di azione e agitazione per tutta la penisola, destinato a volgersi tanto contro il misoneismo di destra quanto contro le velleità distruttive della sinistra leninista. L'antipartito sarà contro il partito socialista innanzi tutto, ma anche contro gli altri partiti: e non solo in quanto specifico contenuto dottrinale, ma anche in quanto partiti, cioè insieme di formule, di programmi ben delineati, di princìpi o dogmi. Egli vedeva in Italia grande volontà di rinnovamento, in tanti uomini e partiti, nel partito “popolare” nato da poco, in gruppi di liberali, nei combattenti che si venivano stringendo in associazioni, ecc. Da ogni parte, offensiva contro i vecchi uomini e le vecchie istituzioni; da ogni parte, programmi che molto, in fondo, si assomigliavano. Ma ciò che individua un partito, pensa e dice Mussolini, non è il programma: è il punto di partenza e di arrivo, cioè lo spirito animatore. Ora, per lui, il punto di partenza è l'intervento. Questo, il fatto caratteristico e distintivo, non solo di fronte ai socialisti ufficiali, ma anche a quegli uomini che, o mal disposti fin da principio verso la guerra o pentiti poi di averla promossa, o, comunque, pessimisti e scettici di fronte ai suoi risultati, vogliono ora astrarre da essa. Mantenendosi fermo sul terreno dell'interventismo, fatto dominante, egli rivendica a sé e ai suoi compagni di lotta il diritto e dovere di difendere la guerra e la vittoria e di trasformare la vita italiana dietro la scorta di quelle idealità che animarono l'interventismo. Nessun mezzo sarà pregiudizialmente escluso, per raggiungere questo scopo, uno e molteplice: neanche la rivoluzione. Ma sarà rivoluzione italiana, “i-ta-lia-na”, non moscovita. Questa rivoluzione è, del resto, cominciata nel 1914-15: e, continuata sotto il nome di guerra fino al 1918, vuole ora essere compiuta. Si apre nella storia un periodo che può essere definito di “politica delle masse”. E alle masse noi non possiamo metterci di traverso, dobbiamo solo dirigere il loro moto, additar loro certe vie. Innanzi tutto, liberarle dal partito socialista, sottrarle al fascino dei miti bolscevichi, orientarle verso una democrazia economica (rivendicazioni della classe operaia in fatto di lavoro, pensioni, controllo sulle industrie, anche per dar loro capacità direttive, per aiutarle a esprimere dal proprio seno i nuclei intelligenti e volitivi che sapranno assicurare la grandezza del paese, ecc.) e una democrazia politica (più diretta partecipazione alla vita pubblica, la legislazione e il governo affidati alle competenze tecniche, l'organismo statale trasformato con la istituzione di Consigli tecnici nazionali eletti dalle organizzazioni di mestiere e professionali e dalle associazioni di Cultura, ecc.). L'attuale regime italiano non è esso in crisi? Tutti hanno constatato, durante la guerra, l'insufficienza della gente che ci governa, l'insufficienza del parlamento e del sistema di cui esso è espressione e fulcro. Aperta la successione, noi dobbiamo non lasciarci sopravanzare da nessuno, da socialisti o da altri, ma conquistarla noi, facendo valere il nostro diritto che è il diritto di quelli che spinsero il paese alla guerra, lo condussero alla vittoria, lo condurranno a più alti destini. Insomma, gara con il partito socialista, per raccogliere una successione: solo che non del capitalismo e della borghesia, ma di certo regime politico e di certi ceti dirigenti intimamente legati a quel regime; e non in vista del collettivismo e della internazionale, ma della nazione italiana socialmente e politicamente rinnovata e internazionalmente accreditata.

Questi i pensieri e le parole di Mussolini, espressi o accennati nella sua fervida attività di giornalista e, a volte, di oratore, nei mesi che immediatamente seguirono alla guerra, quando cominciava il disorientamento delle idee, l'incertezza degli animi, la vasta e minacciosa inquietudine. del mondo operaio, ormai non più frenato dalla disciplina di guerra. Ma da questo mondo operaio, veniva anche qualche voce che poteva incoraggiar quei pensieri e quelle parole. Come fu nel marzo del '19, quando gli operai di Dalmine, nell'industre regione bergamasca, anziché abbandonare le macchine e gli opifici durante una vertenza con i proprietari, sbarrarono le porte, inalberarono il tricolore, proseguirono per conto loro il lavoro, votarono un ordine del giorno che, additando a scopo del loro sciopero lavorativo “l'interesse proprio e, ancor più, l'interesse dell'industria italiana e il bene del popolo tutto d'Italia”, sembrò a Mussolini avesse importanza storica e aprisse una strada nuova e diversa da quella che soleva battere il socialismo scioperaiuolo, egoista, classista, ora preso nell'incantesimo della Russia leninista. Mussolini si recò a Dalmine, parlò agli operai, li lodò che la classe non facesse loro dimenticare la nazione. Per la classe potevano fare lo sciopero vecchio stile, negativo e distruttore, per la nazione facevano quello creativo, che non interrompe il ritmo della vita produttiva. Come potevano, del resto, negare la nazione, essi che avevano lottato e sofferto per essa? In un tempo più o meno lontano, essi sarebbero giunti a funzioni essenziali nella società moderna; ora, su questo avvenire, essi avevano aperto un grande spiraglio. Per essi parlava il lavoro, non il “dogma idiota”; “il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, disperazione, perché deve diventare orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande entro e fuori i confini”.

Così, il Popolo d'Italia del 3 marzo 1919 indiceva a Milano, la città che era stata il maggior centro dinamico della guerra, con il suo interventismo del 1914-15, i suoi giornali largamente diffusi, le sue opere assistenziali, le sue industrie belliche, e adesso era anche il centro della propaganda rivoluzionaria, la maggiore speranza dell'attesa rivoluzione; indiceva a Milano un'adunata di collaboratori, corrispondenti, lettori, amici del giornale. “Da questa adunata, nasceranno i fasci di combattimento, il cui programma è racchiuso nella parola”. Vennero alcune centinaia di adesioni dalle provincie, anche dalle più lontane, da città e da piccoli villaggi, cominciando da Genova, che aveva pure avuto una parte notevole nella lotta per l'intervento; adesioni d'individui e anche di gruppi, sopravvissuti alla guerra o formatisi dopo la guerra per la propaganda e l'ordine interno o per le questioni adriatiche. Qui, associazioni locali di combattimento o di arditi di guerra o di volontari di guerra. Altrove, una “Lega antitedesca”, un “Fascio di azione patriottica” o di “difesa nazionale”, una “Unione popolare antibolscevica”, una “Lega della gioventù latina”, un “Fascio Nuova Italia” o “Italia redenta”, una “Pro Fiume” o “Pro Dalmazia”, ecc. ecc. In Mussolini e nel suo giornale, chi vedeva più le rivendicazioni territoriali (Fiume e la Dalmazia) minacciate a Parigi, chi l'affermazione del diritto dei combattenti di governare essi l'Italia, chi le idealità mazziniane e magari la repubblica, chi la sistemazione pratica dei reduci dalle trincee, chi la “libertà e giustizia” dei bei tempi 1914-15, chi la speranza di nuove battaglie. Ma, nella diversità, vi è un sentimento comune: la guerra da difendere e i valori ideali che l'avevano animata, quasi ricchezza da custodire, per molti l'unica ricchezza. E cominciava a operare come cemento anche la personalità di Mussolini. Il quale non era tanto nei suoi pensieri, quanto nella virtù di animatore, nella fiducia che sapeva ispirare, nella certezza che dava agl'incerti, quella capacità non solo di tenacemente volere ma anche di attuare questa volontà. Il suo nome era giunto un po' dappertutto, durante la guerra. Molti nemici, ma anche molta gente che gli faceva credito. Egli fondatore del Popolo d'Italia, combattente e ferito, grande flagellatore di socialisti, buon seminatore di coraggio nei momenti neri della guerra, sempre il primo a chiedere atti di energia al governo, disciplina agl'Italiani. E già al tempo del rovescio dell'ottobre 1917, attribuito dai più a deficienze del gabinetto Boselli, vi era stato, fra soldati e civili, chi, pur senza neppur concepire ancora Benito Mussolini al governo, aveva pensato e detto che “un Mussolini” avrebbe potuto mettere molte cose a posto. E ora, in vario modo, consentivano con Mussolini molti di quelli che avevano dato alla guerra non solo la loro materiale fatica ma un po' l'anima ed erano perciò da considerare variamente volontari.

Costituitosi il 23 marzo il fascio di Milano, in una riunione a cui assisterono un centinaio di aderenti di tutta Italia, altri fasci rapidamente seguirono: Genova, Torino, Verona, Bergamo, Treviso, Pavia, Cremona, Napoli, Brescia, Trieste, che fu la prima città redenta ad avere un fascio, per lottare contro un nemico che era, lì, uno e duplice: comunismo e slavismo associati. Enunciazioni di programmi particolareggiati, elenchi di riforme, non ce ne sono. Mussolini, come tutti quelli che si rivolgono al sentimento più che al pensiero, e con quel mezzo vogliono sollecitare l'azione chiarificatrice di pensieri, si teneva piuttosto nel vago. Accetteremo e promuoveremo, diceva, tutto quello che gioverà alla nazione, respingeremo il resto. Di pregiudiziali nessuna, monarchica o repubblicana, cattolica o anticattolica, socialista o antisocialista. Siamo disposti, diceva, ad accettare anche il socialismo, se si mostrasse rispondente all'interesse della nazione. Il fascismo cessa di essere fascismo, non appena si sceglie una pregiudiziale. Non abbiamo né vogliamo neppure statuti o regolamenti: solo una tessera personale e basta. Prendiamo contatto con altri gruppi costituiti e con uomini legati a quei gruppi: ma non stipulazioni, non intese formali e protocollate. L'essenziale è di sapere che queste forze possono essere utilizzate per uno scopo comune. Insomma, un “movimento”, non un “partito”. “Movimento sanamente italiano; rivoluzionario perché antidogmatico; fortemente innovatore perché antipregiudiziario. Movimento di realtà e verità che aderisce alla vita”. Giovinezza, impeto, fede. Il fascismo si proclama pragmatista. Non si propone finalità remote, ma l'organizzazione temporanea di tutti coloro che accettano date soluzioni di dati problemi attuali. Si contenta per ora di rimettere in movimento le forze rivoluzionarie dell'intervento, “tener unite con una forma di antipartito o superpartito gli Italiani di tutte le fedi e di tutte le classi produttrici, per sospingerle alle nuove e ineluttabili battaglie che si devono combattere, a complemento e valorizzazione della grande guerra rivoluzionaria”. Memore forse della difficoltà di deviare una corrente di uomini da una strada troppo tracciata, come egli esperimentò nel 1914-15, quando volle portare i socialisti italiani verso l'intervento a dispetto della vecchia dottrina e predicazione, Mussolini ora non vuol precludere a sé e ai suoi nessuna via, vuol essere libero e snodato, intende conservarsi integro il diritto e la possibilità di dirigere e rettificare giorno per giorno la rotta, adeguare ogni giorno le idee di dettaglio e le azioni alle esigenze del momento, in vista di scopi ultimi che per il momento si presentano forse, anche agli occhi suoi, velati nella nebbiosa lontananza, ma di cui è chiaro il momento negativo. Vi è, nel programma suo, un grande anelito di libertà: libertà per produttori dal peso dello stato paternalista e interventista, di cui si era fatta esperienza nella guerra; libertà delle masse operaie da ogni influenza deviatrice di partiti politici; libertà da ogni dittatura, “di tiara o scettro, di sciabola o capitale, di tessera o miti”. Insomma, spogliare di ogni involucro le forze vive di un popolo e lasciarle operare col massimo di spontaneità, per la soluzione dei problemi che la realtà ogni giorno pone. Parrebbe anche che il fascismo sia concepito come un piccolo ma potente fermento che deve penetrare e operare nella massa e sollecitarla, animarla, darle coscienza di sé. “Il Fascismo rimarrà sempre un movimento di minoranze” (Popolo d'Italia, 2 luglio). E minoranza essenzialmente cittadina. “Non può diffondersi fuori delle città”. Si direbbe che il nascente fascismo, che bene conosce le masse operaie urbane e fa qualche amichevole richiamo anche alla Confederazione generale del lavoro, con qualche speranza di riuscire a staccarla dal partito socialista e trarla a sé, ignori invece le campagne. E si capisce. Mussolini viene anche esso da quel socialismo che, se aveva fatto leva sul bracciantato rurale, vivente presso la terra ma non con la terra e della terra, si era trovato impotente davanti a piccoli proprietari, mezzadri, partecipanti di varia natura cioè alla vera gente dei campi, ai veri contadini. Il fascismo, poi, in quanto interventismo, era pure, egualmente, città. “Valori della guerra” sono, per il momento almeno, non i valori dei contadini che la guerra hanno sopportato e combattuto, nella grande maggioranza, solo con rassegnata disciplina, ma i valori della media e piccola borghesia cittadina.

Dal marzo in poi, si può assistere allo sviluppo dell'azione fascista, sempre più individuata in mezzo all'azione di altri gruppi affini. Essa si svolge in due direzioni principali. Innanzi tutto, resistenza e controffensiva alle agitazioni operaie promosse dai socialisti e, quindi, con fini di sovvertimento politico, con spirito di irreducibile avversione a quanto - uomini o cose - ricordasse la guerra. “Socialista”, antitesi assoluta di “interventista”. A metà aprile, urto sanguinoso, nel centro di Milano. Da una parte, manipoli di fascisti, di ufficiali da poco smobilitati, di ufficiali-studenti, cioè autorizzati a seguire i corsi universitari (ed erano quasi tutti del Politecnico); dall'altra, una numerosa turba di scioperanti. Questi si sbandarono; quelli diedero l'assalto all'Avanti!, vi penetrarono a forza, lo devastarono. “Primo episodio di guerra civile”, disse Mussolini. I fascisti non avevano essi organizzato questa piccola battaglia, ma se ne assunsero la responsabilità. Il Popolo d'Italia fu presidiato da operai e soldati, aderenti o simpatizzanti. Si accentuarono i rapporti e legami fra il fascio e gli altri gruppi politici, patriottici, sindacali, che lo fiancheggiavano. Apparve chiaro che alle forze di piazza, su cui i socialisti poggiavano, si venivano contrapponendo non voti platonici, ordini del giorno, propaganda oratoria o anche solo polizia e soldati, ma altre forze capaci di scendere anch'esse in piazza, guidate da uomini che avevano anch'essi l'abitudine e il fiuto della piazza. Apparve chiaro, anche, quale nuovo animo avesse creato in tutta la gioventù la guerra, la guerra combattuta con piena adesione spirituale.

E poi, altra attività: partecipare, insieme con le varie associazioni irredentiste, con gli arditi di guerra, con i volontari, ecc., alle agitazioni per Fiume e per la Dalmazia, contese all'Italia dagli alleati che nel mare nostrum ormai facevano da padroni, con aperto favoreggiamento alle aspirazioni slave. A maggio, apparve sulla scena D'Annunzio, col suo discorso dal Campidoglio alla folla raccolta in piazza e col suo grido Memento audere semper: quasi la nuova parola d'ordine degl'Italiani. E seguì, nel settembre, l'impresa di Fiume, preparata da un gruppo di ufficiali dei granatieri che in D'Annunzio cercarono e trovarono il loro capo, dopo che essi avevano dovuto abbandonare la città in seguito a sanguinosi incidenti avvenuti fra soldati coloniali francesi e cittadini di Fiume e al verdetto di una commissione d'inchiesta interalleata. L' impresa ebbe carattere di protesta tanto contro gli alleati quanto contro il governo italiano, troppo blando assertore dei diritti della nazione nei consessi interalleati. E significò che la marcia fino ai confini d'Italia, arrestata dopo Vittorio Veneto, riprendeva: riprendeva per iniziativa dei combattenti stessi. Ai reparti di truppa regolare che entrarono a Fiume con D'Annunzio, altri se ne aggiunsero: intiere unità. E navi e soldati di mare, accanto a fanti e artiglieri. Insomma, un principio di dissolvimento delle forze armate dello stato! Poi, la folla dei volontari che accorsero da tutte le parti d'Italia, quasi tutti giovani e giovanissimi, ex-combattenti e figli di mamma, nel cui petto fermentavano ricordi garibaldini, amore di avventura e di rischio. Fiume o morte! Parve allora che il centro dell'agitazione irredentista per le terre adriatiche si spostasse verso la travagliatissima città del Carnaro. Parve, anzi, che l'Italia della guerra fosse rappresentata da Fiume e da chi ne difendeva le fortune italiane. Si proclamò che le milizie dannunziane erano “l'esercito vittorioso”, Fiume la “vera Italia”, il governo di Fiume “il vero governo d'Italia”, opposto a quello che a Roma usurpava questo nome, al governo di Nitti, oggetto ora di fierissimi bersagli, specialmente dopo che alla Camera aveva deplorato il gesto di D'Annunzio e dei seguaci suoi, come ispirato da desiderio malsano di nuove guerre, e aveva contrapposto ai volontari fiumani operai e contadini, quasi sollecitandone la collaborazione contro gli altri. Si disse, anche: “il gesto compiuto a Fiume deve aver termine a Roma”. Iniziativa, dunque, non fascista e non mussoliniana, questa di Fiume. Ma si maturò essa e si svolse nella stessa atmosfera di passione politica, di esasperato patriottismo, di rivendicazione della guerra, di prosecuzione della vittoria. I fasci, poi, si mantennero in stretto collegamento coi legionari; Mussolini con D'Annunzio. Il Popolo d'Italia aprì una sottoscrizione nazionale per Fiume, promosse il concorso dei volontari, fu quasi l'organo del movimento fiumano nella penisola. Per un anno, che fu l'anno, per così dire, della minorità fascista, il fascismo alimentò il dannunzianesimo, il dannunzianesimo il fascismo. E Mussolini dové sentirsi confermato nella persuasione che le forze vive dell'oggi e del domani erano quelle che si ricollegavano idealmente alla guerra; dové arricchire la sua esperienza sulla capacità delle minoranze audaci a crear situazioni nuove; dové fare qualche assegnamento sul fascino di D'Annunzio. S'idearono già allora piani di “marcia su Roma”. Ci pensò Mussolini, ci pensò D'Annunzio. Non c'erano, lì, dieci e più mila volontari, disposti a tutto? Non c'erano armi in quantità? Certo, balenò allora il pensiero che Roma si dovesse e potesse strappare, anche con un atto di forza, agli uomini del vecchio regime che di lì governavano l'Italia, pavidi verso il bolscevismo interno e verso la plutocrazia internazionale.

Intanto i fasci crescevano di numero. Veniva determinandosi e specificandosi, anche in vista delle non lontane elezioni, il programma loro, di realizzazioni immediate e anche non immediate. E un programma fu lanciato il 28 agosto dal Comitato centrale dei fasci, residente a Milano. C'era, nell'ordine istituzionale, sociale, militare, finanziario, il suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, con voto ed eleggibilità anche delle donne; abbassamento del limite d'età per elettori ed eletti; abolizione del Senato; assemblea costituente che determinasse l'ordinamento da dare allo stato; Consigli tecnici del lavoro, dell'industria, dei trasporti, delle comunicazioni ecc., eletti dalle collettività professionali e di mestieri, con poteri legislativi e col diritto di eleggere commissioni straordinarie con poteri di ministri, legislazione del lavoro, otto ore, minimi di paga, partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alla gestione delle industrie o servizi pubblici, eventuale concessione della gestione industriale o dei pubblici servizi alle organizzazioni proletarie che ne fossero degne; milizia nazionale a brevi ferme e compiti solo difensivi; nazionalizzazione delle fabbriche d'armi, una politica estera che valorizzasse nelle competizioni pacifiche la nazione italiana nel mondo; forte imposta straordinaria sul capitale che avesse forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze; sequestro dei beni delle congregazioni religiose e abolizione delle mense vescovili, revisione di tutti i contratti per forniture di guerra e sequestro dell'85% dei relativi profitti.

Questo programma fu discusso a Firenze, il 9 ottobre, quando lì si riunì il primo congresso fascista, tra la curiosità piuttosto malevola dei mordaci e un po' scettici fiorentini. Lì si parlò anche di riforma immediata della burocrazia, secondo il principio di decentramento e della diretta responsabilità degl'impiegati; di riforma scolastica, per far della scuola un saldo strumento di coscienza nazionale e “una palestra di forza, audacia, eroismo individuale”; di politica estera, che avrebbe dovuto dinamicamente svolgersi contro gl'imperialismi stranieri, contro l'egemonia delle potenze plutocratiche. Siffatte riforme, si aggiunse, sono indispensabile base per ogni altra successiva riforma, per ogni soluzione di particolari problemi, come quello della terra, dello sfruttamento minerario e idraulico, della marina mercantile ecc. Vi fu anche - e fu F. T. Marinetti, rappresentante e capo del futurismo, fin da principio aderente ai fasci - vi fu anche chi propose l'espulsione del papa da Roma, cioè lo “svaticanamento dell'Italia”. Tutto sommato, un programma di estremo radicalismo, con non poche punte socialiste, anticlericali, ecc. Mussolini accennò anche al problema della monarchia, per constatare, solo constatare, che nei due ultimi mesi di settembre e ottobre, mantenendo al governo un demagogo e negatore della vittoria come Nitti, si era, col fatto, compiuta una propaganda repubblicana quale non si era compiuta prima con 50 anni di polemica giornalistica e libresca: che era non già abbracciare la pregiudiziale repubblicana, ma sì rivelare in modo non equivoco le inclinazioni del giovane fascismo. Né potevano queste inclinazioni meravigliar nessuno, solo che si ricordasse da qual parte venivano i più dei primi fondatori e ispiratori del fascismo.

Come si vede, i fasci ormai mettono gli occhi su ogni attività nazionale e cercano precisare: “Noi fascisti, dove possiamo dobbiamo affermarci; dobbiamo uscire dall'indistinto che ci circonda”. Così dissero a Firenze. Appare evidente che la lotta contro il bolscevismo e la stessa rivendicazione della vittoria possono aver sollecitato questo movimento fascista; ma che esso comincia a mostrare in sé, fuori dei motivi contingenti e occasionali, certa sua ragion d'essere: donde il suo durare e crescere, anche quando tali motivi scompaiono. Tuttavia, un programma come quello di Firenze non era tale, allora, da raccogliere molte adesioni. Piuttosto opposizioni e ironie: a parte la spiegabile guerra a fondo dei socialisti, fatta di avversione profonda e di timore. In Mussolini essi vedevano un transfuga e un rivale pericoloso, capace di combatterli con le loro stesse armi. E si sa che Lenin rimproverò nel 1920 i compagni italiani di essersi lasciato sfuggire un uomo come Mussolini. Così nelle elezioni politiche del novembre 1919, che posero fine alla Camera eletta nel 1913 e profondamente rinnovarono la rappresentanza nazionale, i fascisti milanesi, con Mussolini alla testa, dovettero contentarsi di poche migliaia di voti: che tuttavia non spaventarono il capo, anzi non gli tolsero la fiducia della rivincita, quasi la certezza, figlia un po' dell'orgoglio, un po' della visione quasi profetica del domani. Le elezioni furono invece un trionfo per il giovanissimo partito popolare, che vide un centinaio dei suoi uscire vittoriosi dall'agone. Esso raccoglieva un po' l'eredità del vecchio socialismo cristiano: solo che, ben presto, mostrò di essere, quanto a spirito e metodi, più socialismo che cristianesimo. Più ancora trionfarono i socialisti. Ne andarono 156 alla Camera, e con grande baldanza, con rafforzata fiducia nell'immancabile domani, con molta voglia, anche, di schiacciare il piccolo ma fastidioso nemico che si era messo alla calcagna del partito socialista.

Il partito popolare si mostrò subito disposto e desideroso, anzi impaziente, di salire al potere: e presto ebbe i suoi rappresentanti nel governo. Diversamente il partito socialista, nel quale seguitavano a prevalere le tendenze politicamente estremiste e intransigenti. Anzi, quanto più le agitazioni economiche davano risultati magri o negativi, tanto più esse puntavano su obiettivi politici e si proponevano scopi di rivolgimento totale, sull'esempio della Russia. Fu quello, in Italia, il momento del socialismo: 1919 e parte del 1920. Esso diede l'ispirazione, il nome, il favore o anche solo il pretesto e l'occasione a tutto quel che si fece e tentò contro l'ordine politico ed economico esistente: gli scioperi industriali, gli scioperi agrari, gli scioperi dei servizi pubblici, gli scioperi generali. Esso cercò di mettere le mani sugli strumenti della produzione, d'insediarsi presso tutte le leve di comando. Nel settembre 1920, dopo una lunga vertenza fra maestranze e industriali, vi fu l'occupazione delle fabbriche: quasi un mese di mal governo degli stabilimenti, non senza episodi di selvaggia violenza; un mese di sperpero o sottrazioni di materiali, di panico nel mondo degli affari e fuga di capitali, di disorientamento nel personale tecnico che era disposto, sì, a considerarsi, anche esso, “lavoro”, ma arretrava davanti alla rozza mentalità egualitaria delle masse. Manifestazioni estremiste non diverse nelle campagne. Invasioni di terre, specialmente nel Mezzogiorno, dove tuttavia antico era questo anelito come di rivendicazione di propri diritti, da altri usurpati ma non prescritti. E furono invasioni tumultuarie, di gente senza capitali e senza esperienza tecnica e magari senza nessuna consuetudine di vita campestre, perché molti venivano dalle botteghe e dai mestieri ed erano sollecitati dal miraggio della terra. Pure nel nord, invasioni di cascine e “consigli di cascina”, guidate e ispirati dai popolari ma guardati con lieto occhio anche dai socialisti, che vedevano in quelle folle contadinesche, suscitate dai popolari, altrettanta materia per il socialismo. Si moltiplicarono le leghe dei contadini, irrequietissime, anche in quelle regioni, come la Toscana, che erano state fino allora vantate come eden sociale.

L'estremo si ebbe nella bassa ferrarese e bolognese, che erano zone di bonifica e di bracciantato, cioè di lavoratori che con la terra avevano un vincolo debolissimo o addirittura nullo, trattandosi non di coltivatori ma di costruttori di terra. E qui, la vita fu resa impossibile ai ceti proprietari, circondati, insidiati, minacciati nelle persone, nel bestiame, nei raccolti. Anche quella minuta borghesia che negli ultimi anni si stava costituendo o accrescendo, fatta di mezzadri e affittuari e piccoli proprietari coltivatori, dovette, volente o nolente, entrar nelle leghe, sottoporsi alla loro disciplina livellatrice, accettare il monopolio della mano d'opera esercitato per mezzo degli uffici di collocamento, tutti nelle loro mani. Come resistere alle taglie, alla violenza personale, al boicottaggio, qualcosa di simile all'antica interdictio aquae et ignis o alla medievale scomunica? La lotta politica nulla più ebbe di legale. L'organizzazione operaia delle campagne, assicuratosi il monopolio della mano d'opera, mirava a impossessarsi della produzione, terra e macchine, spingendo al comunismo agrario. Non solo, poi, usurpazione crescente di poteri pubblici da parte degli organismi sindacali, ma tendenza di trasferire anche formalmente alle organizzazioni economiche i poteri delle amministrazioni pubbliche: insomma, uno stato in formazione, entro e contro lo stato che pareva assente o malamente presente. Ci fu poi un sistematico assalto ai comuni e alle provincie: e migliaia di quelli, diecine di queste caddero nelle mani dei socialisti che di lì intesero quasi abolire lo stato e la monarchia e loro leggi e simboli. Portarono cioè all'estremo quelle tendenze autonomistiche che allora erano, se pure con fini diversi, di tutti i partiti, più o meno: ma per i socialisti si risolvevano in tattica avvolgente per impadronirsi di quelle posizioni periferiche, per accerchiare, battere, espugnare lo stato borghese. E di questo non si faceva affatto mistero durante le elezioni comunali: nell'amministrazione dei municipi aver di mira la dissoluzione della borghesia, come potere di classe; preoccuparsi solo dell'interesse del proletariato; non tenere nessun conto dei limiti posti dalle leggi borghesi all'attività dei comuni. Comuni e provincie nelle mani dei socialisti vollero dire naturalmente un gagliardo punto d'appoggio per tutte le organizzazioni sovversive. Vollero dire l'amministrazione delle Opere Pie volta a fini politici. Vollero dire fiscalismo di classe. E poi, pletorica burocrazia nei municipi, nelle Opere Pie, nelle cooperative dei socialisti; rovinosi finanziamenti d'intraprese economiche; spesso, finanza allegra.

Il governo malamente fronteggiava questa offensiva socialista. Spesso, si direbbe, non la fronteggiò affatto, nelle cose grandi e anche nelle piccole, ma la lasciò avanzare. Un poco, poteva essere proposito. Nitti, che fu capo del governo dalla metà del 1919 alla metà del 1920, vedeva l'Italia del domani nelle mani di socialisti e popolari, grandi partiti di masse. Giolitti, che prese il posto di Nitti fino al principio del 1921, era pur sempre quello che venti anni prima era riuscito, col suo “metodo”, fatto di libertà e di “lasciar fare”, di adescamento o corruzione dei partiti, a togliere spigoli e punte alle agitazioni operaie. Ma era anche, e non meno, vera impotenza. Il Parlamento, grande impaccio all'azione di governo. Continue crisi e rimpasti. I gruppi parlamentari, irrequieti e avidi. Il partito popolare, ambizioso di essere arbitro della situazione. Don Sturzo, il suo capo, invadente ed esigente, sino a rendere difficile la vita anche a uomini di consumata esperienza e astuzia come Giolitti, e indurlo, in ultimo, a dimettersi. La ventata rivoluzionaria investiva anche gl'impiegati e turbava i servizi pubblici, specialmente le ferrovie. Non era solo lo sciopero: pur esso frequente, attuato o minacciato; ma tutto il servizio, subordinato al quotidiano arbitrio dei ferrovieri. Naturalmente, disorganizzazione piena dell'azienda; il furto ferroviario all'ordine del giorno; danni per l'erario a diecine di milioni ogni mese. Così accadde che, più di una volta, Nitti o i prefetti, a chi veniva ad invocare disperatamente aiuto dalle provincie, rispondessero: nulla da fare! Era come l'abbandono di lembi di territorio davanti a un' invasione nemica. Accadde che Giolitti assisté quasi passivo all'agitazione che precedé l'occupazione delle fabbriche e poi alla occupazione stessa. Solo a cose avvenute, si adoperò perché gli operai si ritirassero, dietro promessa del controllo sulle aziende. Non tutta era condannabile, nella sostanza, questa politica che cercava disarmare il socialismo rivoluzionario andando incontro a bisogni e aspirazioni di masse lavoratrici. Ma essa troppo prendeva l'aspetto di liquidazione fallimentare. S'incoraggiarono così le pretese degli agitatori, si diede l'impressione che lo stato smobilitasse tutto e non fosse più capace di tutelare beni e libertà dei cittadini. Anche perché quel che accadeva nei rapporti con i partiti sovversivi, accadeva nei rapporti con i nuovi sudditi di nazionalità tedesca o slava, ai quali si dava ragione di credere che il nuovo confine dell'Italia fosse cosa provvisoria. E quel che accadeva all'interno, trovava riscontro in ciò che accadeva nella politica estera. Nitti fu debolissimo con gli ex-alleati, tutto preso come era dalla paura che l'Italia, alle prese con i paesi fornitori di derrate e materie prime, potesse morir di fame. Tittoni, suo ministro degli Esteri, quasi rinunciò a Rodi, ripiegando di fronte ai Greci. Giolitti abbandonò nell'estate del '20 non solo l'Albania, dove si erano profusi miliardi, ma anche Valona dove ci si era proposti di rimanere: e ciò, sotto la pressione delle bande ribelli e, peggio ancora, dopo il piccolo ammutinamento dei bersaglieri di Ancona, destinati a imbarcarsi per l'Albania, non senza connivenza con il sovversivismo borghese, al quale si dovettero poi giorni di sanguinose violenze in quella città, nelle Marche, in Romagna. Mai come allora il credito italiano all'estero fu più basso; e, sopraggiunta poco dopo l'invasione delle fabbriche, più diffuso il timore o la speranza che l'Italia potesse crollare da un momento all'altro!

Contro questa condizione di cose, molte voci si levavano. Anche quella dei fascisti e di Mussolini, dalla quotidiana tribuna del Popolo d'Italia. Ma era, questa, voce piuttosto a sé. Difesa del buon diritto dell'Italia, resistenza agli alleati, saldo piede sul Brennero; ma non piangere, coi nazionalisti, per ogni scoglio perduto nell'Adriatico; non rifuggire da accomodamenti e transazioni per Fiume. “Noi siamo espansionisti, non imperialisti”. Costante interesse, poi, e simpatica attenzione per il movimento sindacale. Non grande scandalo neppure dell'occupazione delle fabbriche, nella quale Mussolini vede un po' la sua rivoluzione, svolgimento di quella iniziata nel 1914-15. Il controllo entrava addirittura nel programma dei fasci. Nella vittoria degli operai, anzi, egli scorge la fine di un rapporto giuridico plurisecolare, la fine del contrasto fra capitale e lavoro e l'avvicinamento di questi due necessari fattori della produzione. Giolitti non è, per lui, da rimproverare se non perché poco o nulla fece per prevenire l'invasione, per impedir poi la degenerazione politica, socialista, bolscevica di quel movimento sindacale. Esso doveva mostrare la potenza non l'impotenza dello stato. Può essere, aggiunse, che questa abdicazione si ripeta. E allora “noi invitiamo i cittadini, e particolarmente i fascisti, a prepararsi con tutti i mezzi per spiantare i piani bolscevichi del partito socialista”. Insomma, nessuna tregua col partito, ma braccia aperte alle organizzazioni operaie. E quanto al governo, aut aut: o si opporrà esso all'azione di quel partito o i cittadini e i fascisti si sostituiranno al governo.

Fu proprio quel che, ormai, stava avvenendo un po' da per tutto. Nelle Puglie, in Toscana, nel Basso Po, altrove, reazioni individuali e collettive. Nuclei di cittadini e fascisti entravano in azione. Nell'autunno 1920, già il fascio di Ferrara, centro di una zona fortemente dominata dal partito socialista, cominciava a irraggiare nelle campagne attorno. Rapide incursioni, come in territorio nemico, a protezione di lavoratori liberi o di proprietari minacciati; spedizioni punitive o di rappresaglia, per offese o violenze commesse; colpi di mano per portar via una troppo ostentata bandiera rossa; ronde notturne nella città; tentativi di crear fasci nelle borgate. Armati, inquadrati, comandati da ex-ufficiali, gagliardetti in testa e inni di guerra e nuovi canti, essi sono presenti ovunque è da rianimare la resistenza degli amici e tener a freno la baldanza degli avversari. Nel novembre e dicembre, poi, avvennero fatti decisivi a Bologna e Ferrara. A Bologna, l'uccisione, in pieno Consiglio comunale, dell'avvocato Giulio Giordani, combattente e mutilato, ora consigliere della minoranza liberale e fascista, provocò nella cittadinanza un moto d'irresistibile sdegno. Bologna era la più rossa città d'Italia, quasi la capitale del bolscevismo italiano, del nuovo stato in formazione. E quel fascio aveva vissuto, fino allora, vita grama, con qualche centinaio di giovani o poco più: una scapigliatura romantica! Ma ora, in poche settimane, ne ebbe un migliaio e compié la prima grossa azione di forza: l'assalto, la presa, l'incendio della Camera del lavoro, sotto la guida di Leandro Arpinati, un giovane che veniva dal popolo. A Ferrara, il 20 dicembre, una colonna di fascisti è fatta bersaglio di gente armata, in agguato sulla loggetta del castello estense, e semina di morti la piazza. E anche qui, energica insurrezione della cittadinanza, rapido sviluppo del fascio, più intensa azione nelle campagne. Ebbe inizio un martellamento sistematico di tutte le organizzazioni rosse, politiche o economiche, leghe, camere del lavoro, cooperative ecc., tutte legate a catena. Sorsero i primi fasci nelle campagne, strettamente uniti con quello della città. Qualche lega cominciò a inalberare il tricolore. Qualche altra, abbandonata dai capi e disfattasi, fu ricostituita su nuove basi. Si ebbero, così, anche i primi sindacati aderenti ai fasci, con elementi già, di buona o mala voglia, entrati nelle leghe rosse. “La vecchia sede dischiuse le porte alla patria”, dice un'epigrafe apposta sulla casa che ospitò il primo di questi sindacati di nuovo colore. C'era, nella regione, un “materiale uomo” assai sciolto e mobile. Non difficile ai socialisti, nel passato, organizzarlo. Ma neppur troppo difficile ora, dato il primo urto e rotto l'incantesimo, disorganizzarlo e riorganizzarlo ancora sotto altra insegna. Né fu solo questione di violenza fascista, che certo non mancò, sebbene più schietta e franca e aperta dell'altra, come di guerra vera. Ma si fece balenare anche una grande speranza: la terra ai contadini. Che era una speranza già dei combattenti, durante la guerra. E poi, fattori morali di varia natura, emozioni e suggestioni diverse: non escluso il fascino personale di qualche capo, dalle buone qualità di condottiero, ora capace di dar certa unità a questa amalgama di gente che, presa fra due parti, esposta a due opposti richiami, era incerta e disorientata. Per esempio Italo Balbo, allora poco più che ventenne, già volontario di guerra e alpino, mazziniano e fascista, uomo nuovo anche esso. Nella breve storia del fascismo, che va dal marzo milanese del 1919 all'ottobre italiano del 1922, questo momento, che possiamo chiamare romagnolo ed emiliano, con Ferrara e Bologna protagoniste, ha grande importanza. Non solo è guadagnata al fascismo una vasta plaga, centralissima; ma si ha l'inizio di una organizzazione militare dei fasci; l'inizio di un'organizzazione sindacale aderente ai fasci; l'inizio di un fascismo rurale, anche di contadini e braccianti. Il movimento fascista che, per tutto il 1919 e gran parte del '20, non aveva fatto grandi progressi e poco era uscito fuori dei maggiori centri urbani, dove poi trovava masse operaie ferme nei loro vecchi quadri e poco aperte ai suoi richiami, cominciò a trovare nelle campagne uno sbocco, un buon campo di azione e di esperimento, un solido punto d'appoggio, la prospettiva di possibilità avvenire quali forse gl'iniziatori non pensavano. E si alimentò, quel movimento, tanto dei nemici del socialismo, variamente nemici, quanto di gente che fino allora al socialismo aveva creduto, ma ora cominciò a credere ad altri.

Dal Ferrarese e Bolognese, venne agevolata la penetrazione del fascismo in Toscana, che era pur essa fortemente agitata e, nei primi del '21, fu teatro di selvaggi episodi di violenza sovversiva: come fu lo scempio di una diecina di marinai e carabinieri in servizio di ordine pubblico, a Empoli. E ne venne alimento allo spirito di reazione. Comparve il fascismo in regioni che fino allora gli erano chiuse: la Lomellina, terra di contadini, dominata dai popolari; la Lunigiana, terra di rozzi cavatori di marmo, che solevano dare molti adepti all'anarchia. Si rafforzò in Piemonte, in Puglia, in Abruzzo, dove molte sezioni dell'Associazione Combattenti crearono nella lor sede i fasci. Nelle regioni redente, esso era ben piantato a Trento, a Trieste, a Zara e a Fiume. A Trieste, anzi, con Francesco Giunta, segretario politico di quel fascio, si erano avute, fin dall'estate del '20, formazioni squadristiche di “Volontari per la difesa cittadina”, che avevano fatto la loro prova nell'assalto e incendio del Balcan, centro di attività comunistica e croata; e poi, un Ufficio Italiano del Lavoro, che fu un primo tentativo di organizzazione sindacale nazionale. Ora, da Trento, il fascismo dilagò nell'Alto Adige; e, nel febbraio del '21, sorse un fascio a Bolzano. Si trattava anche qui di sostituirsi all'azione manchevole dello stato, nella difesa degl'interessi italiani, minacciati da una ripresa del germanesimo. In pochi mesi, centinaia di fasci da per tutto, oltre quelli che cominciavano a sorgere fra le colonie italiane all'estero. E da per tutto, via via, la loro rudimentale organizzazione militare. Ogni fascio, una o più squadre di combattimento. Si diffondono quei motti e riti e gridi di guerra che diventano poi una cosa sola col fascismo. Si diffonde l'uso della camicia nera, elemento essenziale della divisa del fascista. Vuol dire, il nero, che egli ingaggia battaglia per la vita e per la morte? Ma nera era anche la cravatta svolazzante e il fez degli arditi di guerra e delle truppe d'assalto e dei legionari dannunziani. I quali, ora, cacciati da Fiume dopo l'occupazione delle truppe italiane, si vengono disperdendo per l'Italia, un po' appartandosi dispettosi dal fascismo, accusato quasi di tradimento verso la causa fiumana, un po' mescolandosi coi fascisti e portando anche essi un loro costume e loro motti, colori, riti, quasi da società guerriera. Audacia, impeto, non rifuggire dalla beffa agli avversari, affrontare con indifferenza la morte, ecco i caratteri di questa milizia. Me ne frego (cioè, nulla m'importa di morire) è il motto volgarmente ma efficacemente espressivo di tale stato d'animo. Grande, sui giovani, il fascino di quelle rapide azioni di guerra, di quei canti, di quella baldanza, di quel sacrificio cruento e lietamente affrontato, di quel religioso raccoglimento nel momento dell'appello ai caduti. Non è necessario chiedere, sempre, gli scopi ultimi di tutto questo. Era, non poco, l'avventura in sé stessa, l'azione per l'azione, specialmente nei più giovani che, cresciuti al lontano rombo della guerra, sono portati a concepirla e desiderarla come un bel gioco; e, non avendola potuta fare a suo tempo, cercano di farla ora, come e dove possono. C'è nel fascismo, specialmente delle origini, qualcosa che trascende la politica e i suoi problemi ed è, senz'altro, gioventù, gioventù italiana, gioventù di dopoguerra, gioventù che trabocca, quasi ringiovanimento della nazione. La rivoluzione fascista è, per metà, opera loro. Si forma anche il mito della gioventù, di fronte a cui l'uomo dei 40 anni deve quasi farsi perdonare di esistere.

È, tutto questo, “borghesia”, “classe borghese”, “interessi borghesi”? Sono innegabilmente in giuoco anche interessi borghesi. Innegabilmente, al centro di questa reazione sta la borghesia, che, depressa e discorde subito dopo la guerra, ora sta riacquistando anima e certo sentimento di unità. Ed Enrico Corradini, fondatore e capo del nazionalismo italiano, poteva rallegrarsi, in quei mesi, del promettente risveglio della borghesia in Italia, classe aperta, mutevole, capace sempre di ringiovanire e arricchirsi, classe dirigente per diritto e per dovere. Egli vedeva anzi, in questo risveglio, il miglior frutto della guerra. Ma tener presente che era borghesia agraria, piuttosto che borghesia delle industrie e degli affari (quest'ultima, contrastante col socialismo nei rapporti interni e di classe, ma piuttosto concorde nell'orientamento internazionalistico o supernazionale). Era, più che alta borghesia, piccola e media borghesia: la quale molto simpatizzava con le idee del nazionalismo e portò nel fascismo un poco di queste sue inclinazioni nazionalistiche, attirandosi sarcasmo a piene mani da liberali e filosocialisti come A. Tilgher e L. Salvatorelli, che vedevano in quei ceti rappresentato il parassitismo sociale e il patriottismo retorico. Era una borghesia in cui entravano largamente i ceti della cultura, che non avevano ricchezze da difendere. Era, infine, una borghesia passata attraverso la guerra, efficace solvente di egoismi di classe; e, in quanto ora si gettava a battagliare ed entrava nel fascismo, era rappresentata specialmente da ex-combattenti e da giovani, più disposti a riscaldarsi per un'idea e ad inseguire fantasmi di grandezza, che non a operare in vista di determinati interessi economici. Giustissimamente poteva Mussolini dire, nel settembre '21, davanti alle bare dei caduti di Modena: per questi giovani, l'Italia che invocavano non era la borghesia o il proletariato, la proprietà privata o collettiva. Ma è una storia, un orgoglio, una passione, una grandezza, una speranza. Quindi, borghesia sì, ma prevalentemente come somma di valori spirituali, accettabili e accettati anche da non borghesi. E nel 1921, sempre più numeroso entra nel fascismo o comincia a muoversi nella sua orbita o tende, attraverso i nuovi sindacati, a gravitar verso di esso il minuto popolo, che vi porta naturalmente la sua mentalità, le sue aspirazioni, i suoi bisogni, i suoi problemi, tutto quello che molti di esso avevano già portato al socialismo e il socialismo aveva anche promosso, nei limiti consentiti dalle sue rozze ideologie, dalla sua materialità, dalla sua angusta concezione classista. Questa larga immissione di popolo nel fascismo fa un po' da contrappeso alla non meno larga immissione di borghesia. Il fascismo comincia consapevolmente ad apparire come una grande rivoluzione di popolo, anzi la prima rivoluzione del popolo italiano, dopo lo sforzo delle minoranze borghesi che avevano fatto il Risorgimento. Dopo la guerra, che aveva potentemente avvicinato le classi, ecc., il fascismo, che fra borghesi e proletari conta, egualmente, amici e nemici e crea raggruppamenti nuovi fuori delle classi, su altre basi. Problemi diversi si assommano, in vista di una sintesi superatrice. A pochi giorni di distanza, Mussolini può rivendicare, di fronte al socialismo, il compito del capitalismo, che è non solo una macchina di sfruttamento ma anche una gerarchia, una elaborazione, selezione, coordinazione di valori; può proclamare che il mondo non va verso il comunismo ma verso l'anticomunismo, cioè verso “crescenti differenziazioni di valori e plenitudine di libertà e di vita” (Il “Pus” a congresso, in Popolo d'Italia, 14 gennaio 1921); e può nel tempo stesso preannunciare che, col trionfo del fascismo, si compirà l'unica rivoluzione possibile in Italia, quella agraria: la terra a chi li lavora, nei diversi modi voluti dai vari ambienti.

Nessuna meraviglia, perciò, se, ai primi del 1921, il partito socialista e tutto il movimento che su di esso s'imperniava apparivano già in declino di forze. Secondo la statistica, una cosa imponente: 156 deputati, 2500 comuni, 36 consigli provinciali, 1.800.000 voti ottenuti in questi ludi elettorali, 3000 sezioni del partito, 250.000 inscritti, 3 milioni di operai organizzati. Ma l'anima si affievoliva. Troppi materiali scadenti e materiali di rifiuto il socialismo aveva convogliato con sé, dando loro nulla più che un'etichetta. Troppe speranze aveva alimentate, che si rivelavano pure illusioni. Su troppo bassi istinti, su troppe negazioni, specialmente sulla negazione della guerra, aveva costruito o creduto di poter costruire. Mediocre psicologia, pensare che un popolo possa a lungo rinnegare gli sforzi compiuti, quali che essi siano; le sofferenze patite, qualunque sia la causa per cui si siano patite; rinnegare insomma sé stessi! Sintomo di questa crisi è la facilità con cui quell'edificio, qua e là, si sfalda e cade; i dirigenti si sbandano e grosse folle si disperdono all'urto delle squadre fasciste. Il partito stesso è venato profondamente di tendenze. E al congresso di Livorno, l'ala sinistra, i comunisti, si staccano e fanno partito a sé. Socialismo e comunismo sono falliti, commenta Mussolini.

Siamo al marzo 1921. Ricorre il secondo anniversario della fondazione dei fasci. E Mussolini può proclamare, senz'altro, che il fascismo, “grande mobilitazione di forze morali e materiali”, si propone di “governare la nazione”, per darle grandezza e prosperità. Il nostro programma, aggiunge, non si distacca molto da quello dei socialisti, quanto a organizzazione tecnica, amministrativa, politica. Ma noi agitiamo valori morali e tradizionali. Fra qualche mese, tutta l'Italia sarà nostra. Saremo una cosa sola, fascismo e Italia. È il tempo che molti giornali fascisti sorgono quasi in ogni regione. Appare, a Milano, la rivista Gerarchia, dal titolo significativo: direttore, Mussolini. Il Popolo d'Italia si apre a una serie di discussioni, che rappresentano il contributo degli intellettuali del fascismo alla chiarificazione dei problemi posti da esso o ad esso imposti dal suo stesso crescere. Si discute anche in convegni regionali, come quelli di Livorno e di Bologna: “Fascismo e stato”, “Fascismo e politica estera”. Politica estera ed economia nazionale, viste nei loro nessi. Revisione dei trattati, svincolo graduale dalle nazioni plutocratiche, sviluppo delle forze produttive interne, non essendoci autonomia di politica estera finché c'è vassallaggio verso chi dà grano, ferro, carbone. Avvaloramento delle colonie; pacifica espansione nel Mediterraneo e oltre; svecchiamento della rappresentanza diplomatica con giovani preparati in scuole apposite. E il preannuncio di quello che poi il fascismo al governo farà. È poi: Consigli di rappresentanze dirette degl'interessati e delle competenze, riconoscimento giuridico dei sindacati e determinazione della responsabilità sindacale. A Bologna si aggiunge: rendere i sindacati compartecipi del potere legislativo nei problemi del lavoro, perché le masse aderiscano allo stato nazionale; dare ai sindacati una moralità, un'educazione, una coscienza. Così un ordine del giorno di Dino Grandi, uno dei capi del fascismo bolognese, persuaso che il problema sindacale fosse essenzialmente un problema di educazione di masse.

Si giunse così alle elezioni politiche del maggio, alle quali i fascisti si prepararono alacremente, accettando l'idea di blocchi nazionali, purché i vari partiti accettassero lo spirito del movimento fascista. Cioè il fascismo, come il vanto di avere rotta l'ondata bolscevica, così rivendicava a sé anche il diritto d'imprimere alle elezioni e al blocco la sua impronta. Quindi, più che un'associazione di uguali, si ebbe un raggruppamento di forze attorno al fascismo, con un programma che era quello del fascismo, sia pure con qualche attenuazione: come là dove si respinge il controllo sindacale sulle industrie, finché è inteso come arma per esasperare i conflitti sociali. Agitatissima la battaglia elettorale. Molte Case del popolo devastate. Alle violenze antifasciste, il Comitato centrale dei fasci contrappose l'ordine di “immediate ed inesorabili rappresaglie”, pur dopo che Mussolini aveva, nel marzo, manifestato il suo desiderio di una tregua d'armi. E ora egli ebbe il senso che i fascisti oltrepassassero il limite. Realmente, nelle provincie, un po' la gioventù squadrista era spiritualmente tutta tesa verso la lotta, un po' si faceva sentire la pressione di elementi sociali interessati a schiantare per sempre non solo il partito socialista, ma la stessa organizzazione economica che faceva capo ad esso. Certo, il fosso fra fascisti e socialisti e la stessa Confederazione del lavoro si approfondì ancora di più. Ma Mussolini non intese con questo confondersi troppo con gli alleati e tenne, dopo la battaglia, a ristabilir certe distanze. Così, dando conto al Giornale d'Italia della deliberazione, presa dai neoeletti, di non intervenire alla seduta reale, aggiunse che il fascismo non solo non aveva pregiudiziali monarchiche, ma era “tendenzialmente repubblicano”. Era qualcosa di più del rigetto di ogni pregiudiziale: e vi fu grande scalpore fra gli alleati del blocco. Anche tra fascisti, non mancarono dissensi. Parecchi vedevano un programma di stretta coordinazione delle forze nazionali, come era quello fascista, sfociar nella monarchia più che nella repubblica. Altri erano freddi con la monarchia, ma in quanto essa non aveva abbastanza combattuto la degenerazione parlamentare del governo, le usurpazioni parlamentari dei diritti della Corona. Volevano insomma una monarchia più monarchica, un re più re. Mussolini replicò e polemizzò. Ai compagni del blocco, disse che egli a loro non doveva rendere nessun conto; se mai, ne doveva rendere al fascismo il blocco, cioè la borghesia infetta che era da curare anch'essa col ferro e col petrolio, come i circoli socialisti. E ai compagni del fascismo ripeté: “L'avvenire è incerto e l'assoluto non esiste” (in Popolo d'Italia, 24 e 26 maggio). I fascisti si astennero dalla seduta reale.

Cominciò così la fase parlamentare del fascismo. Da allora esso ebbe un'altra e più alta tribuna da cui parlare: Roma. E si può considerare la vittoria elettorale come un primo visibile passo di quella che poi, anche materialmente, diverrà la “marcia su Roma”. I fascisti sedettero all'estrema destra, là dove nessuno osava sedere nei giorni del trionfante bolscevismo: e Mussolini fece un discorso che egli definì “reazionario, perché antiparlamentare, antidemocratico, antisocialista”. Ma noi, aggiunse, né abbiamo incendiato chiese, né combattiamo la religione, né chiediamo il divorzio. Noi vediamo nel cattolicesimo la tradizione di Roma; nell'autorità sedente in Vaticano, l'unica idea universale che è al mondo. Se il Vaticano rinuncia a Roma, noi gli daremo i mezzi per le sue chiese e per la sua attività benefica. Noi vediamo nelle fortune del cattolicesimo le fortune di Roma. Parole, queste, in cui si trova per la prima volta quell'esaltazione fascista di Roma antica e dei valori spirituali da essa rappresentati, che poi diventa uno dei motivi centrali del fascismo e che segna il suo pieno distacco dal fascismo degl'iniziatori, quasi sospeso fra cielo e terra e senza terreno storico sotto i piedi. Ma vi si trova anche l'omaggio al cattolicesimo: cioè un passo non verso il partito popolare, ma verso i cattolici italiani o l'Italia cattolica. Né poteva parlar diversamente chi intendeva “governare la nazione” e governarla nella sua pienezza, nella totalità organica dei suoi problemi. Nella stessa maniera, Mussolini ripeté la sua opposizione alla “dittatura del proletariato”, alla socializzazione, all'internazionalismo, cioè al partito comunista; ma non, in fondo, ai socialisti di altra tendenza e meno ancora alla Confederazione del lavoro, cioè alla massa organizzata dei lavoratori.

Persuaso, poi, che si dovesse dare disciplina, unità, ordine, spirito veramente nazionale al movimento fascista, combattendo in esso certo spirito particolarista dei nuclei locali, certo amore di violenza per la violenza, certa tendenza di conservatori e agrari di vedere nel fascismo il loro partito e di sfruttarlo a fini di classe; s'indusse a iniziar trattative per una pacificazione. Da vario tempo egli volgeva questo pensiero, ammoniva i fascisti di aver il senso del limite nelle loro ritorsioni o rappresaglie, faceva capire che non intendeva guidare un movimento indisciplinato e caotico. Ora, la pacificazione s'invocava da più parti: voci di combattenti, di madri e vedove dei caduti, di mutilati di guerra; dimostrazioni significative, in adunate romane e napoletane; piccole pacificazioni locali qua e là. D'Annunzio stesso sollecitava. E Mussolini cominciò a metà giugno le trattative, quasi fra potenze belligeranti. Procedettero fiacche, fra alti e bassi, buone e cattive speranze, fiducia e scetticismo. Il capo del governo, I. Bonomi, funzionava da arbitro. E non era edificante spettacolo veder esercitar il compito di amichevole compositore di guerra civile quello che avrebbe dovuto esserne, per diritto e per dovere, l'energico moderatore e infrenatore. Molti fascisti recalcitravano. Lo stesso Consiglio nazionale fascista, ove sedevano rappresentanti delle varie regioni, ritenne non tempestivo l'accordo e solo reputò necessario distinguere le organizzazioni economiche dei lavoratori dai partiti sovversivi e invitò i fasci a intese locali con gli operai. Apparvero poi, durante le trattative, gli “arditi del popolo” una specie di organizzazione militare contrapposta alle squadre fasciste, che sembrarono contraddire coi fatti alle buone disposizioni verbali dei socialisti. La tragedia di Sarzana, 21 luglio, dove la forza pubblica fece fuoco sopra una colonna fascista che marciava sulla città per ottener la liberazione di compagni arrestati e la disperse con molto sangue, incoraggiando poi la caccia al fascista da parte dei contadini ostili e degli “arditi del popolo”, e uccisioni e sevizie crudelissime contro di loro; questa tragedia, dando ai socialisti l'impressione di aver dalla loro il nuovo governo di Bonomi, salito il 5 luglio al potere, ritardò più che non accelerasse l'accordo.

Il quale finalmente venne, fra i rappresentanti delle parti, cioè i due gruppi parlamentari, il partito socialista, la Confederazione del lavoro, la Direzione del partito fascista e il Consiglio nazionale dei fasci: cessazione di violenze, rispetto dei distintivi e delle insegne, rispetto delle organizzazioni economiche, il partito socialista affatto estraneo agli arditi del popolo, ecc. I comunisti non vollero aderire. E anche i fascisti, qua e là, protestarono, respinsero la pace: come gran parte di quelli di Romagna, Emilia, Veneto, Toscana. Avversi, Balbo e Grandi. Momento piuttosto grave per il fascismo. Quasi principio di scisma. Ma Mussolini rivendicò a sé l'iniziativa e la responsabilità dell'atto compiuto. Il fascismo, suo figliuolo, avrebbe dovuto accettare anche esso: almeno quelli che amavano non la fazione ma la nazione. In fondo, aggiungeva, il trattato era una vittoria: il partito socialista, che fino a ieri pareva l'arbitro della situazione, aveva dovuto venire a patti col fascismo, accettar condizioni, prendere impegni, rinnegare gli arditi del popolo, isolare i comunisti. Era giunto il momento di procedere per le vie delle competizioni civili. Se il fascismo non lo avesse seguito, egli non avrebbe seguito il fascismo, quel fascismo che pareva volesse farsi servo dei vari ambienti provinciali. Ma egli era la nazione, non il campanile. Fondatore del movimento, aveva il diritto di prescindere dai mille elementi locali e vedere il panorama politico e morale, guardar dall'alto, non da Bologna o Venezia o Firenze. Voleva sprovincializzare l'Italia e proiettarla come entità nazionale, come blocco fuso oltre i mari. Diede così le dimissioni dalla Commissione esecutiva dei fasci. Ammise un suo sentimento di rivolta, di fronte a certi eccessi dei fascisti. Non voleva far da generale, con soldati che non obbedivano. I giornali parlarono di “crisi del fascismo”. Ma le dimissioni di Mussolini non furono accettate. L'atmosfera si rischiarò. La crisi fu superata: anche perché nuove violenze di comunisti, senza che si potesse contare sopra un'efficace tutela dell'ordine da parte del governo, preoccupato di star neutrale, di metter sopra uno stesso piano fascisti e comunisti, giustificarono anche agli occhi di Mussolini la non osservanza del patto di pacificazione e la denunzia del patto stesso, nel settembre, da parte dei fasci toscani, umbro-sabini, veneti.


Da “movimento” a partito

Tuttavia, questa battaglia interna, in cui Mussolini si trovò esposto alla ventata delle correnti estremiste del fascismo, affrettò un evento che già s'intravedeva all'orizzonte: la trasformazione del “movimento” in partito. Il fascismo era ormai un grande organismo. Aveva già un suo governo e una sua gerarchia. Vicino a sé, sindacati e cooperative. Era necessaria tanto una più precisa differenziazione programmatica e tattica, cioè anche maggior determinazione di fini e di mezzi; quanto una maggior disciplina, più fermo comando, più unità, più efficace freno alle tendenze personalistiche e particolaristiche. Così, una commissione ad hoc, riunitasi a Milano nel settembre, decise di proporre tale mutamento al prossimo congresso di Roma. Fu un'altra piccola crisi. Molte voci dissenzienti, molti accenti nostalgici, come se la gioventù se ne andasse, e se ne andasse quel tanto di fascinoso e singolare e proprio che costituiva il fascismo. Sì, la politica e le questioni sociali, va bene: ma un partito non avrebbe soffocato la passione, la poesia del movimento? Mussolini stesso dové far parlare più il suo raziocinio che il suo sentimento. Dové vincere le tentazioni del suo spirito individualista, che fissava con certo disdegno le grandi masse. Ma, come egli stesso disse, c'erano due Mussolini: uno che non ama le masse e simpatizza per l'individuo; l'altro che sente l'esigenza della disciplina e, come la esercita su di sé, così la vuole negli altri. Disse anche esser necessario passare alla fase della responsabilità collettiva; e fissar meglio l'azione, determinar meglio i piani, per il giorno che, assolti i compiti negativi di lotta contro il dissolvimento interno, si dovesse procedere alla ricostruzione.

Il congresso di Roma si riunì il 7 novembre '21. E si vide una massa imponente di rappresentanze. I 22 fasci e 17.000 inscritti del congresso di Firenze 1919, ora sono 2200 e 310.000. Tutta l'Italia era lì presente, più o meno secondo le varie regioni. Scarso, ancora, il fascismo dall'Umbria in giù e nelle isole. Ma quello che nel 1919 era fenomeno milanese, con poche diramazioni, ora è un fatto italiano e nazionale. Atmosfera di accesa passione, in quel congresso romano. C'era, da quattro o cinque mesi, una parola che turbava gli animi, metteva di fronte gli uomini più rappresentativi del fascismo, e quasi città e città, regioni e regioni: il trattato di pace. C'erano i rapporti tra fascisti e legionari fiumani, tra fascismo e dannunzianesimo, un po' tra Mussolini e D'Annunzio che da lontano vigilava sopra i suoi giovani compagni. Non tutto il fiumanesimo aveva confuso le sue acque col fascismo. Una parte di esso si era fatta banditrice di un verbo del Carnaro, quasi contrapposto al verbo fascista. Anche nazionalisti e fascisti, non in perfetta armonia: certo orgoglio e aria di superiorità nei primi, come di precursori e uomini di pensiero; certa insofferenza nei secondi, almeno in una parte di essi, di questa specie di minorità spirituale, sebbene innegabile certa infiltrazione di quel pensiero tra i fascisti, anche pel tramite di nazionalisti entrati nel fascismo. Cioè il problema dei rapporti tra fascisti e nazionalisti era anche un problema interno del fascismo, che aveva un'ala più nazionalista e filialmente legata al partito nazionalista, un'ala più... fascista, cioè più nuova, più fattasi da sé e ambiziosa di far da sé, più rivoluzionaria, anche più “tendenzialmente repubblicana”. C'era, infine, la questione del mutamento in partito. Insomma, venature interne. Ma operava da cemento, fra i fascisti tutti, lo sforzo di conquistare una personalità di fronte agli altri partiti; il senso come d'isolamento. Poiché contrario al fascismo era il governo; infidi gli alleati della lotta elettorale di ieri; diffidente o indifferente parte non piccola dell'opinione pubblica, specialmente la borghesia bottegaia, gli “uomini d'ordine”, i tradizionalisti, i sedentari, insomma il gran ventre d'Italia. E tutto questo aiutò a superare le questioni scottanti. Al posto di una nuova discussione sul patto di pace, che alcuni volevano ingaggiare altri evitare, un abbraccio tra Mussolini e Grandi: “Nulla potrà dividere il fascismo” disse quest'ultimo, “che è un blocco di fede e volontà”. La proposta di Balbo per un saluto a D'Annunzio fu accettata all'unanimità e parve e fu un ponte gettato non solo tra fascismo e fiumanesimo, ma anche tra fascisti e fascisti, non pienamente concordi. Anche per i nazionalisti, il congresso ebbe un saluto, in nome delle lotte combattute insieme. Respinta la concezione dei nazionalisti di un fascismo loro figliazione, si accettava di vedere nei due movimenti un certo parallelismo di sviluppo, diversità e insieme affinità: egualmente contrari alla società individualistica e internazionalistica; ma l'uno più riflessione e scuola, l'altro più passione e impeto e capacità realizzatrice (Grandi, in Popolo d'Italia, 2 febbraio 1922). Importante questo chiarimento di posizioni, che era anche avvicinamento, ai fini della questione della monarchia o repubblica. E certo, i nazionalisti portarono nel fascismo questo fermento monarchico che vi mancava o vi era debole. Basta pensare alla presenza, nei fasci, di Cesare De Vecchi, tutto vecchio Piemonte, tutto monarchia, tutto “Re e Patria”.

Mussolini, nel suo discorso, toccò questi vari tasti, più degli altri sensibili. Parlò quasi da nazionalista, quando disse che l'Italia, dopo la sua costituzione, ebbe, di veri uomini politici, solo qualcuno della Destra e poi Francesco Crispi, che “proiettò l'Italia nel Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico”. Grande monito il suo! Poiché i “popoli che, privi di volontà, si rinchiudono in casa son quelli che si avviano alla morte”. Ma mostrò di voler dare maggior contenuto e afflato democratico allo stato dei nazionalisti, quasi divinità sospesa nei cieli dell'assoluto, quando disse che i fascisti volevano identificare stato e nazione; e che le masse egli voleva non adorarle, non adularle, al bisogno fustigarle, ma, in ogni modo, inserirle nella nazione, contenendo gli egoismi borghesi non meno di quelli proletari. E quanto alle istituzioni, ripeté la “tendenzialità repubblicana”; ma che egli, con ciò, voleva solo lasciare aperto un varco nel futuro, per il caso che quelle istituzioni “non siano in grado di difendere gli interessi, specialmente ideali, del popolo italiano”, e non già sollecitare una rivoluzione a fondo repubblicano, la quale, se anche fosse riuscita in un primo momento, sarebbe stata poi subissata. Insomma, solo vigilanza e controllo. Mussolini parlò da liberale, da genuino liberale, quando affermò che egli, in materia economica, era antisocialista, e che l'economia nazionale non era da affidare a enti collettivi e a burocrazia, e che egli avrebbe reso ferrovie e telefoni ai privati e che vagheggiava lo stato etico, con minime funzioni materiali, ma con una funzione morale altissima. Ebbe parole di riconoscimento per l'opera di D'Annunzio, ma escluse che il fascismo potesse trovare le sue tavole negli statuti del Carnaro: solo ammise che questi erano animati da uno spirito che i fascisti potevano assorbire e far loro. Esso avrebbe aiutato il fascismo a non diventar un movimento troppo politico e troppo sociale. Quanto al cattolicesimo, se c'era chi voleva toglier di mezzo la legge delle guarentigie, cioè ingaggiar lotta col Papato, ricordasse l'aiuto che il cattolicesimo poteva dare ai fini dell'espansione nazionale. Approvò infine la trasformazione in partito. Esso doveva “spersonalizzarsi”. Nella nuova organizzazione, egli voleva sparire. “Voi dovete, o fascisti, guarire del mio male e camminare da voi”. Acquistare bisogna il senso della responsabilità collettiva, solo mezzo per affrontare e vincere le grandi battaglie!

Nei giorni del congresso, nervosità grande in Roma e disordini gravi. Vi furono, specialmente nei quartieri popolari, urti e sangue: dopo di che, uno sciopero a oltranza che, si proclamò, sarebbe cessato solo quando i fascisti se ne fossero andati da Roma. Tra i fascisti, v'eran di quelli che volevano giuocar la grande carta. La città era piena di camicie nere. Ogni giorno ne accorrevano dalle provincie vicine. In ultimo, non meno di 30.000: e fra essi, venti medaglie d'oro. E anche il battaglione Sempre Pronti dei nazionalisti, formazione armata, simile alle squadre dei fasci. Ma Mussolini contenne i suoi, frenò la loro voglia di spedizioni punitive, diede un po' ragione anche alla cittadinanza se non voleva troppa spavalderia per le strade della città, ripeté che approvava la violenza cosciente, intelligente, cavalleresca, strettamente necessaria per respingere la violenza altrui, ma non il banditismo. A qualcuno disse i tempi non essere maturi: ancora un anno. Si rivelava in quest'uomo, sempre più, il senso del tempo: che voleva dire capacità di dominare con l'occhio non un piccolo settore ma tutto il campo di battaglia.

Così il congresso finì. Ma non passarono molti giorni e il Comitato centrale dei fasci deliberò, 15 novembre, la denuncia del trattato di pacificazione, che il congresso si era limitato a non discutere. E Mussolini, come si era assunto, di fronte ai fascisti, la responsabilità della conclusione; si addossò ora, di fronte agl'Italiani, la responsabilità della denuncia. Utile e necessario conchiuderlo quel patto, disse; utile e necessario, ora, romperlo. Ha servito a frenare le spedizioni punitive e mostrare la nostra volontà di pace. D'ora innanzi, si sarebbe fatto assegnamento sulla maggiore disciplina, resa possibile dalla costituzione a partito.


Il partito Fascista

Grande importanza ha, nella storia del fascismo, questo anno 1921: “anno fascista per eccellenza”, in cui in tutta Italia riecheggiò questa parola, tutta la vita italiana avverti questo movimento e il fascismo pesò su tutti gli atteggiamenti, i propositi, le discussioni del governo e dei partiti.

Il 1921 è l'anno che il fascismo dai ristretti ambienti urbani dell'Italia settentrionale e centrale, irrompe nelle provincie e nelle campagne, e si satura di forze borghesi e proletarie. È l'anno che sorge l'organizzazione militare e quella sindacale, accanto a quella politica: fasci, squadre, sindacati. E fasci e sindacati si vengono federando su basi provinciali, dopo i primi raggruppamenti regionali, che non fecero buona prova. Importante, da tal punto di vista, il Convegno provinciale dei sindacati economici della provincia, tenuto a Ferrara nel giugno e presieduto da Edmondo Rossoni, antico organizzatore socialista o sindacalista, ora convertito al solidarismo di Mazzini, al quale molto i fascisti si richiamavano, specialmente in questa regione. È l'anno che il fascismo va in parlamento e Roma accenna a diventare, al posto di Milano, centro ideale e centro di azione pratica del fascismo. È l'anno della tentata pacificazione coi socialisti, che avrebbe potuto, se fosse riuscita, imprimer tutto un altro orientamento al moto fascista, portare il socialismo a collaborar col fascismo, allontanandone gli elementi conservatori. È l'anno, anche, della crisi interna, del pericolo di sbandamento del fascismo, in conseguenza del troppo rapido crescere, dell'eterogeneità degli elementi, della varietà delle idee direttive, del soverchiante spirito di battaglia, della scarsa coordinazione fra il movimento politico, l'organizzazione militare e il nuovo sindacalismo “autonomo” o “economico” o “nazionale”. È l'anno che il fascismo prende contatto ideale con la monarchia e col papato e passa a un riconoscimento crescente della funzione nazionale che l'una e l'altro esercitavano o potevano esercitare. È l'anno del congresso di Roma, che non fu scelta a caso: Roma era la porta d'accesso al Mezzogiorno. Roma era Roma. Sempre più questa parola suona, agli orecchi dei fascisti, come autorità, universalità, disciplina, impero. E il congresso del novembre discusse anche di portare a Roma la direzione del partito, come poi fece. Stabilì che il 21 aprile, ricorrenza della fondazione di Roma, fosse la festa del fascismo. E poco dopo, quel giorno divenne anche la Festa del lavoro. È l'anno della trasformazione in partito: che volle dire più unità e disciplina e sicurezza di non esser attratti localmente nell'orbita d'interessi estranei e smarrirvisi; volle dire spersonalizzazione del fascismo, responsabilità collettiva. Mussolini si mise un po' fuori della mischia quotidiana, sopra gli ondeggiamenti pericolosi dell'opinione pubblica fascista. E ciò non lo diminuì, ma lo elevò; anzi, promosse il suo compito d'ispiratore e condottiero. Il partito diede al fascismo una individualità che non aveva: segnò meglio la sua linea di demarcazione dal nazionalismo, dal liberalismo, dal socialismo, di cui si era pur largamente nutrito. “Finirà lo spettacolo di un fascismo liberale, nazionalista, democratico e magari popolare”, disse Mussolini. “Il fascismo rappresenterà nella storia della politica italiana una sintesi fra le tesi indistruttibili della economia liberale e le nuove forze del mondo operaio. Questa sintesi potrà avviare l'Italia alla sua fortuna”. (Mussolini, Punti fermi, in Popolo d'Italia, 4 novembre 1921). Sempre più il fascismo si chiarì un movimento di democrazia autoritaria e nazionale; sempre più mostrò di puntare su altri e più alti obiettivi che non fossero la vittoria sul bolscevismo. Sempre pronto alla lotta contro la violenza, il partito fascista, scriveva il 16 novembre Mussolini; ma esso ora “inizierà il lavoro preparatorio, veramente politico, che deve abilitarlo a reggere, in parte o in tutto, il governo della nazione”. S'intravede la formazione, non tanto lontana, di uno “stato fascista” (Il partito fascista, in Popolo d'Italia, 16 novembre '21). Poche settimane dopo il congresso di Roma, il Popolo d'Italia pubblicava il programma del partito (27 dicembre 1921), tanto più necessario quanto più il fascismo metteva ipoteca sul governo della nazione, come si riaffermava nelle prime righe del programma stesso: “Il fascismo aspira all'onore supremo del governo della nazione”. Si trattava non solo d'illuminare l'opinione pubblica, ma anche dar diffida a partiti concorrenti: cioè ai socialisti. Poiché, con il prevalere del socialismo di destra, dopo la secessione comunista; con il governo, prima, di Giolitti che parve in ultimo molto amoreggiare col gruppo parlamentare socialista e, poi, col governo del socialista indipendente Bonomi, s'incomincia nel '21 a intraveder la possibilità di un blocco antifascista, di un connubio fra socialisti e gruppi di governo, di un'ascesa dei socialisti, come già dei popolari, e insieme con essi, al governo.

Nell'autunno 1921, uno dei problemi più discussi era stato quello, appunto, della collaborazione socialista al potere: la quale, naturalmente, per chi la caldeggiava, che non erano tanto i socialisti, neanche quelli di destra, quanto i democratici e liberali filosocialisti, come M. Ruini e M. Missiroli direttore del Secolo, doveva essere veramente collaborazione, con armi e bagagli, non dedizione. Impedire questo blocco e questa ascesa, è uno dei compiti del fascismo e del gruppo parlamentare fascista.

Partito e statuto si trassero dietro un rafforzamento anche delle formazioni, dirò così, marginali e un loro più organico legame con i fasci: cioè delle squadre e dei sindacati. Si disciplinarono le squadre. E il 22 novembre 1921, in seguito ad accordi fra Italo Balbo e il fascista gen. Gandolfo a Oneglia, si creò un Comando generale per la costituzione, l'ordinamento e la direzione delle squadre. E si ebbe una vera e propria organizzazione militare, sufficientemente omogenea ma non uniforme, per non distruggere quel che era sorto con caratteristiche impronte locali. I fascisti furono divisi, romanamente, in Principi e Triari: e i Principi furono una autentica milizia civica, che si adunava in caso di violenze avversarie o calamità pubbliche. Aveva una divisa e prestava giuramento. Essa doveva educare in sé l'abito della disciplina individuale e collettiva, sviluppare nei giovani le qualità morali e fisiche necessarie a creare la nazione armata, risvegliare nella penisola lo spirito di ordine e l'interesse alla vita morale e politica della nazione. La più piccola unità era la squadra; più squadre, una centuria; più centurie, una coorte; più coorti, una legione, comandata da un console. Il tutto, subordinato agli organi politici del partito, sebbene unità inscindibile col partito. Poiché ogni fascista è un milite e tutto il fascismo è una milizia. A metà dicembre, in risposta a voci correnti di una prossima offensiva del governo contro le squadre armate, di ogni colore, si dichiarò che il fascismo era pronto a difendere con ogni mezzo il suo diritto di esistenza, di propaganda e di organizzazione e che sezioni del partito e squadre formavano una cosa sola. Per sciogliere le squadre, bisognava porre fuori legge e sciogliere il partito nazionale fascista. Il partito avrebbe reagito! Il 24 dicembre, circolare Bonomi ai prefetti, per il disarmo dei cittadini; proibizione di ogni corpo armato, qualunque scopo si proponessero, offensivo o difensivo, qualunque bandiera seguissero o nome portassero, “squadre d'azione”, “guardie rosse”, “arditi del popolo”, “cavalleria delle squadre”, “cavalieri della morte”, ecc. Ma l'effetto di questa circolare fu minimo. Né tuttavia si ebbe ritorno di guerriglia, ripresa di spedizioni punitive, assalto sistematico a organizzazioni economiche. Alla Camera, il 1° dicembre, Mussolini disse: “i morti pesano”. E chiese a tutti, al governo, alle classi dirigenti, al popolo italiano, che la loro attenzione si volgesse oltre le frontiere, ove le idee di solidarietà economica europea, condizione di salvezza per questo continente, già faro di civiltà, facevano qualche progresso, e Germania e Russia si avvicinavano, e maturava la revisione della carta d'Europa. Poiché, o nuovi trattati o guerra! E il giorno della revisione, l'Italia si doveva presentare unita, a dimostrare che aveva superato le secche del dopoguerra e si accingeva a iniziare un nuovo e più luminoso periodo di storia. Suo compito di nazione proletaria era di limitare gli egoismi storici dei popoli arrivati e fare un po' di largo a chi aveva volontà e capacità di arrivare (Popolo d'Italia, 1° gennaio '22).

E quanto ai sindacati, si ha un rapido loro orientamento in senso politico. Vi è già, nel '21, un gruppo di ferrovieri fascisti. Sono quelli che, durante lo sciopero antifascista a Roma, si offrono di lavorare e ricondurre i fascisti alle loro sedi. Particolare attenzione volge il partito a questa categoria di lavoratori. Nel novembre, la Direzione e il Comitato centrale invitano i fascisti a dedicarsi con lena all'organizzazione di sindacati e cooperative, “specialmente di addetti alle comunicazioni”. (Ricordare che i ferrovieri bolscevizzanti erano stati, nel '19-'20, una delle maggiori piaghe d'Italia, la causa della debolezza, anzi impotenza dello stato!). E nel dicembre, il Consiglio nazionale, sopra un ordine del giorno Balbo, fissa il principio dell'organizzazione prettamente fascista dei servizi pubblici ferroviari e postelegrafonici. Infine, nel febbraio del '22, il Comitato centrale dell'Associazione ferrovieri fascisti dichiara di volere, “senza false professioni di apoliticità”, seguire il programma del partito fascista, del quale l'Associazione è parte integrale. Così gli altri sindacati. Il 24 gennaio del '22, in una riunione bolognese di delegati delle organizzazioni economiche sorte per iniziativa fascista, per formare un unico organismo nazionale, si deliberò, dopo discorsi di Grandi e Rossoni, che i sindacati creati dai fasci fossero non apolitici ma fascisti.

Questa materia sindacale non era neanche essa materia del tutto pacifica tra fascisti. Vi erano gli entusiasti di questo accorrere di lavoratori al fascismo e di questa organizzazione sindacale fascista. Nel sindacalismo essi vedevano un elemento essenziale del nuovo stato che si vagheggiava. Oppure additavano nella conciliazione del principio nazionale e del principio sindacale la forza dell'età nostra; e nel fascismo, capace di tale conciliazione, l'anima della nuova democrazia nazionale italiana. Ma altri guardavano non senza preoccupazione le masse operaie passate al fascismo e consideravano piuttosto come una necessità la loro organizzazione nel fascismo. Dicevano: ci sono centinaia di migliaia di lavoratori del braccio e dello spirito. Possiamo trascurarli? Considerarli così vile? Lasciarli sfruttare dai demagoghi? E il fascismo, via via che le organizzazioni rosse crollano, si trova ad aver sulle braccia questo gran peso. Possiamo noi respingere i lavoratori? Certo che no! Si potevano non cercarli ma non si possono respingere. Perché essi vengano a noi non sappiamo. Ma è indagine inutile. Certo, vengono. E noi abbiamo dovuto fare, dobbiamo fare del sindacalismo. - Frasi come queste ricorrono sotto la penna dello stesso Mussolini (sul Popolo d'Italia, 30 maggio '22, in occasione della prima adunata nazionale delle corporazioni sindacali; 20 settembre '22, nel discorso di Udine), rispecchiando forse l'intimo timore che tanta mole umana e così vasta organizzazione appesantisse il movimento e il partito fascista, annullasse le virtù creative e la forza d'impulso delle élites, soffocasse l'intima vitalità dell'individuo. Tutte le preferenze di Mussolini andavano verso un sindacalismo selettivo. Il suo pensiero si fissava sempre sopra le minoranze che fanno la storia. La massa, diceva, è creazione della democrazia e del socialismo! In ogni modo, che a questa organizzazione si dovesse por mano, nessuno più dubitava: organizzazione di tutti i lavoratori, braccio e mente, che era carattere distintivo del sindacalismo fascista. Ma molti dubitavano poi che si dovesse organizzarli sotto l'insegna di un partito politico, sia pure il partito fascista. E qualcuno accennava a un partito del lavoro. Operava sempre la tradizione del vecchio sindacalismo rivoluzionario che voleva i sindacati liberi da partiti, liberi anzi dalla politica, cioè da esterne ideologie, e capaci di procedere secondo direttive proprie, rispondenti a esigenze intrinseche del lavoro.

Vinse, naturalmente, la tesi della politicità, della politicità fascista, s'intende. Come concepire un sindacalismo senz'anima, senza un'idea che lo elevi e lo salvi dalla frammentarietà, dagli egoismi di categorie e di mestiere? Impossibile organizzar masse solo sindacalmente. O socialiste o fasciste! E così i sindacati furono fascisti. E si appoggiarono a questi caposaldi: il lavoro è il titolo sovrano che legittima la piena cittadinanza dell'uomo nella società; lavoratori sono quanti dedicano la loro attività a creare e perfezionare i beni naturali e spirituali dell'uomo, e le organizzazioni sindacali debbono tutti accoglierli; la nazione è sopra gl'individui e le classi e le categorie; l'organizzazione deve tendere a sviluppare il senso della patria e della società nazionale sopra la classe, a sviluppare la produzione, a valorizzare e sviluppare nella collettività anziché deprimere le capacità e forze dei singoli. Si fondarono anche le corporazioni nazionali (quella del lavoro industriale, del lavoro agricolo, del commercio, delle classi medie e intellettuali, della gente di mare), composte di quei sindacati le cui finalità si informavano alle finalità del partito fascista; si fondò la federazione italiana delle corporazioni. E corporazioni e federazione furono anche esse fasciste. Nella prima metà del febbraio 1922, si ebbe un convegno a Roma, fra la Direzione del partito e il Comitato centrale provvisorio delle corporazioni sindacali, per determinare i rapporti loro. Nell'aprile 1922, nacque Il Lavoro d'Italia, organo settimanale della confederazione, diretto da Rossoni: il quale, nell'Appello ai lavoratori italiani del 1° numero, scriveva: “Il sindacalismo nazionale ricomincia daccapo la riorganizzazione degli Italiani di tutte le professioni e d'una sola fede in un quadro grandioso di educazione politica, di capacità produttiva, di coscienza e disciplina nazionale”. E Mussolini salutava da Milano il nuovo giornale: “Accanto al Popolo d'Italia, il Lavoro d'Italia, fusi insieme, contro tutti i parassitismi della politica e dell'economia”. Compiuta la sua opera di demolizione, proseguiva, “il fascismo deve da una parte costituire la vigilante coscienza nazionale della nostra politica estera, dall'altra rivolgersi alle masse dei lavoratori del braccio e del pensiero per elevarne le condizioni e legarli sempre più intimamente alla vita e alla storia della nazione”. Naturalmente le discussioni non finirono. Il terreno era seminato di ostacoli. Risolto il problema della politicità fascista, altri ve n'erano: che libertà il partito lascerà alle organizzazioni fasciste, cioè l'elemento politico all'elemento sindacale? Poiché era necessario un minimo di autonomia. E poi: che libertà, anche, ai sindacati di altro colore? Vi sarà molteplicità di sindacati? Vi sarà un monopolio tricolore o fascista, dopo che è stato combattuto, in nome della libertà del lavoro, il monopolio rosso o socialista? E diverse erano le risposte a queste domande. Sì, rispondeva Corgini, di Bologna: ci sarà libertà e molteplicità. No, altri: non potrà esserci! E Mussolini: il monopolio “sarà il portato ultimo di un processo di solidarietà” (Popolo d'Italia, 26 agosto '22). Questo del sindacalismo fascista si può dire che è il problema dominante, nel fascismo del 1922. E molti attendevano il fascismo proprio a questa prova. Gli avversari speravano, erano persuasi, che qui esso sarebbe caduto.

Oltre che all'organizzazione sindacale, si attese alle cooperative, per attrarre nell'orbita del fascismo quelle già fondate e controllate dai socialisti e fondarne di nuove. E nell'estate '22, si poteva già constatare il promettente sviluppo del Sindacato italiano delle cooperative. Si diede opera a creare le Avanguardie giovanili fasciste, per i giovinetti dai dieci ai quindici anni. Furono costituiti i gruppi Balilla, aggregati alle avanguardie e sotto il controllo dei fasci. Spesso si ripeteva dai fascisti che non tanto il programma importava quanto gli uomini; che bisognava avanti tutto preparar la classe dirigente di domani, capace di portar non tanto idee nuove quanto un nuovo spirito, lo spirito alacre, spregiudicato, combattivo, realizzatore del fascismo. Per questo, appunto, s'iniziò ora una vasta opera di educazione dell'adolescenza e dell'infanzia: materia vergine, non segnata da vecchie ideologie. Era anche un mezzo per penetrare nella famiglia. A tale scopo erano ancor più rivolti i Gruppi femminili, fondati per coordinare la propaganda, la beneficenza e l'assistenza, sotto il controllo dei fasci. Non politica, ma scuole, circoli, conferenze, sport, specialmente rivolti alla donna lavoratrice, per creare nel mondo operaio un ambiente favorevole al fascismo.

Nel 1922, il partito fascista è la maggior forza organizzata del paese. Gli avversari seguitavano a dire, anche ora, che il programma fascista, così indeterminato, non era un programma. I sottili ragionatori e abili costruttori di schemi ideologici, confondendo filosofia e vita, dimenticando che sentimenti e passioni sono o possono essere anche essi pensieri in formazione e che, quanto meno, hanno capacità di creare i fatti, in cui è sempre un qualche pensiero, seguitavano a considerare il fascismo come “estraneo alla cultura politica” e, perciò, condannavano. Eppure, il partito fascista cresce; e cresce il fascismo, che non si esaurisce tutto nel partito. Più unità e disciplina. Più, nella massa dei gregari, quello stato di fiducia, quella certezza di sé e dell'opera propria che è quasi fede. Il fascismo crede ormai di non aver solo “scopi” da raggiungere, ma una “missione” da compiere. Riappare, dopo il Risorgimento e Gioberti e Mazzini, questa parola, non senza influenza diretta anche di quegli uomini che, negli anni della guerra e del dopoguerra, hanno rivissuto una specie di nuova giovinezza. Il fascismo comincia ad avere i suoi miti. È già titolo di gloria aver appartenuto alla sparuta schiera dei fondatori, al primigenio fascio di Milano, che spesso Mussolini porta a esempio di quadrata disciplina, di perfetto equilibrio. Il marzo 1919 è già circondato come di un alone luminoso. Quell'anno non significa quasi inizio di una nuova era, nella storia italiana? “Diciannovismo”, sinonimo di entusiasmo e di fede. Che breve spazio di tempo, ma quanto cammino! E quanti compagni caduti, nella battaglia di ogni giorno! Vi era ormai una tradizione, fondata, cementata dai morti: quasi tutti giovani e giovanissimi, spesso adolescenti, entrati nella vita col fascismo, appartenenti a ogni classe sociale. Taluni, uomini veramente rappresentativi di quella generazione, quasi uomini “esemplari”: interventisti a diciassette o diciott'anni, volontari di guerra, combattenti, legionari di Fiume, fascisti..., caduti poi sotto i colpi di un disertore o comunista. Che fu la sorte toccata, nel gennaio del '22, a Federico Florio, di Prato, animatore e capo del fascismo pratese.

Si è poi elevato sempre più sopra la massa dei gregari, col crescere di questa unità, di questa disciplina, di questo spirito di dedizione, un capo, il capo: Mussolini. Il quale non ha, nel partito, una speciale posizione gerarchica. E pur tuttavia egli è, ormai, il “Duce”. Egli non solo ha fondato i fasci: ma per tre anni ha partecipato giorno per giorno al travaglio del loro crescere; ha incitato e frenato; ha lavorato a educare e affinare, insieme, sé stesso e gli altri. Si è messo sempre più sopra il contingente, sopra l'individuale il particolare e passionale, e impersona ormai il movimento, da lui stesso suscitato, nei suoi elementi essenziali. È merito suo più che di ogni altro se il fascismo, pur mentre si definiva e differenziava, anche si dilatava spiritualmente, riecheggiava il più e, via via, il meglio delle voci italiane, diventava sempre più l'“interesse generale”, s'identificava sempre meglio con l'Italia. Nessuno quanto lui, attento a impedir deviazioni e sbandamenti; a resistere alle correnti troppo destre o troppo sinistre; a quei fascisti più “agrari” che “rurali”, che fanno, in mezzo alle organizzazioni economiche socialiste, opera di pura demolizione, col pretesto del socialismo, e a quelli che accennano, qua e là, a batter le vie stesse dei comunisti e bolscevichi, nel capeggiare operai e contadini passati al fascismo. Quotidiano suo martellamento giornalistico. E nelle occasioni più grandi, la sua presenza viva, la sua parola viva, sebbene crescesse in lui certo disdegno per il troppo parlare. Ma il suo parlare era come un operare, tanto a fondo incideva nell'animo degli ascoltatori, tanto sapeva metterli in quello stato di emozione che è vicino all'azione, quasi sinonimo di azione. Egli aveva ripudiato l'eloquenza “verbosa prolissa inconcludente” dei democratici, e fattasene una “squisitamente fascista, cioè scheletrica aspra schietta e dura”. Non s'indugiava mai in troppi dettagli, non si perdeva nella cronaca quotidiana, ma suscitava visioni, segnava vie, additava mete. Scrivesse o parlasse, teneva i suoi sempre in attesa, sempre volti non già alle cose fatte ma alle cose da fare: insomma, protesi in avanti. Educava una psicologia da soldati, i quali sanno che l'ora della battaglia può essere tra dieci anni e può essere fra dieci giorni: quindi, essere sempre pronti! E tutto il suo linguaggio era da soldato o da generale. Il fascismo è una milizia. I problemi, nemici da affrontare e debellare. Il popolo italiano, un esercito in marcia a battaglioni serrati. Comando, quadri, gregari, reclute, disciplina, tessera eguale a piastrina di riconoscimento, non disputare ma credere, combattere, obbedire. Diffondeva attorno a sé certa insofferenza, quasi disdegno, per gli uomini troppo sapienti o “troppo intelligenti”, per gl'“intellettuali”, spesso, nella loro presunzione e nella supervalutazione della loro cultura o scienza, sofistici e sterili, “capaci di spaccar in quattro un capello”, ma, viceversa, incapaci d'imprimere un qualche impulso alle cose. Accettava la definizione di A. Tilgher che “il fascismo è l'assoluto attivismo trapiantato sul terreno della politica”. E se, aggiungeva, il relativismo è la fine dello scientificismo; se il relativismo riconosce alla vita e all'azione una supremazia assoluta sull'intelligenza, il movimento fascista, con il suo repugnare a dar una veste definitiva programmatica ai suoi complessi e potenti stati d'animo, con il suo procedere per intuizioni frammentarie, è, si può dire, “superrelativismo”. E se il relativismo si collega a Nietzsche e al suo “Willen zur Macht”, il fascismo è la più formidabile creazione di una “volontà di potenza”, individuale e nazionale (Relativismo e fascismo, in Popolo d'Italia, 2ª novembre 1921). Facile che questo atteggiamento degenerasse, nei seguaci, in disprezzo per la cultura. E manifestazioni di grossolana ironia e sarcasmo e disprezzo per la cultura e gli uomini che la rappresentavano non mancarono: donde freddezza e ostilità per il fascismo, largamente diffuse fra gl'intellettuali. Ma quell'ironia e disprezzo, se rispecchiava un poco le condizioni intellettuali di una generazione che aveva fatto quattro anni di guerra o compiuto distrattamente i suoi studi o atteso, semplicemente, a menar le mani anziché a sfogliare libri; era anche manifestazione di esigenze insoddisfatte, come sempre nei tempi in cui gli uomini cominciano a fare cose nuove o sentire in modo nuovo la vita e non trovano nelle idee correnti, nella scuola, nei “professori”, il necessario appagamento e l'aiuto a capire e orientarsi e operare. Era, insomma, aspirazione o inizio di un rinnovamento di cultura. E il fascismo oramai ha pur esso un suo ideale di cultura, di una “cultura fascista”, cultura viva, mobile, capace di penetrare animare unificare ogni cosa, non settore a sé della vita ma una cosa sola con la vita. Ha pur esso l'ambizione di una “cultura fascista” ha l'ideale di un' “arte fascista”, di uno “stile”, di un “modo di vivere” fascista.

Si può riconoscere che nella seconda metà del 1921, e, più, nel 1922, le condizioni generali del paese, certe condizioni, accennavano a un miglioramento. Qualche indice confortante di vita economica. Ripresa di lavoro. Ormai in decadenza l'infatuazione per la Russia e il suo bolscevismo, per merito anche di socialisti andati lì a constatare de visu lo stato del paese. E D'Annunzio, dal suo ritiro di Gardone, poteva proclamare che la Russia aveva, con sacrificio di sé, liberato il mondo da un'illusione puerile e da un mito sterile; aveva dimostrato, con un terribile esperimento, che un governo uscito da una dittatura di classe è impotente a crear condizioni di vita sopportabili. Gl'Italiani tutti venivano, un po' per volta, riconciliandosi con la guerra, cioè con sé stessi. Essa si purificava, nella lontananza, della scorie fangosa; i dolori e le sofferenze che essa aveva imposto non erano più insulti e rampogne che Italiani scagliavano in faccia ad altri Italiani. Il ministro Bonomi poté, così, compiere, alla fine del '21, la traslazione del Milite Ignoto all'Altare della patria: e fu, da un capo all'altro della penisola, una commozione profonda, in cui la grande maggioranza degli Italiani ritrovò la propria fraternità. Il fascismo rivendicava a sé, per una parte assai grande, il merito di questo mutamento. Ed era giusta rivendicazione, sebbene vi fosse, nel mutamento stesso, qualcosa che trascendeva il fascismo e ogni particolare forza o corrente di idee e si volgeva a lode della nazione, della sua sanità profonda, della sua vitalità inesausta. L'esercito si era ripreso dopo il rovescio dell'ottobre 1917, dovuto essenzialmente a cause militari ma aggravato anche da un principio di sbandamento morale; il popolo tutto si riprende, ora, dopo lo sbandamento del 1919-20, espelle i cattivi umori, i virus della fatica grande dei quattro anni di guerra, superiore alle sue forze.

Questo, dunque, si può e deve riconoscere. Come dire che i compiti contingenti o anche negativi del fascismo, cioè rivendicazione dell'intervento, esaltazione della vittoria, freno al dilagante bolscevismo, diminuivano d'importanza. Ma nel fascismo, fin dal primo giorno, c'era, implicito, anche qualche altra cosa. Si esprimevano in esso e diventavano azione e realizzazione, sentimenti e pensieri che erano stati di nazionalisti, di gruppi liberali, di sindacalisti. I tre anni di lotta, se avevano servito a debellare nemici, avevano anche rafforzato il fascismo come cosa a sé, elevatolo come pensiero politico, messo davanti ai suoi occhi un orizzonte più largo, scopi più lontani. Prova ne sia il crescere dei fasci anche all'estero, qualcuno nel 1921, altri nel corso del 1922, ad Alessandria d'Egitto, al Cairo, a Reims, a Rodi, a Lugano, a Parigi, a Smirne, a New York, a Tripoli ecc., dove lo scopo non poteva essere, certo, quello di fronteggiare il bolscevismo. Perciò, mentre molti, anche simpatizzanti, si aspettavano che il fascismo cominciasse a smobilitare e disarmare e rifacesse la consegna dell'Italia agli uomini e ai partiti che solevano ripartirsene il governo, il fascismo, invece, mobilitò sempre più. Il bersaglio maggiore, ormai, diventa il governo, possiamo dire il regime parlamentare, che, con Bonomi e, caduto Bonomi nel febbraio del 1922, ancor più con Facta, toccò il massimo di disordine e d'impotenza. Parlamento sempre in attesa di crisi, diviso come era in gruppi organizzati e ufficialmente riconosciuti e fra loro lottanti per la prevalenza, non disposto a vedere nel governo se non il suo gerente di affari. Governo costituito anch'esso sulla base della rappresentanza proporzionale dei gruppi parlamentari e, quindi, internamente discorde, abituato a vivere giorno per giorno e a considerarsi esponente momentaneo di situazioni momentanee. Era dovuto, tutto questo, alla riforma che aveva messo su basi proporzionali la rappresentanza della nazione? Così molti dicevano, traendone altri motivi di rampogna per Nitti, autore della riforma della legge elettorale, nel 1919. Ma si risaliva anche più in su, nella ricerca delle cause: egoismo dei partiti, che al parlamento e al governo sentivano e operavano non come tutto o momento del tutto ma come parte; prevalenza assoluta presa dal potere legislativo, specialmente dalla Camera bassa, sopra il potere esecutivo; esautoramento della Corona, ridotta a un compito quasi passivo nella formazione dei ministeri. Di qui, il diffuso desiderio che il re facesse più energico atto di presenza. Di qui, l'invocazione anche di una dittatura militare. La invocò lo stesso Mussolini, un giorno, in Parlamento, pur aggiungendo che essa era una carta rischiosa, da ricorrervi solo in casi estremi, perché, dopo giuocata, o c'è la guarigione o c'è il caos. Ma il grido di Abbasso il Parlamento! Viva la dittatura! era un grido che cominciava a risonar frequente, nelle dimostrazioni dì fascisti e anche non fascisti, sotto le prefetture e i comandi di corpo d'armata. Così a Bologna e a Firenze. E Mussolini, commentando quel grido, aggiungeva: “La parte migliore della nazione non va a sinistra ma a destra, verso l'ordine le gerarchie la disciplina. Da tre anni, chiede un governo e non lo ha. Il governo non c'è. La crisi attuale mostra l'incapacità della Camera a dar un governo alla nazione. Può essere che il grido di Bologna diventi, domani, il coro formidabile di tutta la nazione” (Popolo d'Italia, 12 febbraio 1922).

Di qui, nel fascismo, sempre più occasione, magari cercata, e voglia di sostituirsi al governo, quasi di essere il governo, specialmente là dove più gravi potevano essere le conseguenze di una troppo debole azione di governo: come poteva essere nelle nuove provincie di confine, dove appariva necessario ormai attraversare il cammino alle velleità autonomistiche crescenti, anzi di tagliare corto con le vecchie autonomie e unificare legislativamente quelle provincie all'Italia. Al principio del '22, il fascio di Trieste affrontò decisamente il problema. Vi fu, in quella città, una riunione di deputati fascisti e personalità del partito, Giovanni Giuriati, antico presidente della Trento e Trieste, Michele Bianchi, Alberto de' Stefani. Quelle autonomie, disse quest'ultimo, una volta potevano servire a salvare il paese dalla germanizzazione; ma ora servono solo ad ostacolare la piena fusione con l'Italia, la riscossa dell'elemento italiano. Anche a Zara, il fascismo ingaggiò lotta contro i vecchi nuclei locali, animati da spirito campanilistico, ieri ostili all'Austria, oggi diffidenti verso l'Italia. A Fiume, poi, vi fu, ai primi di marzo, una vera azione guerresca di fascisti fiumani e triestini capitanati da Giunta, contro lo Zanella, che rappresentava lì, egualmente, le tendenze autonomistiche dopo la partenza di D'Annunzio. Nel partito non mancavano neppure gl'impazienti vagheggiatori di più grandi e più rivoluzionari colpi di stato. Ma i più pensavano sempre che il fascismo dovesse, innanzi tutto, inserirsi a pieno nella vita nazionale ed esserne esso la forza d'impulso. Un'azione violenta per impadronirsi dello stato, diceva lo stesso Mussolini, potrebbe, ora, essere fatale (3 aprile, al Consiglio nazionale del partito). E un ordine del giorno Balbo, Forni e altri, del 3 aprile, impegna i fascisti ad accentrare nel parlamento e nei consessi amministrativi la loro attività di partito, sino a saturarne gradualmente tutta la nazione. Insomma, piuttosto metodo evolutivo. Il quale, tuttavia, non doveva escludere la preparazione anche a eventi rapidamente conclusivi.

Si ebbe, durante la primavera, una serie di grandi adunate fasciste. Il 26 marzo, a Milano, per il terzo anniversario dei fasci: operai, lavoratori dei campi, piccoli borghesi. “Niente pescecani!”; “movimento pieno di impulsi idealistici”, chiosa Mussolini sul Popolo d'Italia. Il 21 aprile, prima celebrazione fascista del Natale di Roma e della festa del lavoro, in sostituzione del Primo Maggio, con adunate, cortei, ecc. Un articolo di Gerarchia metteva in rilievo la funzione di Roma nella storia della nazione italiana. E Mussolini, dal suo giornale: “In Roma, noi vediamo la preparazione dell'avvenire. Roma è il nostro mito. Sognamo un'Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale. Molto dello spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il littorio, romana la nostra organizzazione di combattimento, romano il nostro orgoglio e coraggio. Costruttori formidabili erano i Romani... Con tali pensieri, i fascisti ricordano il primo solco tracciato sul Palatino per costruire la città quadrata”. A metà maggio, 50.000 lavoratori fascisti delle organizzazioni sindacali, affluendo da tutte le strade, a piedi, in bicicletta, su autocarri, entro barconi fluviali, mantelli e coperte a tracolla, militarmente, si concentrano a Ferrara. Italo Balbo capeggia. È un grande “sciopero fascista”. Cercano lavoro e non sussidi; vogliono l'esecuzione sollecita di opere già deliberate, protestano contro la lentezza del governo, affermano che “chi ha fatto la guerra ha diritto alla vita”. Il 24 maggio, anniversario dell'entrata in guerra, fucilate per le vie di Roma contro il corteo che riportava nella sua città la salma di Enrico Toti, l'eroe popolano, il bersagliere mutilato di una gamba, che aveva fatto la guerra in un battaglione ciclisti e, colpito a morte, aveva scagliato la sua gruccia contro il nemico. Morti e feriti. E Mussolini, sul Popolo: “Fascisti di tutta Italia, consideratevi da ora mobilitati, materialmente e moralmente. Se sarà necessario scatterete con la rapidità del fulmine, concentrandovi ai posti che vi saranno indicati. E davanti al vostro impeto, tutto cadrà”. E pochi dì appresso, in seguito ad atti di sangue contro fascisti, in Bologna e provincia, e al sospetto di un probabile piano del governo per spiantar l'organizzazione politica e sindacale fascista, d'accordo con altri partiti, tutti i poteri e le mansioni dei direttori dei fasci della provincia passano ai comitati d'azione; i fasci bolognesi sono mobilitati; Michele Bianchi, segretario del partito, trasferisce la sua sede a Bologna. Squadre ferraresi, modenesi, veneziane, si concentrano in quest'ultima città. Sono 10.000 uomini: bivacchi sotto i portici, ronde notturne, sveglia, rancio, insomma disciplina militare. Una vera occupazione della città! Si vuole la testa del prefetto Mori. E quando ottengono che i servizi di polizia passino al comandante del Corpo d'armata, generale Sani, le squadre partono. Si ebbe, in questa occasione, la misura della forza della nuova organizzazione politico-militare, pronta, disciplinata, maneggevole. Lo constatarono anche giornali non fascisti. Lo rilevarono all'estero, dove cominciava a volgersi una certa attenzione, fatta di curiosità e d'interesse vero, a questo fascismo italiano che non si esauriva solo nelle questioni interne ma aveva anche chiare linee di un programma di politica estera, più benevolo per gli antichi nemici che per gli antichi alleati. E poi, adunata a Firenze, pure il 28 maggio, dei fasci toscani, da Grosseto a Carrara, da Arezzo a Livorno: molte migliaia di uomini. Adunate a Padova, a Legnano, a Sestri Ponente. Prima adunata nazionale delle corporazioni sindacali, passate dalle organizzazioni rosse a quelle fasciste, al grido di Viva l'Italia, Viva il fascismo!. Ormai, la gara coi socialisti, per strappar loro le masse, è vinta quasi su tutta la linea, specie nelle campagne. Proprio in quei giorni, Mussolini metteva in rilievo questo grande fatto della “ruralizzazione” del fascismo nella valle padana. “Il patriottismo, aggiungeva, non è più, ora, un sentimento monopolizzato (o sfruttato) dalle città, ma diventa patrimonio anche delle campagne. Il tricolore, ignorato per lo innanzi, sventola ora nei più oscuri villaggi”. È grande merito del fascismo essere riuscito a inserire vaste masse di elementi rurali nel corpo vivente della nostra storia (Gerarchia, 20 maggio '22). E Rossoni, il giorno dell'adunata: da oggi, il lavoro italiano entra nella storia della nazione. Solo ora, vi è un sindacalismo nazionale, perché fino adesso le classi operaie erano state abituate dai socialisti a chieder solo benefici materiali. “Ma ora, dal popolo, in ispecie dal popolo delle campagne, nasceranno le affermazioni nuove della nazione italiana”.

Di fronte a questo spettacolo di masse che erano quasi eserciti, mobilitate e smobilitate a un cenno, che mentre sembra fiancheggino lo stato, in realtà operano come forza fuori dello stato, molta gente, in Italia e fuori, si domandava, meravigliata o inquieta: ma il fascismo vuole restaurare o sovvertire l'ordine e lo stato? Si può, nel tempo stesso, restaurare e sovvertire? E Mussolini: c'è una antitesi assoluta, ora, fra lo stato attuale, lo stato “liberale”, che presume essere sopra la mischia dei partiti e delle classi e mette su uno stesso piano forze nazionali e statali e forze antinazionali e antistatali; e lo stato come lo intende e vuole il fascismo. Bisogna che questo contrasto cessi: che cioè il fascismo incarni esso lo stato. Come avverrà ciò? Forse legalmente. Forse: cioè ci sono due modi o soluzioni. E tra i fascisti c'era una corrente che pensava a una ascesa legale, a una graduale penetrazione in tutte le regioni, in tutti i municipi, specialmente nei maggiori, a una schiacciante maggioranza nel paese, a una riforma della legge elettorale, a nuove elezioni, a una prevalenza nella Camera, e, quindi, nel governo; e una corrente extralegale, insurrezionale, militare. Anche alla Camera fu posto il dilemma: legalità o illegalità? Mussolini pare stesse per la prima: o, quanto meno, volesse battere anche la prima. Egli non poteva non prospettarsi le difficoltà di un atto insurrezionale: forse anche, una possibile e non desiderabile prevalenza dell'elemento o attività militare, sopra l'attività politica. Tuttavia, Mussolini non era uomo da escludere il secondo corno del dilemma. Facilmente ce lo immaginiamo nel suo intimo affascinato dalla visione di un esercito in marcia, di una vittoria raggiunta d'assalto non per pattuizione e inevitabile transazione. Era poi sua idea radicatissima di non pregiudicare nessuna soluzione; di mantenersi aperte tutte le vie. Anche perché legalità e illegalità non erano poi così nettamente distinte e distinguibili che l'una escludesse in modo assoluto l'altra. Certo, nel luglio, vi è una serie di “battaglie di epurazione locale”, come le chiama Mussolini: cioè defenestrazione, sia pur in forma di dimissioni, di sindaci e consigli comunali socialisti. A metà mese, il fascismo s'impone a Rimini: e Rimini, insieme con Bologna, appaiono come le branchie di una tenaglia per serrar tutta la Romagna. Da Rimini, poi, accesso alle Marche, dove fino allora erano solo poche avanguardie fasciste. Eguale vittoria ad Andria, centro pugliese. E poi, a Cremona, campo di battaglia di Roberto Farinacci; a Novara, a Viterbo.

Sembra che a questo punto si voglia, dal campo opposto, correre ai ripari, per evitar che la breccia si allarghi. Nell'ultima decade di luglio, sciopero ferroviario, che comincia a Novara, dove si era dato l'assalto alla Camera del lavoro, e si estende alle regioni vicine. I comunisti, che facevano capo al giornale torinese Ordine Nuovo, ispirano e incoraggiano. Vi è una minaccia fascista di occupar Milano con 30.000 uomini, se lo sciopero non cessa il 21 luglio: e il 21 luglio, fosse la minaccia fascista, fosse la non piena riuscita dello sciopero, lo sciopero finisce. Qualche giorno dopo, tentativo di riscossa socialista a Ravenna, con battaglia fra operai delle leghe rosse e operai passati ai sindacati fascisti. Ma vi è, subito, l'occupazione di Ravenna da parte di fascisti accorsi dai paesi attorno, specialmente da Ferrara, con Balbo: “la presa di Ravenna”, come si disse. Nuovo e maggiore sciopero è proclamato il 31 luglio, durante una crisi del gabinetto Facta. Proprio il giorno prima, Filippo Turati, leader del socialismo di destra, era stato ricevuto dal re e consultato sulla crisi ministeriale. Era la prima volta che un socialista ancora legato al partito e con forti solidarietà nel Parlamento e nella Confederazione del lavoro, saliva al Quirinale. E apparve in vista una possibile collaborazione: quella collaborazione che parecchie frazioni della democrazia ogni giorno auguravano dal 1919. Ma non i fascisti. Mussolini poteva sì pensare e ritenere non impossibile, presto o tardi, una grande coalizione dei tre partiti di masse, delle tre grandi forze che allora si dividevano l'Italia, socialismo, popolari, fascismo: coalizione, naturalmente, in cui il fascismo non avrebbe potuto non entrare come primus inter pares. Lo aveva detto alla Camera un anno prima; lo ripete ora sopra il suo giornale (30 luglio 1922). Ma non avrebbe mai assistito passivamente, in particolar modo nel 1922, a un'ascesa dei socialisti al governo, dove già erano quei popolari che ogni giorno più si dichiaravano avversi al fascismo: cioè non avrebbe tollerato una coalizione governo-socialisti-popolari, che poteva essere interpretata come atto non di pace ma di guerra, guerra al fascismo e, quindi, guerra civile nel paese. Vuol dire che lo sciopero generale, ora, ricacciò indietro ogni possibilità di collaborazione al governo, qualunque potesse essere stato l'atteggiamento del partito e della Confederazione di fronte allo sciopero stesso, atto rivoluzionario e ispirato dagli elementi rivoluzionari. Vi è, anche ora, una pubblica intimazione e un ultimatum fascista agli scioperanti e al governo: entro 48 ore, o lo sciopero finirà o noi ci sostituiremo ai poteri pubblici per farlo cessare. E dopo 48 ore, perdurando lo sciopero, le squadre fasciste occupano le stazioni, presidiano le linee ferroviarie, conducono e scortano i treni, proteggono i ferrovieri non scioperanti. E in pochi giorni, lo sciopero è troncato. Nello stesso tempo, il 3 agosto, le squadre fasciste cacciano dal comune di Milano i socialisti; assaltano e distruggono, pagando tributo di sangue, l'Avanti!. Riappare a Palazzo Marino il tricolore e dal balcone parla al popolo D'Annunzio, tornato la prima volta a Milano dopo la notte di Ronchi. Se ombre vi erano state fra Mussolini e d'Annunzio, ora esse svaniscono. Poi, battaglia a Savona, battaglia a Parma, battaglia a Livorno, capeggiata da una medaglia d'oro, il comandante Costanzo Ciano. Anche a Livorno è occupato il comune; e in quel momento, quasi per consacrare la vittoria, ventimila cittadini s'inginocchiano in religioso raccoglimento, nel pensiero dei caduti. Il 5 agosto, anche a Genova, il Comitato d'azione decide l'occupazione del porto, roccaforte dei socialisti e delle loro cooperative che monopolizzavano il lavoro. E la parola d'ordine è: libertà del porto, rescissione di ogni contratto fra il Consorzio portuario e le cooperative socialiste, riconoscimento della pluralità delle cooperative per ogni ramo del lavoro. Anche qui, vittoria. Il palazzo di San Giorgio, il glorioso palazzo dell'antica repubblica, cuore di Genova marinara, ora sede del presidente del Consorzio, è occupato. Il giornale socialista è devastato.

Fatti altamente significativi e ricchi di conseguenze, tutti questi. Si vide che cosa potessero alcune migliaia di uomini risoluti a battersi, animati da un'idea chiara e da una forte passione in mezzo al plauso o consenso dell'enorme maggioranza dei cittadini. Si vide come la predicazione socialista, se non aveva educato nei proletari il senso dell'ordine nazionale, neppure aveva saputo educare il sentimento e la capacità rivoluzionaria. Colpirono giusto i sarcasmi di Mussolini che ai socialisti rimproverò di non aver voluto o saputo fare né la collaborazione né la rivoluzione. E allora? In quei giorni, il fascismo ebbe quasi la definitiva consacrazione. E chiamò a sé tanta altra gente che stava in attesa. Lunghi elenchi di nuovi fasci, di nuovi sindacati, di nuove avanguardie giovanili, di nuove squadre. E crollo di sindacati e comuni rossi, come per un terremoto; occupazione di Camere del lavoro, conquista di cooperative, come a Verona e a Venezia. Svigorito affatto il partito socialista, altri elementi operai, e questa volta operai delle città, si orientano verso il fascismo. Ancora più borghesia media e piccola, che erano ceti ancora disorganizzati. Fra essi avevano molto seguito i vari piani di collaborazione socialista al potere. Ma ora, il socialismo non mostrava di essere sempre fuori del quadro dei valori nazionali? E non avrebbe, dopo le prove di disordine, di disorganizzazione, di demagogia finanziaria che aveva dato nel governo dei comuni, non avrebbe dato eguali prove nel governo dello stato?

Insomma, nuovo proselitismo e nuovi proseliti a favore del fascismo, tanto di borghesia quanto di popolo. E diede qualche preoccupazione ai fascisti, questa troppa gente; qualche speranza agli avversari, come potesse accadere al fascismo ciò che era, nel 1919-20, accaduto al socialismo, ammalatosi di polisarcia [nota: in medicina, forma di obesità associata a notevole sviluppo delle masse muscolari e della struttura ossea] e scaduto di forze. Ma no, rispose Mussolini. A differenza dei socialisti, noi non abbiamo venduto fumo. Noi parliamo dell'Italia e del suo avvenire. Non rinunciamo ad alcune affermazioni di carattere imperialistico. I troppi accoliti possono danneggiare un partito di disputanti, non un partito fatto di soldati come noi. La nostra disciplina politica è anche disciplina militare. Le nostre giovani reclute chiedono di combattere, non di discutere. Anche ai sindacati non abbiamo mai promesso troppa felicità. Difenderemo le conquiste operaie; ma imporremo, se necessario, anche sacrifici (La Fiumana, in Popolo d'Italia, 26 agosto). E viceversa, un gravissimo colpo, quasi mortale, al socialismo, come numero e come credito. Già ferito dall'insuccesso dei tentativi d'instaurare un ordine nuovo dalla vana attesa del messia, dalla poca energia mostrata verso i comunisti, esso ora è nuovamente ferito dall'insuccesso dello sciopero generale, dalla stessa contraddizione d'invocar la legalità, fare appello alla forza dello stato contro la violenza fascista, e nel tempo stesso ricorrere, per conto proprio, ad altra e più vasta violenza. I socialisti riconobbero da sé la sconfitta; conseguenza di quello sciopero col quale avevano, viceversa, sperato di fiaccare il fascismo. Lo sciopero dell'agosto, dissero, è stata “la nostra Caporetto”. Era l'ultima carta, l'abbiamo giocata, abbiamo perso. Ci hanno tolto Milano e Genova, nostri caposaldi che parevano imbattibili. Ci hanno dato alle fiamme i due maggiori giornali, l'Avanti! a Milano e Il Lavoro a Genova. Dovunque è giunta, la raffica fascista ci ha spazzato. Le varie soluzioni che noi abbiamo tentato del problema della nostra esistenza sono state tutte tardive; tardiva la soluzione collaborazionistica, che si doveva tentar dopo le elezioni del maggio 1921; tardiva quella rivoluzionaria dello sciopero generale di protesta, tentata quando molti dei nostri fortilizi erano già caduti... La colpa è dei dissensi interni di metodo e delle deviazioni dalla rotta originaria. Bisogna ritornare alle origini, alla carta costituzionale del socialismo italiano del 1891... (La Giustizia, di Reggio Emilia, 22 agosto 1922).

È probabile che la vittoria dell'agosto avvalorasse nel partito fascista non le correnti legalitarie e gradualistiche ma quelle rivoluzionarie. Per lo meno, spingesse ad accelerare i tempi. Sempre più urgenti i problemi di fronte a cui si trovava il fascismo, pel suo stesso crescere: problemi che ormai investivano la nazione intera. E poi, mai come allora si era visto il governo legale starsene più passivo e, di fronte ad esso, accamparsi in maggior efficienza e funzione un governo di fatto. Apparve sempre più urgente pensare al Mezzogiorno, sempre piuttosto diffidente e tardo di fronte a ciò che veniva dal Nord. Aveva resistito, a mezzo il sec. XIX, al mazzinianesimo. Aveva reagito in vario modo al piemontesismo che fu, per esso, la prima forma che assunse l'unità. Era stato, nel 1919-20, causa di preoccupazione pei socialisti, come potesse, il Sud, essere la Vandea d'Italia. E ora preoccupava i fascisti. C'era, nel Mezzogiorno, un discreto movimento fascista in Puglia, col deputato Caradonna. C'era in Campania e a Napoli, col capitano Padovani. Ancora qualcosa di più in Abruzzo, con Giacomo Acerbo, che molta parte aveva avuto nell'orientamento dei combattenti abruzzesi verso il fascismo e poi nel trattato di pacificazione dell'estate 1921. Ma altrove, poco o nulla. D'altra parte, senza Mezzogiorno, come conquistare e tenere Roma? Come evitare, quanto meno, pericolo di scissioni e ferite all'unità? E Mussolini, l'11 agosto preannunciò per il 24 ottobre un concentramento di camicie nere a Napoli, come atto di presenza e come avviamento a una più rapida penetrazione. Il fascismo, aggiungeva, farà della questione meridionale la maggior questione nazionale. Susciterà in quel paese le energie politiche ed economiche capaci di dargli nuova vita. Il Sud sanerà il Sud: ma lo stato lo sorreggerà nello sforzo. Nel Mezzogiorno, il fascismo vede una grande riserva demografica, cioè di lavoratori e di soldati; un grande sentimento unitario; una grande capacità di resistenza alla lue sovversiva. A Napoli, egli preciserà anche la posizione del fascismo verso la monarchia...

Esiste già e volteggia per l'aria una parola: “marcia su Roma”. A chi lo interpella, Mussolini risponde che questa marcia è già in atto, nel senso alto, storico della parola. È in atto il processo per cui il fascismo incarna esso lo stato. È in atto la formazione di una nuova classe politica, cui sarà affidato il compito di governare la nazione: “governare”; poiché quello di Facta è un ministero, non un governo. La marcia di 100 o 300 mila camicie nere, militarmente inquadrate, di cui qualcuno parla, per le tre direttrici adriatica, tirrenica, valle tiberina, è possibile, ma non strettamente necessaria non inevitabile... Insomma, è sempre vivo il dilemma. E lo ripete ancora, esplicito, Michele Bianchi, segretario del partito, il 13 agosto, davanti a una riunione milanese del Comitato centrale del partito, fatto di rappresentanti delle regioni. Siamo ormai alla fase ricostruttiva, egli disse. Una grande massa di lavoratori, venuta a noi, attende da noi. Ora, aut aut: o diverremo la linfa vitale dello stato o ci sostituiremo a esso. O avremo presto le elezioni politiche e una rappresentanza proporzionata al valore politico nostro nel paese; o, se no, avremo nuove azioni fasciste. La decisione dovrà maturare in poco tempo. Auguriamo che i ceti dirigenti italiani intendano... - Per ogni buon fine, Balbo, capo delle squadre, chiede si formi presso la direzione del partito un organo tecnico e strategico, per dare una direttiva unitaria a tutto l'inquadramento militare fascista e renderlo sempre più efficiente. Nel fascismo, Balbo è a sinistra. Egli è sempre per un fascismo mobilitato, senza pastoie di sorta. Il trattato di pacificazione lo trova contrario; contrario la trasformazione in partito.

Il 20 settembre, adunata dei fasci della Venezia Giulia a Udine, e grande discorso di Mussolini. Era l'anniversario della Breccia di Porta Pia. E Mussolini elevò il pensiero a Roma, la città dello spirito, a Roma che fu già alta meta e alto simbolo per Mazzini e Garibaldi, a Roma che avrà una funzione essenziale nella nuova vita della nazione, che diverrà “il cuore pulsante della sognata Italia imperiale”. Solo che Roma bisogna meritarsela; meritarsela con la disciplina all'interno e, all'estero, con una politica che non sia fatta più di rinunce e di viltà, “costi quel che costi”. Da Roma, il fascismo trasformerà il regime. In che senso? A un mese dall'adunata di Napoli, Mussolini crede di dover anticipare le preannunciate dichiarazioni sulla monarchia. “Credo si possa rinnovare il regime lasciando la monarchia”. Altri bersagli ci sono, su cui mirare! E poi, gran parte d'Italia non ci seguirebbe. Avremmo del separatismo regionale. “Dobbiamo avere il coraggio di essere monarchici”. La monarchia è la continuità. Grande compito, il suo! D'altra parte, la rivoluzione fascista non vuol mettere tutto in giuoco, non vuol dare al popolo l'impressione che tutto crolli. Avremmo ondate di panico! Basta demolire la superstruttura socialistoide democratica. Lo stato italiano, ora, non ha consistenza morale, è sempre in balia del più forte, affronta i problemi ognuno per sé e solo come problemi politici. Non ha l'intima coscienza di un suo dovere, di una missione. E allora, costruisce senza cemento. E sovraccarico di attività: bisogna alleggerirlo. Credete che ciò lo rimpiccolisca? Tutt'altro, gli resta sempre, e sempre più, il grande dominio dello spirito...

Larga risonanza ebbe il discorso di Udine: nelle vicine regioni redente e nel lontano Mezzogiorno, a cui esso era più specialmente rivolto. Seguirono alcune settimane di adunate e di azioni di forza; a Vicenza, a Novara, ad Alessandria, a Cremona. Qui Mussolini, il 24 settembre, disse: “Il Piave non è una fine ma un principio. È di lì che prendono le mosse i nostri gagliardetti, di lì comincia la marcia che solo a Roma avrà termine. Nessun ostacolo potrà fermarla”. Il 29 settembre, riunione a Roma, nella sede della Federazione delle cooperative, dei membri della direzione del partito. C'è Mussolini, Bianchi, Balbo, Ciano, Terruzzi, De Vecchi, Dudan, Bastianini, altri: e la marcia su Roma, la vera marcia, appare decisa. Essa avrebbe evitato urti con l'esercito, rispettato la monarchia, preso in mano il governo, togliendolo agli esponenti del Parlamento. Vi sono qua e là dissensi interni nei fasci. E i capi ad ammonire: non bisogna turbare la marcia del fascismo, che deve essere su una sola via, quella di Roma! Fra settembre e ottobre, vengono a maturazione eventi importanti in Alto Adige. Già il primo settembre, vi era stato un memoriale del segretario del partito, Bianchi, al capo del governo, con l'invito a tagliar corto circa l'autonomia, estendere all'Alto Adige le leggi e i poteri dello stato, fare scomparire i troppi segni del passato regime. Si era poi entrati in trattative con le autorità municipali del luogo e qualcosa i fascisti avevano ottenuto: come a Merano, l'esposizione della bandiera italiana nei giorni di festa e l'uso delle due lingue come lingue ufficiali. Poiché, a tre anni dall'arrivo degl'Italiani in quelle terre, a tre anni dalla vittoria e dal crollo dell'impero austro-ungarico, si era ancora a questo punto. Ma vane le trattative con Bolzano, dove i ragazzi italiani erano senza scuola, la polizia cittadina assolveva anche funzioni politiche, il sindaco Perathoner era padrone assoluto della città. Vani anche i colloqui con i deputati tedeschi della regione. Le autorità italiane, poi, seguitavano a traccheggiare. E allora, anche qui, i fascisti sottentrano. Nel settembre, Francesco Giunta, che già aveva capeggiato azioni di forza a Trieste e a Fiume, ebbe da Mussolini autorizzazione a intervenire: se necessario, anche con mezzi estremi. E nella notte fra settembre e ottobre, ecco squadre di Vicenza, Mantova, Trento, Cremona, Brescia, guidate da A. De' Stefani, Francesco Giunta, Roberto Farinacci, Italo Bresciani, Achille Starace, C. Buttafuochi; rapidamente concentrarsi, fare irruzione a Bolzano, occupare dopo un rapido urto con la truppa l'edificio scolastico Imperatrice Elisabetta e intitolarlo alla regina Elena, occupare il municipio e inalberarvi il tricolore e mettervi l'effigie del re, occupar poi il palazzo dell'amministrazione provinciale di Trento, sede del commissario Credaro, e rivolgere al governo perentorie domande: abolizione del commissariato e licenziamento del commissario, applicazione delle leggi italiane alle terre redente, creazione di una provincia unica Trento-Bolzano. La lotta non era tanto contro i Tedeschi, con i quali nessuno voleva fare una politica di violenza. Nessuno disconosceva, lì, la presenza di 200.000 Tedeschi. Ma era contro il governo italiano che permetteva a quei 200.000 Tedeschi, piccolissima minoranza in una nazione etnicamente omogenea come poche altre in Europa, d'ignorare l'Italia e trattare gl'Italiani come stranieri.

Nel paese, fuori del fascismo e anche dell'antifascismo, soddisfazione, disagio, disorientamento, un po' tutto, per questi avvenimenti. “Finalmente, abbiamo un governo !”. Oppure: “Ma quanti governi abbiamo? Due governi sono troppi!” E volevano dire tanto che i fascisti dovessero affrettarsi a diventare il governo, quanto che il governo non dovesse più indugiare a ritornare, esso, governo. Comunque, togliere, togliere presto la duplicità. Per i fascisti, naturalmente, il problema era già risolutissimo. E non si faceva ormai mistero della via che si sarebbe battuta. In un discorso alla squadra d'azione Antonio Sciesa di Milano, il 4 ottobre, Mussolini disse parole non oscure, “data l'attesa che tiene sospesi gli animi di tutti gli Italiani, nel presagio di qualche avvenimento che dovrà arrivare”. Ricordò anche l'assalto all'Avanti!, dell'agosto, attraverso lo sbarramento dei proiettili e dei reticolati. Ecco, aggiunge, la violenza vera del fascismo milanese. “Non la piccola violenza individuale, sporadica, spesso inutile, ma la grande la bella la inesorabile violenza delle ore decisive”. Era, ancora una volta, il distogliere l'attenzione dei fascisti dalle troppe azioni di dettaglio, perché la concentrassero su quella “delle ore decisive”. E in quegli stessi giorni, si sa che Mussolini compilò il proclama da lanciare, come poi fu lanciato, agl'Italiani. Ma Mussolini, lo dicemmo, era l'uomo di tutte le porte aperte. Se non si voglia piuttosto credere che, pure persuaso dell'impossibilità di giungere a una conclusione soddisfacente, quella che tutti i fascisti ormai aspettavano, per le vie della perfetta legalità, Mussolini ritenesse tuttavia opportuno accennar sempre a una possibile soluzione legalitaria, per poter giustificare appieno, anche presso la grande maggioranza degl'incerti, i procedimenti violenti che poi si adottassero. Disse ancora, davanti ai giovani della Sciesa: “Urge sempre più dar un governo all'Italia”. E non è dubbio, dopo i fatti di Bolzano e San Terenzio (un piccolo paese vicino alla Spezia, sconvolto qualche settimana prima dall'esplosione di un deposito di proiettili e rapidamente soccorso dalle squadre fasciste, capitanate da Renato Ricci, perfettamente attrezzate anche a quella bisogna), chi possa e debba darlo. Il governo dovrebbe convocare la Camera ai primi di novembre, far votare una nuova legge elettorale, procedere subito alle elezioni. Non basta una crisi Facta. Con questo parlamento, trenta crisi non possono darci che trenta Facta. Se il governo non accetta di battere questa strada, noi batteremo l'altra. Ormai, giuochiamo a carte scoperte, anche se gli altri poco ci intendono: poiché la politica parlamentare ha inaridito gli spiriti. Ma dalle trincee, è venuta su un'Italia piena di impulsi e di vita. - E, da uomo che ormai si sente vicino ad afferrare il timone, accennava con largo gesto del braccio alla rotta che egli avrebbe seguito: faremo una politica di severità e di reazione. Poiché siamo anche reazionari. Reagiamo all'andazzo democratico, per cui tutto deve essere grigio, mediocre, livellatore, tutto si fa per rendere fugace effimera non appariscente l'autorità dello stato, dal re troppo democratico all'ultimo impiegato. La democrazia ha tolto lo stile al popolo italiano, cioè una linea di condotta, il colore, la forza, il pittoresco, l'inaspettato, il mistico, tutto ciò che conta nell'animo delle moltitudini. Noi riportiamo tutto questo. Tocchiamo tutte le corde, violenza e religione, arte e politica; siamo politici e guerrieri...

Un uomo che parlava così, adombrando una rivoluzione profonda in tutto il modo di vivere nazionale, davanti a giovani in attesa di grandi cose, non poteva certo annettere molta importanza a trattative che in quei giorni correvano col capo del governo italiano. E pure, queste trattative si fecero: qualunque fosse il fine che veramente esse si proponevano, da parte dei fascisti. Erano cominciate dopo i fatti di Bolzano, cioè dopo rivelatasi anche ai ciechi quella paralisi del governo che ormai si poteva considerare paralisi dello stato italiano e, viceversa, efficienza del nuovo governo e quasi stato fascista. E procedevano stentate. Roma, la Roma ufficiale era anche ora, come durante la guerra, l'ultima a vedere e capire la realtà italiana. Lì filtrava, dalla penisola, una realtà fittizia; lì si viveva una vita fittizia, tutta abitudini e pensieri tradizionali. Il parlamento, le schermaglie dei partiti, la vicenda delle crisi, vi avevano una parte assolutamente sproporzionata alla reale importanza loro, alla sostanza nazionale che in essi si conteneva o rispecchiava. Il governo, ora, mise il problema sul terreno della pubblica sicurezza e della legalità. Non ammise di poter entrare nel merito delle varie concezioni politiche che erano in lotta, di poter uscire dalla sua neutralità di fronte a esse. I fascisti esigevano una larga partecipazione al governo; chiedevano i ministeri più importanti, come quello degli Esteri, della Guerra, della Marina, dei Lavori pubblici; più, il commissariato dell'Aviazione. Il governo offrì posti da sottosegretario; acconsentì a nominar ministri senza portafoglio. Anche per questo atteggiamento del governo, nessuna meraviglia se il partito seguitava alacremente a montar la sua macchina di guerra. Il 18 ottobre, in una riunione presso il fascio milanese, a cui intervennero, con Mussolini e Bianchi, De Vecchi, Balbo e il gen. De Bono, comandanti delle squadre, e i generali Fara e Ceccherini, si addivenne alla nomina di un quadrumvirato che dovesse assumere i pieni poteri all'inizio dell'azione rivoluzionaria. E furono Bianchi, Balbo, De Vecchi, De Bono. Mussolini accennò a una data: 21 ottobre. È probabile che tendesse piuttosto ad anticipare che a ritardare. Vi fu qualche esitazione di taluni degl'intervenuti, come l'organizzazione militare fascista non fosse ancora in piena efficienza; come il Mezzogiorno non desse ancora sufficienti garanzie, quanto meno di neutralità benevola. E si decise, così, di attuare prima l'annunciata grande riunione di Napoli, il 24 ottobre. Ma Balbo, De Bono e De Vecchi furono intanto incaricati di fissare il piano di mobilitazione, stabilire i luoghi dell'adunata delle varie colonne che dovevano muovere su Roma.

In queste condizioni, si svolse l'adunata napoletana del 24, dopo che già il giorno prima, a Napoli, Bianchi e i tre comandanti delle squadre avevano preso gli ultimi accordi, impartito le ultime disposizioni, e fissato in modo preciso la data della marcia su Roma. “Noi siamo al punto in cui la freccia si parte dall'arco o la corda troppo tesa dell'arco si spezza”, disse Mussolini, nel suo discorso al teatro San Carlo. Voleva dire che il momento della decisione era giunto. Quale, la decisione presa, non disse. Ma additò, da una parte, il ministero Facta con la sua incomprensione, il suo spirito grettamente legalitario, le sue ridicole offerte; dall'altra, il fascismo, che non poteva “andar al governo per la porta di servizio”, poiché esso “voleva immettere nello stato liberale tutta la forza delle nuove generazioni uscite dalla guerra e dalla vittoria”. La monarchia, aggiunse, non è affatto in giuoco. E qui Mussolini, davanti ai rappresentanti di una regione che, se tradizioni politiche aveva, aveva tradizioni monarchiche, fece ancora un passo verso la monarchia. Su essa, egli disse, si appoggia l'unità: e nessun interesse può avere il fascismo di demolirla. Nel modo stesso che nessun interesse di opporsi al fascismo può avere la monarchia. Si oppose essa, nel '48, allo Statuto? Si oppose nel 1915 alla guerra? Elevò poi un inno a Napoli e al suo popolo. A chi obiettava che quella vasta regione non aveva sofferto di bolscevismo e quindi non aveva bisogno di fascismo, rispondeva: ma ci sono tante altre tristezze da sanare e problemi da affrontare! Bisogna disinfettare gli ambienti locali; coordinare le forze; far di Napoli, insieme con Palermo e Bari, una delle forze d'impulso del Mezzogiorno verso i tre mari e i tre continenti che circondano la penisola....

Si ebbe poi un grande sfilamento, davanti a Mussolini. Ammassatisi fuori città, si raccolsero, dopo tre ore di marcia, nella piazza di San Ferdinando, cuore di Napoli, 40.000 squadristi, 20.000 lavoratori dei sindacati, squadre a cavallo di Campania e Puglia, squadre di ciclisti, medaglie d'oro. Alla testa, le legioni delle terre redente. Fra gli evviva, emergevano quelli a Fiume e alla Dalmazia, del cui pensiero, della cui passione non poco si era, dal 1919 in poi, alimentato il fascismo. Echeggiò anche il grido A Roma, a Roma! E Mussolini lo raccolse, nella breve allocuzione che fece in piazza San Ferdinando: la dimostrazione è fine a sé stessa e non può mutarsi in battaglia; “ma vi dico con tutta la solennità che il momento impone, che o ci daranno il governo o lo prenderemo, calando su Roma”. Ormai si tratta di giorni e forse di ore. Ed esortò a riguadagnare rapidamente le proprie sedi, in vista dell'azione “che dovrà essere simultanea e che dovrà in ogni parte d'Italia prendere per la gola la miserabile classe politica dominante”. I due giorni che seguirono furono dedicati ai lavori del Consiglio nazionale dei fasci. Era presente anche la Direzione del partito, anche il Comitato centrale, anche l'Ispettorato generale delle squadre, anche i segretari provinciali, anche i rappresentanti della Confederazione delle cooperative: cioè tutte le gerarchie politiche, militari, sindacali del fascismo. Si parlò di tutti i problemi urgenti: partito, sindacalismo, gruppi di competenza, elezioni, politica estera, scuola. Ma l'impazienza vinceva tutti. Lo stesso segretario Bianchi, nella sua brevissima relazione, disse che “gli avvenimenti avevano superato non pochi punti dell'ordine del giorno”. Esitavamo fino a pochi giorni fa; “ma ora sentiamo che tutte le agitazioni han lasciato il campo ad una precisa ostinata volontà che vorrà e dovrà essere vittoriosa”. Sintetizzò la situazione così: “le Camere non rappresentano più il paese. Ogni ministero che uscisse da esso eserciterebbe illegittimamente il potere. Nostro compito è ridare la legalità agli istituti rappresentativi in Italia”. Cioè ristabilire la piena rispondenza fra Italia legale e Italia di fatto, scavalcando la Camera. Non diversamente nel maggio 1915, quando l'interventismo chiedeva al re, direttamente, un ministero che volesse la guerra, laddove la Camera non la voleva. Una concezione non diversa presiede alle giornate di maggio e alla marcia su Roma. E poiché, nella riunione di Napoli, relatori e oratori andavano per le lunghe, Michele Bianchi uscì nella frase, rimasta storica: “Ma fascisti, a Napoli ci piove, che state a fare?”.

Seguì, il 26 ottobre, l'ordine segreto d'immediata mobilitazione in tutta Italia, per i principi e i triari. E rapidamente, tutto il piano preparato entrò in esecuzione, dopo la mezzanotte fra il 26 e il 27. I poteri politici militari e amministrativi vennero assunti da un quadrumvirato segreto d'azione, con mandato dittatoriale. Fu lanciato un proclama, redatto da Mussolini, firmato dai Quadrumviri stessi. Ricorreva il quarto anniversario del giorno che l'esercito nazionale aveva scatenato sul Piave l'offensiva vittoriosa. “Oggi, l'esercito delle Camicie Nere riafferma la Vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio”. Il proclama ammoniva che l'esercito doveva rimanere estraneo alla lotta; estranei anche gli agenti della forza pubblica. La lotta era ingaggiata “contro una classe politica di imbelli e deficienti che da quattro anni non ha saputo dare un governo alla nazione”. Nulla aveva da temere la borghesia produttrice: “il fascismo vuole imporre una disciplina sola alla nazione ed aiutare tutte le forze che ne aumentino l'espansione economica e il benessere”. Nulla da temere la gente del lavoro, a cui si sarebbe assicurata la tutela dei giusti interessi. “Chiamiamo Iddio sommo e lo spirito dei nostri morti a testimoni che un solo impulso ci spinge, una sola volontà ci accoglie, una passione sola ci infiamma: contribuire alla salvezza e alla grandezza della Patria”.

Intanto, nelle maggiori città, i direttori si costituivano in comitati d'azione e assumevano la direzione del movimento. Venivano occupati, quasi da per tutto, uffici pubblici, municipi, poste, telegrafi, questure, prefetture. Si fece razzia di armi, dove si poté, con improvvisi e rapidi colpi di mano. Si requisirono le cose necessarie. Urti con soldati e agenti non mancarono. A Casal Monferrato, a Cremona, nel Bolognese, altrove, parecchio sangue corse. Ma, in generale, o si misero i reparti della forza pubblica nell'impossibilità di agire, giuocando di audacia e di astuzia, operando di sorpresa; o si ottenne la loro momentanea acquiescenza, un atteggiamento di attesa, che presto, di fronte al fatto compiuto, al favorevole corso delle cose a Roma e in tutta Italia, divenne accettazione e solidarietà. I soldati fecero il loro dovere, rimasero al loro posto, tennero testa come poterono all'urto dei fascisti che era urto di massa più che di armi. Ché anzi, di armi ce n'erano, da principio, poche. Ma non era un facile dovere. Di fronte a ordini perentori di repressione a oltranza, i più avrebbero obbedito, magari rivolgendo poi le armi contro sé stessi, come in varie occasioni si era detto da ufficiali, nel corso del 1922. Specialmente tra i subalterni, vi erano larghe simpatie per il fascismo; il quale, da parte sua, sebbene molto parlasse di nazione armata, dava ogni giorno attestati della sua simpatia all'esercito, come una cosa sola con l'Italia e col fascismo. Ma questi ordini perentori raramente ci furono. Il senso della tragedia attanagliava gli animi. Quel che stava avvenendo in quei giorni, in quelle ore, poi, si presentava a tutti con certo carattere di fatalità e anche di sostanziale legalità. Lì non c'era una fazione, non dei ribelli armati, non dei sovvertitori, non degli antimilitaristi soliti a svillaneggiare l'esercito, ma la nazione, il fiore della nazione, quelli in cui meglio s'impersonava la tradizione della guerra: laddove il governo era moralmente isolato e solo per una finzione giuridica si poteva ammettere che rappresentasse l'Italia. Come ingaggiare battaglia contro masse di giovani che avanzavano, spesso inermi o male armati, inneggiando, sincerissimamente, all'Italia, all'esercito, al re? Erano ex-combattenti, gli ufficiali che comandavano le squadre; quasi tutti portavano i segni del valore e delle ferite. Parecchi dichiararono che non avrebbero mai fatto fuoco sui camerati in grigioverde e avrebbero ricevuto nel petto le loro scariche, stando sull'attenti, se gli altri avessero avuto ordine di tirare. E naturalmente, gli altri non tirarono. Escluso in modo assoluto che si possa parlare di defezione dell'esercito, rimane solo il suo rapido adeguarsi alla nuova situazione morale del paese, divenuta subito dopo situazione giuridica.

Delle camicie nere, i triari rimasero a guardia delle città; i principi affluirono verso Roma. Luoghi di adunata erano piccole località a trenta o quaranta chilometri dalla capitale, Santa Marinella e Monterotondo per quelli che venivano dall'Italia settentrionale e centrale, col marchese Perrone, i generali Fara e Ceccherini, il tenente medaglia d'oro Igliori; Tivoli, per quelli dell'Abruzzo, con Giuseppe Bottai, Giacomo Acerbo, il console Giannantoni. Una riserva si formò a Foligno, sotto il gen. Zamboni. Poche, le squadre del Sud: ché quasi tutte ebbero, come compito principale, quello di vigilare le provincie e impedire dislocamento di truppe verso la capitale.

Sede del comando generale era Perugia che, nella notte del 28, venne in mani ai fascisti, dopo che il prefetto, per evitare spargimento di sangue, si fu arreso. C'erano, a dirigere questo lavoro di concentrazione e di collegamento, alcuni uomini del mestiere, cioè generali e ufficiali superiori usciti dopo la guerra dal servizio attivo: taluni già capi di legionari, a Fiume. E procedé, se non alla perfezione, non proprio male. A Roma, intanto, si era riunito, la sera del 26, il Consiglio dei ministri e i titolari avevano messo i loro portafogli a disposizione del presidente, lasciandolo libero di giudicare sulla convenienza di formare un altro gabinetto: cioè non pare che avessero proprio la sensazione precisa di trovarsi davanti a una crisi di nuovo genere. Erano, di fatti, poco informati di quel che nel campo fascista si stava preparando. Meglio informato il re che, assente, si affrettò a fare ritorno alla capitale la sera del 27, acclamato alla stazione da fascisti e nazionalisti, e accettò le dimissioni del gabinetto Facta. Il quale rimase al suo posto per il mantenimento dell'ordine pubblico e accennò subito a severe misure repressive, sollecitate specialmente da taluni ministri: arresto dei quadrumviri e dei capi provinciali, difesa armata della capitale alle porte e sui ponti, stato d'assedio in tutte le provincie, a cominciare dal giorno 28. Rese anzi pubblica questa decisione dello stato d'assedio, nella certezza che il re avrebbe firmato il decreto. Ma il re rifiutò la firma e, a mezzodì del 28, l'Agenzia Stefani dové annunciare che la proclamazione dello stato d'assedio non aveva più corso. Furono ore di profonda emozione, di ansiosa attesa. Luigi Federzoni, dei nazionalisti romani, Dino Grandi deputato di Bologna, Costanzo Ciano, Cesare De Vecchi, altri, manovrarono fra il governo e la corte, la corte e Mussolini, Mussolini e il governo. Appena si seppe, per Roma, del rifiuto del re, fu un grande inneggiare a lui. Squadre fasciste e nazionaliste cominciarono a circolare liberamente. In ultimo, fallito un tentativo di ministero Salandra-Mussolini, per il rifiuto di quest'ultimo, fu incaricato Mussolini stesso, il 29 ottobre, di formare il ministero. E Mussolini, accorso a Roma, presentatosi al re, rapidamente costituì il ministero che contò, fra i primi, il generale Armando Diaz, duca della Vittoria, e l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel, duca del Mare, capi di stato maggiore dell'esercito e della marina nell'ultima e vittoriosa fase della guerra. Era intanto cominciata la marcia delle colonne su Roma, dai luoghi di raduno: qualcuna, di sua iniziativa, per impazienza e insofferenza di comandanti e gregari, fuori di ogni ordine superiore. Marcia poco cruenta: qualche agguato di comunisti o arditi del popolo, fucilate dalle finestre e dai tetti contro la colonna che veniva dall'Abruzzo, attraverso il popolare quartiere di San Lorenzo a Roma, ecc. Così il dramma, anziché volgere a tragedia, ebbe lieto fine. Il 31 ottobre, ordine di smobilitazione. Ma prima, le centomila e più camicie nere, ammassatesi a Villa Borghese, furono passate in rivista da Mussolini, mossero inquadrate verso l'Altare della Patria dove resero omaggio al Milite Ignoto, sfilarono sotto il Quirinale e salutarono il re, che, fiancheggiato da Armando Diaz e da Thaon di Revel, assisté per cinque ore al passaggio di questa grande ondata di gioventù. Canti, inni, potenti alalà, gagliardetti e bandiere al vento, qualche stinta camicia rossa garibaldina mescolata alle camicie nere dei fascisti, entusiasmo prorompente. E subito dopo, partenza da Roma e ritorno alle sedi.


Il fascismo al governo

Sebbene salito al governo con atto rivoluzionario, Mussolini non fece un ministero tutto e solo di fascisti. Veniva dal liberalismo, sia pure da un “nuovo liberalismo”, Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione; dal nazionalismo, Luigi Federzoni, cui furono affidate le Colonie; dai radicali, Colonna di Cesarò che ebbe le Poste e i telegrafi; da altri settori o partiti, compreso il popolare, altri ministri o sottosegretari. Per poco non vi entrarono anche socialisti della Confederazione del lavoro. Solo che questi uomini non erano lì in rappresentanza di un partito. E il ministero non fu ministero di coalizione, sebbene così lo chiamasse lo stesso Mussolini. Fu un ministero fascista, fatto di fascisti e di non fascisti chiamati a collaborare. Potremmo anche dire che il nuovo ministero fu, senz'altro, Mussolini, tanto egli era preminente in mezzo agli altri. Anche prima che una legge desse posizione eminentissima al capo del governo, Mussolini fu subito assai più che un primus inter pares. Basta ripensare, del resto, alla sua potente personalità e alla sua condizione di fondatore e animatore di un partito come quello fascista che voleva identificarsi con l'Italia, procedeva secondo una severa legge gerarchica e sotto l'incontrastabile comando del suo capo, era insieme partito e milizia. Fra un partito così fatto e il governo, ora, non vi è solo una unione personale, rappresentata da un comune capo, ma una unione quasi costituzionale. Non è caso nuovo che un partito, salito al potere, seguiti a vivere ed esercitare la sua azione di controllo e di impulso; e che capo del partito e capo del governo siano una persona sola. Caso nuovo è piuttosto questo collegamento quasi costituzionale fra partito e governo. Organo di collegamento è una nuova istituzione, il Gran Consiglio fascista, presieduto da Mussolini e formato dei ministri fascisti (due o tre, da principio; poi, tutti), di qualche sottosegretario dei dicasteri più strettamente politici, dei quadrumviri, del segretario generale delle corporazioni, del segretario dei fasci all'estero, del direttorio del partito, dei capi della milizia: insomma, l'alto comando o lo stato maggiore del partito.

Innovazione grande, dunque, nel governo. Si vede già chiaro che questo, come non emana dalla Camera ma dal re per un verso, dal partito per l'altro, così non intende dipendere dalla Camera, legare la sua esistenza a un voto della Camera, essere esponente di situazioni momentanee della Camera. Insomma, fine, di fatto almeno, dello stato democratico-liberale. E tuttavia, non, anche nell'ordine istituzionale, quel sovvertimento che è legato al concetto comune di rivoluzione. E vi fu chi, fascista o antifascista, biasimò o irrise Mussolini, perché aveva arrestato la rivoluzione proprio ai suoi primi passi. È che la “rivoluzione” di Mussolini non era sovvertimento, non era Russia. A questa rivoluzione così fatta, egli, se pure un tempo aveva creduto, ora non credeva più. Si era messo sopra un terreno storico, cioè aveva segnato a sé dei limiti: specialmente da quando aveva accettato la monarchia. Intendeva innovare profondamente, ma non rinunciare a utilizzare elementi vecchi e, pure, vivi, vitali, utilizzabili. E anche in quanto voleva innovare, voleva procedere per gradi, dalla base al sommo, pietra su pietra; creare, dove non c'erano, le condizioni per ben costruire. E poi, vi era un compito immediato e urgente, capace di assorbire la forza di lavoro di ogni più operoso governo; un compito pel quale era possibile e utile mettere a contributo capacità tecniche e buona volontà anche di altri partiti simpatizzanti: poiché esso era, appunto, più compito tecnico che di partito. Si trattava di trarre lo stato e il paese fuori delle secche in cui si era arenato, fuori delle correnti disordinate che toglievano ogni direzione al suo moto: insomma rimettere in piena efficienza tanto le leve di spinta quanto i freni. Sintomi di miglioramento, lo dicemmo, non mancavano, nell'Italia del 1921-22, in confronto a ciò che era stata l'Italia del 1919-20. Ma si doveva accelerare. Si doveva alla vis medicatrix naturae aggiungere volontà, consapevolezza, ambizione di alte mete. E qui si manifestarono le straordinarie capacità di capo e realizzatore di Mussolini. Salito di balzo al comando della cosa pubblica, egli mostrò subito di trovarvisi come al suo posto naturale. Non aveva pratica di governo e di amministrazione; non esperienza di congegni burocratici. Era ancora fresco di certo semplicismo ideologico (necessario viatico di ogni rivoluzionario) e di certo quasi stupore di fronte alla complessità della vita economica e sociale moderna, rivelataglisi poco meno che all'improvviso. Ma in cambio, genialissimo assimilatore e improvvisatore: perfetto italiano anche in questo, oltre che nel calore, nella passionalità, nell'equilibrio mentale, nel tipo fisico. Aveva, istintivo, il senso della direzione. Ove mancava conoscenza ed esperienza, sopperiva il lampo dell'intelligenza, il finissimo intuito, come di grande clinico o di grande storico, fors'anche come di poeta. E un uomo così fatto cominciò a operare e dirigere in un momento in cui sull'Italia passava una grande ventata di ottimismo, di fiducia, di buona volontà. Anche gli antifascisti quietarono o non contrariarono troppo: vuoi che temessero peggio, anche per le loro persone fisiche; vuoi che tutto preferissero al disordine precedente, al dualismo tra governo di fatto e governo di diritto, insomma alla disintegrazione del tessuto nazionale. Vi fu, specialmente nei giovani, una febbre di dedizione, di disciplina, di obbedienza, di rispetto alla legge che era fatto alquanto nuovo in Italia, paese di tradizionale indulgenza e anche simpatia per ogni gesto ribelle.

In tale atmosfera che riscaldava un po' gli animi dell'enorme maggioranza degl'Italiani, si poté riportare un sufficiente ordine all'interno e ridurre di molto la guerriglia quotidiana. Cessarono gli scioperi a ripetizione, quasi malattia, nel proletariato industriale, nelle campagne, nei pubblici servizi, nelle scuole. La massa degli impiegati, se pur fredda, non ridiede più lo spettacolo indecoroso che aveva dato gli anni innanzi. Il partito socialista perse quasi ogni capacità d'iniziativa. Quasi scomparvero le opposizioni municipali e provinciali, poiché in pochi mesi le amministrazioni locali o divennero fasciste o ebbero commissari regi o prefettizi, e all'apolitica Federazione dei comuni, alla più che politica Federazione dei comuni socialisti, sottentrava la fascista Federazione degli enti autarchici. Il dualismo tra fascisti e nazionalisti, che non aveva impedito certa collaborazione ma neppure dissidi e urti, specie nel Mezzogiorno, fu tolto mediante la fusione dei due partiti, nel marzo '23. Erano, come aspirazioni fondamentali, cosa affine; ma erano, anche, due comandi, due gerarchie, due abiti mentali. Tendenze al dogmatismo da una parte, spregiudicatezza dall'altra; problemi essenzialmente e, a volte, un po' astrattamente politici, da una parte, problemi politico-sociali dall'altra. E poi, camicia azzurra e camicia nera che non è cosa indifferente neppur essa, agli occhi degli uomini e dei giovani, per i quali anche i simboli sono sostanza, qualche volta la sola sostanza. Nazionalisti e fascisti potevano, perciò, fondersi, non coesistere. E si fusero. Gli avversari, che già avevano battezzato il fascismo, non senza una punta d'ironia e sarcasmo, “nazionalfascismo”, ora sempre più dissero che il nazionalismo, partito piccolo-borghese, estraneo alle grandi forze del capitalismo e del proletariato, vivente quasi parassitariamente al margine del processo produttivo, volto a una concezione paternalistica dello stato, aveva ingoiato il fascismo. E la loro avversione al fascismo crebbe anziché attenuarsi. Di vero, in quelle affermazioni, c'era solo questo: che il fascismo si era sempre più, dal marzo 1919 in poi, saturato di contenuto e rivestito di forme nazionali o nazionalistiche, anche per l'azione di uomini venuti ad esso dal nazionalismo, oltre che per uno spontaneo processo evolutivo, compiutosi durante la lunga lotta contro socialismo e internazionalismo. Nulla più di questo. Ché anzi, ben presto si manifestò nel fascismo certa tendenza ad andar oltre talune angustie del nazionalismo, ad atteggiarsi a riforma o rivoluzione di valore universale.

Entro il fascismo, furono disciolte le squadre armate e costituita la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, salda organizzazione autonoma, cioè sottratta a ogni oscillazione del partito, fiore, aristocrazia, anima guerriera del fascismo, presidio armato del nuovo regime, difesa degli “inevitabili e inesorabili sviluppi della rivoluzione di ottobre”. La milizia, militarmente allenata essa stessa, per poter restituire all'esercito in piena efficienza ufficiali e soldati, quando il bisogno della difesa esterna lo avesse richiesto, fu incaricata dell'istruzione preliminare dei giovani, costituì sezioni ferroviarie, portuali, postelegrafoniche, forestali, ebbe la sorveglianza di zone di frontiera, fornì reparti alle guarnigioni e alla guerra delle colonie. Furono poi frenate ambizioni di regoli provinciali del fascismo (i ras!), certa tentazione di strafare da parte dei zelantissimi se non sempre sincerissimi (con la conseguenza di allontanare anziché guadagnar simpatie), certa volontà di sopraffazione verso i poteri dello stato da parte degl'impazienti di marciare ancora o intolleranti di freni e di limiti. Frequenti richiami del Gran Consiglio alla direzione del partito, perché procedesse rapida e inesorabile in ogni caso d'indisciplina. Interventi di Mussolini, per tenere alta la libertà e il prestigio dei prefetti, come soli rappresentanti del governo e soli responsabili di fronte al governo; per contenere i segretari provinciali entro i loro compiti specifici di animatori e disciplinatori del partito; per ammonire che distinte e non confondibili erano le due gerarchie, del partito e dello stato. Cominciò anche l'allontanamento dal partito fascista di elementi eterogenei che potevano essere ed erano causa di confusione ideologica e di zizzania: come i massoni. Già nel '22, avevano mosso le prime pedine contro la massoneria e i fascisti-massoni Alberto De' Stefani e Giovanni Giuriati, che venivano dal liberalismo. Solo che Mussolini, pur avversissimo, da socialista, alla massoneria, aveva frenato quelle impazienze fasciste: non ancora venuto il momento, per mettere quest'altra pentola sul fuoco...! Ma ora, nel Gran Consiglio del 15 febbraio '23, aut aut: o essere fascisti o essere massoni; o di qua o di là, “poiché non v'è per i fascisti che una sola disciplina, la disciplina del fascismo; che una sola gerarchia, la gerarchia del fascismo; che una sola obbedienza, l'obbedienza assoluta, devota e quotidiana al capo ed ai capi del fascismo”.

Nel suo primo discorso alla Camera, Mussolini disse: Ci hanno chiesto dei programmi... Ma non sono i programmi che mancano in Italia, sibbene gli uomini e la volontà di applicare i programmi. “Tutti i problemi della vita italiana, tutti, dico, sono stati risolti sulla carta, ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà”. Esattissimo, per quel che riguardava il passato. Ma esatto, anche, l'avvento, ora, di questa volontà. Se ne videro rapidamente i segni in tutti i servizi dello stato: principalissimo quello delle comunicazioni, dove la scure del riformatore - prima il deputato Torre, poi il comandante Ciano - e il rinnovato senso di disciplina operarono miracoli, per toglier la pletora del personale, distruggere la vergognosa piaga dei furti ferroviari, rinnovare il materiale, accrescere gl'impianti, diminuire le spese di esercizio pur mentre aumentava il traffico, portare il bilancio dal deficit all'avanzo. Anche il bilancio dello stato fu rimesso a posto. Nel 1921-22, la differenza fra entrate e uscite aveva oltrepassato i 15 miliardi. Ora, il ministro De' Stefani operando con una mentalità economica liberale ma energica, riuscì in tre o quattro anni a vedere il pareggio, che subito si mutò in avanzo. Il contribuente italiano quasi piegò a terra sotto i nuovi pesi; ma resisté e pagò, sostenuto dalla semplificazione del sistema tributario divenuto in ultimo vera selva selvaggia, e, non meno, dal nuovo animo del cittadino-contribuente. Nel campo scolastico, Giovanni Gentile, maneggiando con fermissimo proposito e idee chiare una materia divenuta logora per il troppo mutare e discutere e progettare, condusse in porto una riforma di largo respiro, che richiese ai maestri una revisione di metodi e un rinfrescamento di cultura, costrinse i giovani a una più viva e personale partecipazione al lavoro della scuola, incoraggiò e rese possibili con l'esame di stato molte iniziative private e locali in fatto di scuole medie e di istituti universitari.

Si tracciarono le linee e s'iniziò l'attuazione di una politica economica e della produzione che doveva sanare il crescente squilibrio fra i più che 40 milioni di abitanti e le risorse di un territorio troppo angusto e con vastissime zone montagnose, collinose, paludose, cioè nulla o poco produttive: quindi, bonifiche, rimboschimenti, bacini montani per l'irrigazione e le forze idroelettriche, cattedre ambulanti di agricoltura, primi tentativi d'istruzione tecnica ai contadini, favore al capitale investito in imprese produttive, assiduo incoraggiamento alla cerealicoltura, impulso allo sfruttamento del sottosuolo, alle costruzioni navali e all'industria navale, alle esportazioni, ecc. E quel che si fece nel territorio nazionale, si fece nelle colonie, specialmente nella Tripolitania e nella Somalia, dove si dissodarono e seminarono terre, si scavarono pozzi, si canalizzò acqua, si estese l'arboricoltura, si migliorarono i metodi indigeni di coltivazione, si mise mano a costruire o sistemare porti e approdi, ecc., nel tempo stesso che si procedeva alla riconquista politico-militare delle colonie, alla loro pacificazione, al loro ampliamento, con l'acquisto dell'Oltre Giuba. Sono da ricordare, a tal proposito, i nomi di Luigi Federzoni ministro delle Colonie, del conte G. Volpi di Misurata, governatore della Tripolitania, di Luigi di Savoia duca degli Abruzzi, capo della Società agricola italo-somala, fattosi da marinaio agricoltore e colonizzatore.

Politica coloniale era, in parte, politica estera. E la politica estera fu il primissimo campo d'azione di Mussolini, Capo del governo e ministro degli Esteri, quello in cui egli si cimentò con più passione e impegno. Lo stesso ordine interno, così rapidamente restaurato, non era fine a sé ma mezzo per una politica estera. “Non può farsi politica estera con un paese in disordine”, disse commemorando Sonnino, il 24 novembre '22. E nella sua azione pratica, egli mirò quasi a ricollegarsi a Sonnino, agli elementi vitali della sua politica, che erano il senso e l'orgoglio della dignità nazionale, la valutazione pregiudiziale degl'interessi della nazione, il rispetto dei trattati. Rispetto dei trattati: Mussolini lo dichiarò fin dai primi giorni alla Camera, per rassicurare quanti, in Europa, si aspettavano chi sa quali colpi di testa dal fascismo giunto al potere. Ma i trattati, aggiunse anche, non sono eterni e immutabili; possono essere, se difficili a eseguire, riesaminati e riveduti. La pace, ancora non bene raggiunta; l'equilibrio europeo, più che mai dissestato dopo la guerra: ecco quali fini Mussolini ebbe davanti agli occhi. E, dopo di lui, Grandi che prese il suo posto al ministero degli Esteri. Perciò l'Italia abbinò subito, per bocca di Mussolini, la questione dei debiti e delle riparazioni; fece, per prima in Europa, una politica di avvicinamento alla Russia e spezzò l'isolamento nel quale essa si trovava; per prima, riconobbe il valore della nuova Turchia; per prima, cercò di ristabilire rapporti normali con gli stati e i popoli vinti del centro d'Europa e di procurare all'Austria, con proprio sacrificio, possibilità di vita. Nessun paese fece, dopo il 1922, tanti trattati di commercio, di arbitrato, di amicizia, quanti l'Italia, con stati europei ed extraeuropei. Ma fu vigilantissima ovunque erano interessi suoi da tutelare. E tornò a essere un fattore politico importante nell'Europa danubiana e nei Balcani, specialmente in Albania, donde gl'Italiani erano stati cacciati in malo modo; rese stabile la sua permanenza nel Dodecaneso; fece valere il suo diritto di avere voce nelle cose di Tangeri; vigilò attentissimamente sulla sorte dei 100.000 e più Italiani di Tunisia e in generale su tutta la sua emigrazione; allargò, ringiovanì, migliorò i quadri della rappresentanza diplomatica e consolare; pose in massima efficienza le forze di terra e di mare, ma rispondentemente ai fini pacifici che si proponeva, oltre che alle proprie possibilità finanziarie, e sempre dichiarandosi disposta a portare quelle forze a quel più basso limite a cui fossero disposti di portarle gli altri stati d'Europa. Così l'Italia, che non contava più nulla internazionalmente dal 1919 al '22, tornò a contare. L'Italia che si era abituata e ormai quasi rassegnata ad accodarsi agli altri e attendere dall'avara benevolenza altrui la sistemazione delle proprie cose, riebbe una politica indipendente, con fini propri, direttive proprie e metodi propri, fatti di schiettezza, di fermezza, di misura.

I frutti di questo lavoro furono visibilissimi già nei primi due o tre anni del nuovo governo. Ed era attuazione di propositi più volte manifestati e affermati dal 1919 al 1922 dal fascismo. E mai forse, nella storia dei governi e dei partiti italiani dopo il 1861, si era vista maggiore rispondenza tra propositi e realizzazioni, tra promesse e fatti. La differenza dagli anni precedenti era essenzialmente di quantità. Ma anche di qualità. Il lavoro compiuto rivelava, presupponeva, non solo nel modo come era compiuto (esercizio di pieni poteri da parte del governo, onnipresenza fattiva di Mussolini), ma anche in sé stesso, un animo, un orientamento mentale, un senso della vita nazionale e della vita in genere che sono cosa nuova nella storia moderna d'Italia e che, manifestatisi col fascismo, maturati attraverso il profondo travaglio e le vive esperienze in mezzo a cui e da cui nacque il fascismo, possiamo, senza altro, chiamare fascisti, più o meno intrinsecamente fascisti. Nuovo, e rispondente a una concezione più organica e unitaria della nazione e dello stato, è lo sforzo di semplificare, coordinare, unificare le varie branche dell'amministrazione pubblica solite quasi a ignorarsi l'una l'altra (fusione di ministeri; maggiori contatti amministrativi e tecnici fra Guerra, Marina, Aviazione; divisione di lavoro e intesa fra esercito e milizia, ecc.). Nuovo l'alto posto ridato, fra le attività della nazione, alla politica estera, come attività statale per eccellenza, vera misura di ciò che la nazione è come coscienza di sé e coordinazione di forze. Nuova la volontà di orientare pensieri, capitali, uomini, iniziative verso le colonie; indirizzare tutta la nazione, al seguito dello stato, nella politica coloniale, creare un'operosa “coscienza coloniale” (discorsi di Mussolini, propaganda giornalistica, riviste coloniali, istituzione della “giornata coloniale”, gite collettive di agricoltori e commercianti, ecc.). Nuova la stretta interdipendenza chiaramente vista e attuata tra politica interna e politica estera e la consapevolezza piena dei fini sociali, nazionali, internazionali di una politica di produzione, volta a raggiungere maggior equilibrio fra interessi e ceti rurali e interessi e ceti industriali e cittadini, maggiore livellamento e quindi connessione fra il Nord e il Sud, maggior indipendenza anche politica di fronte all'estero. Nuovo l'atteggiamento verso la religione e la Chiesa, che, cominciato a concretarsi nella riforma Gentile (il crocifisso riportato nelle scuole e l'insegnamento del catechismo impartito ai fanciulli). Sbocca poi nella Conciliazione e che ha significato e finalità religiose, morali, civili, politiche, con qualche coloritura o venatura giobertiana. Nuovo, nella riforma scolastica, quel mirare di proposito all'educazione della volontà e del carattere, quel reagire contro gli schemi mentali e il sapere fatto, quel rompere le scolastiche e tradizionali ripartizioni dello scibile, quel ravvicinare e mutuamente fecondare vita e coltura, che procurò alla riforma Gentile la definizione mussoliniana di riforma fascista per eccellenza, cioè tutta aderente a un movimento che non voleva essere un'ideologia, un sistema chiuso, un programma predisposto a guida dell'azione, ma essere un'azione, un'azione-pensiero che operando si chiarisce a sé stessa, una perenne creazione. Nuova la sollecitudine verso gl'Italiani dispersi per il mondo, gli aiuti morali e materiali dati ad essi per resistere all'altrui politica di snazionalizzazione, lo sforzo di tenere stretti i loro legami con la madrepatria, di dare o mantenere in loro la coscienza di una perfetta unità, pur nella dispersione. Nuova la politica d'incremento demografico, in un paese già popolatissimo come l'Italia: considerato, questo incremento, come indice e manifestazione di sanità morale e vitalità della stirpe, come strumento di forza nazionale. E, in rapporto a ciò, tutte le provvidenze per la salute fisica del popolo e specialmente per l'infanzia, come le colonie marine e montane, che presero ben presto un enorme sviluppo, l'Opera nazionale per la maternità e infanzia, ecc. Nuovo lo slancio con cui il governo fascista si orientò rapidamente verso l'educazione fisica della gioventù, considerata pur essa come educazione morale, il favore a ogni genere di sport, individuale o collettivo, anche in mezzo alle masse popolari, l'istituzione di campi di giuoco in ogni paese, l'unità spirituale e organizzativa impressa a tutte le forze e iniziative sportive del paese. Nuova certa istituzione fra ricreativa, istruttiva, sportiva, che cominciò a sorgere nel 1923, cioè il dopolavoro sindacale, volto specialmente agli operai ma anche alla classe impiegatizia e in genere ai ceti medi, col proposito di utilizzare le ore di libertà e i giorni festivi: quindi, biblioteche, sale di lettura, campi di giuoco, gite d'istruzione, corsi professionali, teatro ecc.

Maturavano, intanto, nuove e maggiori e più significative innovazioni. Il fascismo aveva messo altre radici nel paese. Il Sud e le isole, riluttanti da principio, si erano aperti ad esso: un po' colore fascista, malamente spalmato sul vecchio e non morto malcostume politico, un po' verace sentimento e aspirazione di più alta e sana vita politica. Gli altri partiti, o scomparsi o in grande decadenza, incerti, discordi, bizantineggianti, come il partito liberale nato da poco e presto avviato a morire, pur con molto sforzo, in questo tempo, di ravvivare il liberalismo come dottrina, contrapponendolo al fascismo, e di mettere in luce i personaggi storici in cui pareva che meglio si fosse incarnato, come Cavour, contrapposto a Mussolini. Sfasciata la Confederazione generale del lavoro, massimo organo sindacale italiano. Scomparsi ormai i centri di resistenza a base regionale e un po' regionalistica, come i partiti di azione sardo, molisano, lucano, permeati di tendenze demo-liberali e, un po', massoniche. Avvicinatisi al fascismo il gruppo delle medaglie d'oro, le associazioni degli ex-combattenti, dei mutilati e invalidi di guerra, degli arditi di guerra, dei volontari di guerra, dei legionari fiumani. Bene avviata l'organizzazione dei giovinetti e ragazzi dei due sessi, sotto le insegne del fascismo: Avanguardisti e Balilla, Giovani italiane e Piccole italiane. Costituiti i gruppi universitari fascisti. Progrediti di numero, di disciplina, di consapevolezza i fasci all'estero, capaci di dare una consistenza, un'anima, una forza d'impulso alle poco coerenti masse d'Italiani, specie dei grandi centri d'immigrazione. Infine, aumentato l'afflusso anche del ceto operaio cittadino, moltiplicatisi i sindacati dei professionisti aderenti al fascismo, cresciuto il movimento cooperativo fascista.

Molte semplici etichette, come già nel socialismo degli anni innanzi, in tutto questo fascismo, troppo rapidamente ingrossato anche di ruderi degli altri partiti, di opportunisti, di gente che trovava difficile vivere tranquillamente contro e, spesso, anche solo fuori del fascismo. E vi fu crisi di sovrabbondanza: cioè troppa gente in cui il parlare e sentire, parlare e operare non rispondevano; troppi improvvisati gerarchi che erano, come incapaci a bene obbedire, così anche a bene comandare; troppa abbondanza di profittatori. E poi, non edificanti rivalità e gare di primazia fra i maggiorenti, specie nelle provincie; perdurante dualismo, fra le varie gerarchie; impressione diffusa che si scalzasse, pur mentre si predicava, il principio di autorità, con tanta gente che si arrogava il comando. Neppure ora cessata la sporadica violenza, tanto meno tollerabile ora, in quanto ormai i nemici giacevano quasi a terra e il governo forte non era più un pio desiderio e la stessa violenza si esercitava in forme meno micidiali ma più lesive della dignità altrui. Le elezioni politiche della primavera 1924 videro come una ripresa di questa violenza, contro socialisti e popolari e avversari d'ogni colore, dando loro motivo di affermare fittizi e illegittimi i risultati delle elezioni stesse, cioè la grande vittoria fascista. Vi fu perciò, nel 1924, come una ondata di malessere e malcontento: entro lo stesso fascismo e, più, nelle zone contermini a esso e nella grande massa del popolo che era fuori di ogni partito. In misura ancora maggiore, vi fu una ripresa di coraggio e di attività da parte degli oppositori, che avevano nel Corriere della Sera di Milano e nella Stampa di Torino i loro maggiori organi. Essi puntavano le loro armi su tutta l'opera e, ormai, su tutto quel complesso d'idee e concezioni che, implicite nell'opera stessa o esplicite, cominciavano a formare il bagaglio dottrinario, pur sempre mobile e fluttuante, del fascismo. E invocavano il ritorno alla “normalità”, che per essi era tanto la fine di ogni violenza, quanto la fine di quel modo di governare che il fascismo aveva instaurato. Insomma chiedevano la piena reintegrazione del regime parlamentare, in cui essi vedevano la tradizione del risorgimento, la forma moderna del vivere politico, il legame che stringeva l'Italia alla grande famiglia dei popoli civili. Così, almeno, liberali e socialisti, diventati anche essi, dalla guerra in poi, tenerissimi del regime parlamentare. Non minore, sebbene diversamente motivata, era l'opposizione dei comunisti. Ma, tutto sommato, era come dire al fascismo: rinnega la tua opera di cinque anni, annulla te stesso...

Peggio nel maggio e giugno, quando si aprì la nuova Camera. Sedute agitatissime. Battaglie verbali e scontri personali, tra la minoranza assai aggressiva e la maggioranza. Proprio in quei giorni di passioni eccitate, accadde che uno dei più accaniti e acerbi oppositori, il deputato socialista Giacomo Matteotti, fu ucciso in modo misterioso, nelle vicinanze di Roma. Furono accusati del delitto - e l'accusa risultò fondata - uomini del fascismo. Ma si volle accusare, anche, tutto il fascismo, dal capo all'ultimo gregario. E tutto il fascismo fu messo in stato di accusa, svillaneggiato, diffamato. Il delitto Matteotti fu sfruttato fino all'osso, all'interno e all'estero, per togliere ogni credito e forza al fascismo. Intanto, un centinaio di deputati di varia opposizione disertarono, per protesta, il palazzo del Parlamento, sperando d'infirmare la legalità e quindi impedire il funzionamento della Camera. E questi si atteggiarono essi a vera e legittima rappresentanza della nazione: Aventino, contrapposto a Montecitorio. Innegabile il turbamento grande che investì tutto il paese, durante e dopo questi fatti: “Profonda oscillazione morale nella massa del popolo italiano”, riconobbe poi lo stesso Mussolini. Anche tra fascisti e simpatizzanti, incertezza, perplessità, esami di coscienza; qua e là, un principio di sbandamento, quasi per panico. Si smarrirono un poco anche certi alti comandi, sentendosi come isolati. Sempre alta la persona del capo, sebbene fra gli aventiniani si proclamasse di volerlo trascinare davanti all'Alta Corte di giustizia: ma non più, il partito. E vi fu come un confuso desiderio che Mussolini abbandonasse la non buona compagnia e rimanesse esso solo, esso e il popolo italiano, agli occhi del quale Mussolini veniva configurandosi come il signore alto e giusto del buon tempo antico. Certo, vi fu arresto nello sviluppo numerico e morale del fascismo; non più ressa alle sue porte e alle porte dei ministeri. Chi manteneva prudenziali contatti con i due campi o attendeva di essere proprio persuaso della maturità del fascismo o gli si era avvicinato di controvoglia, voltò subito le spalle. Così, molti universitari e intellettuali, parte non piccola della burocrazia, specie dei ministeri, molta massoneria. Vi fu arresto anche in talune attività del governo fascista. La politica estera se ne risentì...

Passò in tal modo tutto il 1924, pur mentre apparivano sintomi di ripresa. Concorsero a determinarla gli stessi eccessi della campagna diffamatoria, che tradiva evidentissimi fini di partito e di fazione e, nella furia di colpire, colpiva, insieme, il fascismo e l'Italia, ormai non più facilmente separabili. Si fece evidente, insieme con la scomposta intemperanza, anche la vanità e sterilità di quella coalizione avversaria, quanto mai eterogenea, tenuta insieme solo da coefficienti negativi, non più fiancheggiata e sostenuta da vere forze organizzate. Che cosa essa avrebbe potuto dare all'Italia, nel caso che le fosse riuscito di gettare a terra il fascismo? Un nuovo e peggior caos... Fino a che, il 3 gennaio 1925, un discorso di Mussolini, alla Camera, mostrò come egli riprendesse a pieno il timone della barca e fosse pronto a ingaggiare battaglia decisiva. Si rinfrancarono allora gl'incerti, si sgannarono gl'illusi, quietò il fascismo provinciale che accennava di voler prendere la mano al centro, cioè ricominciare la guerriglia. Il fascismo uscì dalla tempesta un po' assottigliato, ma fatto più omogeneo e rinvigorito di volontà e di propositi. La linea di demarcazione tra fascismo e non fascismo che, dopo la conquista del potere, si era di nuovo fatta incerta, fu di nuovo segnata nettamente. Il ministero fu tutto e solo di fascisti. I liberali o divennero fascisti o scomparvero dalla visibile circolazione, come i socialisti e i popolari. Molti irreducibili avversari esularono all'estero o furono costretti a esulare: e non fu tutto vantaggio, per il fascismo e il suo credito internazionale. Il fascismo ebbe una forte spinta a curare le proprie cause di debolezza, a coltivare ancora più le grandi masse, l'anonimo “paese”, specialmente il Mezzogiorno, verso cui si concentrò allora lo sforzo delle opere pubbliche. Gl'intellettuali del fascismo strinsero le file, tennero una adunata a Bologna, redassero e diffusero un manifesto, opera di Giovanni Gentile. E poiché ad esso fu contrapposto un altro manifesto, degl'intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce, e col manifesto, si svolse tutta una campagna di stampa, diretta a screditare quanta gente di cultura aveva aderito al fascismo e a dedurre quasi un'antitesi tra fascismo e cultura, se non proprio tra intelligenza e fascismo; così, presso la direzione del partito sorse l'idea e il proposito di un Istituto fascista di cultura, che fu effettivamente fondato ed ebbe solenne inaugurazione in Campidoglio il 19 dicembre 1925, alla presenza del capo del governo e con un discorso di Giovanni Gentile, presidente. Insomma, quasi due eserciti, capeggiati da due filosofi, Giovanni Gentile e Benedetto Croce, prima d'allora associati in una benefica opera di rinnovamento filosofico che aveva dato qualche elemento vitale anche al nascente fascismo. Si proponeva, questo istituto, come poi cercò di fare, di raccogliere tutti gl'Italiani di maggiore autorità nel campo del sapere, aderenti al fascismo; trarli fuori dalle loro speculazioni spesso astratte o, quanto meno, incuriose dei problemi pratici; volgere le loro energie intellettuali a illuminare e formare la coscienza della nuova Italia. Non si trattava solo di contrapporre intellettuali fascisti e antifascisti, ma anche di operare nell'ambito del fascismo, chiarire le idee, promuovere la feconda collaborazione degli uomini di pensiero e di azione, ricondurre i fascisti a un apprezzamento esatto della cultura, impedire che il legittimo culto dell'azione, la smania del realizzare, la stessa supervalutazione del sentimento, della passione, dell'intuizione, dell'irrazionale, si risolvessero in una apertura di credito all'ignoranza.

Insomma, il fascismo, un po' perché aveva assolto i compiti più urgenti e tecnici, cioè il riordinamento dei servizi pubblici, della finanza, della scuola, ecc.; un po' perché era ormai padrone del campo e non aveva più, accanto, elementi affini con i quali collaborare e, per conseguenza, transigere; un po' perché sentì la necessità di giustificare ancor più il suo assoluto potere di governo; il fascismo entrò in una nuova fase di attività, più propriamente e intrinsecamente originale e fascista. Era giunto il momento di elevare le soprastrutture dell'edificio, fissare nelle leggi il fatto esistente, dare stabilità e legalità costituzionale al nuovo ordine, spersonalizzarlo, cioè sottrarlo alla vicenda degl'individui, passare dal governo forte allo stato forte, almeno in quanto la forza può essere data dalle leggi. Qualcosa di simile a ciò che era stata la trasformazione del movimento fascista in partito. Al posto dello stato liberale, frammentario, slegato, individualista e insieme classista, senza direttive proprie, quasi indifferente alla qualità delle forze sociali in giuoco, insomma “agnostico”, per usar la parola di rito, quale l'esperienza italiana degli ultimi trenta o quaranta anni mostrava; lo stato nazionale, più coerente nei suoi vari organi, più fortemente gerarchico e più dominato dall'alto; più consapevole di sé e fornito di direttive autonome additate dalla tradizione storica o dalla coscienza del domani, viva nelle élites e solo in esse; più vigile sulle cose del mondo e meglio armato per la lotta esterna; più rapido nel risolvere e operare; attento a curare i cosiddetti problemi sociali, a soddisfare esigenze regionali o locali, ma come problemi ed esigenze della nazione; sollecito non solo a raccomandare la collaborazione delle classi, ma a creare la coscienza dell'unità delle forze nazionali e instaurare gli organi per cui e in cui quella collaborazione si rende possibile, quell'unità si realizza.

Già fin dal 1923, il Gran Consiglio aveva trattato di una riforma della costituzione. Ma allora, altro lavoro urgeva. Ora, nell'estate del '24, mentre ferveva la polemica suscitata dal delitto Matteotti, una Commissione di quindici, nominata da Mussolini, e poi di diciotto, nominata dal re, ambedue presiedute dal senatore Gentile, presero in esame alcuni particolari problemi: quello delle associazioni segrete, dell'ordinamento da dare ai sindacati nel campo del diritto pubblico, dei modi come le forze produttive del paese potessero trovare una diretta rappresentanza nell'organismo costituzionale dello stato. E le due commissioni discussero, fecero relazioni e proposte. Ma il partito, per mezzo del Gran Consiglio, e poi governo e parlamento, pur utilizzando quel lavoro delle commissioni, procedettero con molta indipendenza dai risultati suoi. Si ebbe così, fra il 1925 e 1926, una serie di leggi “fasciste”, anzi “fascistissime”, volte a elevare la posizione del Capo del governo, a rafforzare l'esecutivo, a dare più alti poteri e prestigio ai rappresentanti periferici del governo stesso. La legge del 24 dicembre definì, dando suggello legale alla pratica costituzionale degli ultimi tre anni, la figura del presidente del consiglio, come primo ministro, avente fra i ministri autorità di vero capo, capace di dar quindi al gabinetto maggior unità nella sua composizione e azione e di rappresentare questa unità davanti al re e al parlamento. Un po' era cosa nuova, un po' era quel “ritorno allo statuto”, che da un pezzo uomini della Destra avevano auspicato, cioè ritorno a un governo non parlamentare ma costituzionale, responsabile verso il re, non verso il parlamento.

Altra legge, di poco posteriore, disciplinando la materia dei decreti-legge, regolò anche la facoltà normale e propria del governo, in virtù di una delegazione di poteri data dal parlamento, di emanare norme giuridiche di carattere regolamentare per l'esecuzione delle leggi, per l'organizzazione e il funzionamento dell'amministrazione statale, per l'uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo. Anche qui, si trattava di cose nuove e anche di semplice rivendicazione di attributi che il parlamento aveva negli ultimi anni strappato al governo. Si affrontò anche la riforma dei codici, ormai invecchiati e non più rispondenti alle condizioni reali del diritto, con tante leggi che li avevano modificati. E il governo o istituì commissioni di studio o si fece autorizzare dal parlamento a portarvi innovazioni (nel codice civile) e a emanare nuovi codici (di commercio, marina mercantile, procedura civile, diritto e procedura penale). Si poteva, così, come poi fu fatto, armonizzare diritto privato e diritto pubblico, portare anche in quello, anche nelle altre materie di diritto pubblico non ancora toccate, quella maggiore subordinazione degl'interessi privati a quelli della collettività.

Alla periferia, una legge Federzoni, divenuto ministro degli Interni, procedendo conforme a direttive del Gran Consiglio e di Mussolini, che le aveva manifestate in energici richiami alla disciplina dei gregari, aumentava le attribuzioni dei prefetti, facendo di essi i supremi trasmettitori e interpreti delle direttive generali del governo per tutti i servizi spettanti allo stato e agli enti locali nella provincia, gli alti coordinatori dei diversi servizi provinciali. “Resti ben chiaro per tutti che l'autorità non può essere condotta a mezzadria... L'autorita è una e unitaria. Se così non sia, si ricade in piena disorganizzazione dello stato..., si rinnega cioè uno dei maggiori motivi di trionfo dell'azione fascista, che lotta appunto per dare consistenza, autorità, prestigio, forza allo stato, per fare uno e intangibile come è e deve essere lo stato fascista. Il partito e le sue gerarchie non sono, a rivoluzione compiuta, che strumento consapevole e uno della volontà dello stato, tanto al centro quanto alla periferia”. Così una circolare Mussolini ai prefetti.

Anche nei comuni, un'altra legge Federzoni sostituì, al vigente sistema dell'elettività e collegialità degli amministratori, un magistrato unico di nomina regia, il podestà quinquennale e confermabile. Il provvedimento, limitato prima ai piccoli comuni, in gran parte dissestati e poveri di uomini capaci, fu esteso poi a tutti i comuni, come già si era fatto per Roma, dove non più un sindaco e consiglieri elettivi, ma un governatore e consultori di nomina regia amministravano la cosa pubblica. Intenzione del legislatore era non tanto di mortificare quanto di potenziare al massimo questi organi periferici, chiamandoli a nuove funzioni e stimolandone le iniziative. Ma si voleva, anche, che sempre, dall'alto, vigilasse lo stato. Insomma temperamento di libertà-autorità, centralismo-autonomia, quale ritroviamo in ogni atto e istituto del governo fascista.

E leggi ancora sulla stampa periodica, per limitarne la libertà che si era veramente mutata in scandalosa licenza; sui fuorusciti, a cui fu tolta la cittadinanza, gli assegni, i titoli, e, in certi casi, anche i beni, sequestrati o confiscati; sulla pena di morte, che fu restaurata per i colpevoli di attentati alla vita dei sovrani, del principe ereditario e del capo del governo, oltre che per reato d'insurrezione armata, di eccitamento alla guerra civile, ecc., soggetti tutti al giudizio di un Tribunale speciale che segue il codice penale militare e pronuncia senza appello; infine, sulle società segrete. Le società segrete, alias massoneria, furono vietate e tutte le associazioni vennero sottomesse a controllo statale. Lo statuto albertino contemplava solo il diritto di riunione; ora, si regola anche il diritto di associazione. Si ebbe così la dispersione, se non proprio la morte, della setta, antico voto di frazioni liberali, di frazioni socialiste, di nazionalisti, oltre che di cattolici, in nome o della religione, o della aperta lotta di classe, o della moralità politica e della disciplina nelle gerarchie civili e militari, o della sovranità dello stato e dell'indipendenza piena di fronte a ogni attività e istituto cosmopolita. Il fascismo riassumeva in sé quasi tutti questi motivi di avversione e si capisce che colpisse senza riguardo, anche a rischio di dissidi e sorde guerre intestine entro lo stesso partito. Non mancarono, in quel tempo, neppure invasioni tumultuarie di logge massoniche, distruzioni di arredi e simboli, trascinati a ludibrio per le strade. La legge colpiva specialmente la burocrazia, assai impigliata nella rete massonica. E di fronte a essa, il governo si armò anche di una legge speciale che lo autorizzava a dispensare dal servizio tutti i dipendenti civili e militari dello stato che, per manifestazioni compiute in ufficio o fuori, non dessero garanzia piena di fedele adempimento del loro dovere e si ponessero in condizione d'incompatibilità con le direttive politiche del governo. La legge ebbe scarsa applicazione pratica. Ma rimase come monito. Essa voleva dire che non era più lecito ai funzionari di scioperare, di seguire o capeggiare partiti sovversivi, di organizzare, a spese dello stato, la ribellione allo stato, come si era largamente verificato negli ultimi anni, specialmente tra impiegati delle ferrovie e ferrovieri.

Si ebbe, infine, la sistemazione giuridica della vasta materia sindacale e corporativa e l'inserzione dei sindacati nello stato, con una funzione costituzionale: insomma: quasi la saldatura di due entità sino allora distinte e cozzanti. E fu l'opera più originale e, possiamo dire, più rivoluzionaria della rivoluzione fascista. Si parte dal concetto che la nazione italiana è un'unità morale politica economica che si realizza nello stato; che i cittadini sono necessariamente solidali nella nazione; che il lavoro non è un diritto ma un dovere e come tale viene tutelato dallo stato; che la produzione nazionale è unitaria e unitari i suoi obiettivi, cioè lo sviluppo della potenza nazionale, e collaboranti e solidali sono i produttori; che le questioni del lavoro e i rapporti fra i vari fattori della produzione non sono cosa privata, come non cose del tutto private l'azienda e la proprietà terriera; che l'organizzazione sindacale, frutto della moderna vita economica e sociale e necessario correttivo dell'isolamento in cui la rivoluzione francese pose l'individuo, non va abbandonata a sé stessa, in modo che lo stato ignori i sindacati e i sindacati lo stato, col pericolo che quelli distruggano questo; che le forze produttive nazionali, organizzate nei sindacati, se non si vuole che, operando fuori dello stato, siano contro lo stato, debbono essere dentro lo stato, parte viva dello stato, ponendo fine a un dualismo rovinoso, che d'altra parte non trova rispondenza nella realtà economica nazionale, tutta connessa e interdipendente all'interno, tutta investita al di fuori dall'urto delle concorrenti economie nazionali e costretta a opporre un fronte unico per resistere e vivere; che per conseguenza i sindacati debbono essere riconosciuti dallo stato, forniti di personalità e responsabilità giuridica, investiti di funzioni pubbliche nel campo del lavoro, ammessi nei grandi corpi consultivi e deliberativi dello stato, fino a costituire il fondamento della stessa rappresentanza politica nazionale. Individuo e stato, finora disgiunti o non bene e organicamente congiunti sono da collegare meglio e quasi compenetrare l'uno nell'altro, per il tramite del sindacato e dei corpi sindacali, organi di diritto pubblico, operanti nell'ambito e sotto il controllo dello stato, ma forniti dallo stato di determinati poteri e messi in grado di concorrere alla vita dello stato, d'improntare di sé l'assetto statale.

Tali idee, che subito dopo il 1922 cominciano ad avere un principio di attuazione nel sindacalismo fascista, trovano la prima solenne determinazione giuridica nella legge 3 aprile 1926 per la Disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, con la quale si dava riconoscimento giuridico ai sindacati di mestiere (distinti in sindacati di datori di lavoro, di prestatori d'opera, di professionisti) e relative federazioni e confederazioni, con diritto di rappresentanza obbligatoria di tutti gli appartenenti alla relativa categoria, iscritti o no; si conferiva facoltà ai sindacati riconosciuti di stipulare contratti collettivi, espressione dell'eguaglianza giuridica dei datori e prestatori di lavoro e della subordinazione di tutti i produttori agl'interessi della produzione; s'istituiva la Magistratura del lavoro per giudicare sull'adempienza o meno dei patti collettivi e anche, eventualmente, per stabilire nuove norme; si faceva divieto di serrata e di sciopero, cioè di autodifesa delle classi. Esclusi, da questa disciplina dei patti collettivi, i pubblici funzionari e gli addetti ai grandi servizi statali (ferrovie, poste, ecc.) che o non possono sindacarsi (magistrati, ufficiali, insegnanti) o possono solo costituire associazioni riconosciute ma senza personalità giuridica e che, in ogni modo, si trovano di fronte allo stato non in condizione di parità per poter contrattare, ma di subordinazione. Dunque, organizzazione integrale delle varie forze di lavoro. E tuttavia, non organizzazione coatta e unica per le varie categorie: cioè non sindacati imposti, non monopolio di vita associativa. Rigettando ogni concezione materialistica e meccanica o quantitativa e rimanendo fedele a taluni precedenti degli uomini che ne sono il centro vivo, il fascismo fa affidamento massimo, se non esclusivo, sul volontarismo e sulle minoranze. Tutti sono liberi di riunirsi nelle associazioni o sindacati che vorranno, per fini consentiti dalle leggi. Ma lo stato intende riconoscere e riconoscerà solo i sindacati che rispondano a determinate condizioni morali (attività rivolta anche a scopi d'istruzione, educazione, ecc.), giuridiche (che raccolgano almeno il 10% dei lavoratori o datori di lavoro della relativa categoria), politiche (accettazione dei principi dello stato nazionale): riconoscimento che è una garanzia per lo stato, un beneficio per il sindacato. Ai sindacati riconosciuti, e solo a essi, si affida la rappresentanza sindacale esclusiva delle varie categorie di lavoratori e datori di lavoro, iscritti e non iscritti: donde la possibilità e il diritto, nei sindacati stessi, di stipulare contratti collettivi.

La legge del 3 aprile '26 era appena fatta quando apparve, con la collaborazione anche personale di Mussolini oltre che di Giuseppe Bottai, giovane e alacre sottosegretario, poi ministro alle Corporazioni, la Carta del lavoro che, discussa e approvata al Gran Consiglio, fu pubblicata il 21 aprile 1927, ricorrenza del Natale di Roma e festa del lavoro. Enunciava essa i principi etici che stavano a base della concezione sindacale e statale del fascismo; fissava le attribuzioni e la natura dei nuovi enti e organi volti a disciplinare il lavoro e gl'interessi professionali; affermava libera l'organizzazione sindacale, pur riserbando ai sindacati riconosciuti speciali diritti e doveri; parlava del controllo collettivo e delle garanzie del lavoro; proclamava dovere il salario corrispondere alle normali esigenze di vita del lavoratore, alle possibilità della produzione e al rendimento del lavoro. Poi, collocamento della mano d'opera, previdenza, assistenza, istruzione, educazione dei lavoratori. Insomma, un insieme di postulati e principi e norme direttive a cui si doveva ispirare ogni attività produttiva della nazione, in sé stessa e nei rapporti con lo stato: con, a centro, l'idea fondamentale della subordinazione piena del diritto e interesse individuali a quelli nazionali, della parità delle classi, del carattere economico. Si voleva fra l'altro, facendo del lavoro una funzione e finalità etica dell'ordinamento nazionale, assegnare all'operaio un compito più alto e la coscienza di esso, toglierlo dalla miseria del lavoro fatto solo per il salario, dare alla sua vita un contenuto più alto. La Carta un po' desumeva le sue dichiarazioni, una trentina, da leggi fasciste preesistenti; ma un po' andava oltre e forniva ispirazione e materia a una ulteriore attività legislativa, per la quale il governo era autorizzato a emanare norme con valore di legge. E realmente, sulla base della Carta, che non era una legge e tuttavia fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, si crearono le Corporazioni, organi quasi statali di collegamento nazionale, ognuna delle quali, presieduta da un rappresentante dello stato, riuniva le associazioni e federazioni delle tre categorie di produttori - datori di lavoro, tecnici e impiegati, lavoratori - allo scopo di conciliare le controversie fra gli enti collegiali, emanare norme generali obbligatorie sulle condizioni del lavoro, regolare il tirocinio, istituire uffici di collocamento, coordinare le iniziative utili all'incremento della produzione, ecc.: compito, quest'ultimo, che non si volgeva più alla distribuzione ma alla creazione della ricchezza, da promuovere non con la socializzazione ma con un miglior coordinamento delle attività individuali. E si creò, insieme con le corporazioni, il Consiglio nazionale delle corporazioni, prima semplice organo consultivo del Ministero delle corporazioni, da poco creato; poi, con la legge del 20 marzo 1930, organo costituzionale dello stato, presieduto dal Capo del governo e composto di rappresentanti delle corporazioni e di membri di diritto, con funzioni consultive e normative insieme. Il contenuto della Carta del lavoro trovò poi modo di tradursi in altre disposizioni di legge, riapparve nei contratti collettivi, sempre più numerosi, in risoluzioni e sentenze della Magistratura del lavoro, ispirate a equità.

Si faceva strada in queste leggi o quasi leggi, implicita o esplicita, una concezione dell'azienda economica come cosa non più esclusiva dell'imprenditore. Imprenditore e lavoratore erano considerati come collaboratori. Rispettato il diritto di proprietà: ma al concetto di diritto si tendeva a sostituire quello di funzione, controllata perciò dalle associazioni, nell'interesse comune e sotto la direzione dello stato. Apprezzata sommamente e incoraggiata l'iniziativa privata, in cui si vedeva lo strumento più efficace dell'interesse nazionale: ma all'iniziativa privata nel campo economico, si tendeva a segnare una direttiva conforme a quell'interesse nazionale. Sindacati e corporazioni erano risultato di libera vita associativa. Ma essi venivano dallo stato assunti quasi a dignità di suoi organi delegati, per funzioni non ritenute più di mero diritto privato. E lo stato riserbava a sé, oltre che il diritto di riconoscere o no i sindacati; oltre il diritto di giudicare, con la Magistratura del lavoro, le controversie fra datori e prestatori di lavoro, ispirandosi a equità, in vista di un superiore interesse; anche il diritto di approvare gli statuti, dare il placet ai dirigenti designati dal sindacato, nominare i presidenti degli organi corporativi, rivedere e approvare i bilanci, ecc. Così, la vita sindacale italiana veniva messa sopra una strada assai diversa dall'antica, non solo del socialismo ma anche del sindacalismo rivoluzionario; sopra una via che era già un po' nella mente di qualche nazionalista-sindacalista, come Enrico Corradini, e di qualche democratico cristiano; sopra una via che ricorda quella che batté il popolo delle città medievali. E il pensiero del fascismo, in questi ultimi tempi, spesso è ritornato a quella vita corporativa del '200 e '300, quando l'attività economico-sociale e l'attività politica del cittadino-produttore s'imperniava sulle Arti, sull'appartenenza alle Arti; e le Arti erano mezzo di difesa e di conciliazione degli interessi di categoria, organo di controllo della produzione, tramite per la partecipazione alla vita pubblica. Nel Medioevo, anzi, accadde che lo stato finì col risolversi nel regime corporativo, cioè questo regime annullò lo stato, e le corporazioni, prima strumento di azione sociale e politica per il comune, poi organi dominanti, divennero infine coalizioni di interessi di categoria contro l'interesse generale, fino a che il signore non le ricondusse alla prima funzione. Qualcuno ha visto un pericolo non diverso anche nel sindacato e nella corporazione fascista: il pericolo cioè che lo stato sia sopraffatto dal corporativismo, rinneghi quei valori che il fascismo ha proclamato (patria, religione, proprietà privata, iniziativa individuale non sostituita ma solo integrata da quella dello stato, ecc.), smarrisca il senso degli alti fini morali e politici che il fascismo gli assegna, prenda direttive diverse da quelle del fascismo, operi secondo uno spirito non fascista. Ciò specialmente dopo che, riformata nel 1927 la legge elettorale e la rappresentanza politica, la Camera ripeté la sua origine e autorità non più dal corpo elettorale, indifferenziato, ma dalle organizzazioni sindacali. La riforma era necessaria conseguenza della scomparsa dei partiti, salvo uno, il fascista, e della formazione dei grandi organismi corporativi.

Si rispose che questi timori erano infondati. Il nuovo stato in costruzione sarà stato corporativo; cioè fondato, al centro e alla periferia, sulla rappresentanza fornita dalle corporazioni, ovvero dai cittadini organizzati in quanto produttori e raccolti territorialmente nei comizi elettorali; ma sarà anche e innanzi tutto stato fascista. Mussolini stesso disse che lo stato fascista è stato corporativo solo in quanto è fascista. Con che si voleva chiarire che, nel nuovo stato, il momento politico deve sovrastare al momento economico; che l'ordinamento corporativo è una più stretta coordinazione delle forze nazionali, è un mezzo di maggiore produzione e di maggiore concordia interna e maggiore potenza, e serve per mettere lo stato in condizione di attingere più sicuramente i suoi fini. Insomma, il fascismo non si esaurisce nel corporativismo e lo stato fascista è stato corporativo, più qualche altra cosa che si esprime nella parola “fascismo”. Anche la legge sul Gran consiglio, fine del 1927, lo afferma implicitamente. Questa legge era, per un verso, integrazione della legge sul Primo ministro, la quale sottraeva il capo del governo ai voleri della Camera ma diceva a chi spettasse designare il nuovo capo del governo, in caso di ritiro o morte del precedente. E ora si stabilì che questo fosse uno dei diritti e dei doveri del Gran Consiglio, sostituitosi, in tal modo, alla Camera. Ma l'altro diritto e dovere era selezionare i candidati proposti dalle organizzazioni sindacali, per formare la lista da presentare agli elettori. Come dire che i futuri legislatori, emananti dalle corporazioni, dovevano prima passare per il filtro di un corpo squisitameme politico e fascista, il Gran Consiglio. Ma bisogna riconoscere che qui ci moviamo in un terreno ancora molto incerto. Incompiuta è l'opera, procedente quasi sperimentalmente, sotto il Ministero delle corporazioni. Non ben chiare sono le idee, a malgrado, anzi forse a causa del molto discutere. Non concorde, non unanime tutto il fascismo nel considerare il problema corporativo, nel vedere i rapporti fra corporativismo e fascismo, nel disegnare le linee di questo stato a base corporativa. Chiaramente visibili sono due correnti principali: rappresentata l'una dagli uomini che provengono dal vecchio sindacalismo rivoluzionario o magari che, procedendo sul filo dalla logica, sboccano a un corporativismo integrale in cui tutto si risolve; l'altra, dagli uomini che vogliono rimaner fedeli allo spirito dell'originario fascismo, spirito essenzialmente politico, come Mussolini, o che son venuti al fascismo dal nazionalismo con intatto il loro sentimento e la loro dottrina dello stato, come Alfredo Rocco, ministro della Giustizia, giurista e legislatore del fascismo, acutissimo ingegno, anche se propenso a quell'ottimismo giuridico che porta a sopravvalutare la funzione e il valore delle leggi.

Se vogliamo ora tratteggiare con rapidissima sintesi questo decennio di avvenimenti italiani, troviamo che, dal 1919 ad oggi, si sono avuti in Italia, un po' coevi, un po' consecutivi, due sforzi rivoluzionari: uno, del vecchio socialismo; l'altro di quel movimento che si è chiamato fascismo. Affinità e contrasti, fra socialismo e fascismo. E si sarebbe potuto, in certi momenti, sboccare anche a una collaborazione e fusione. Ambedue volevano raccogliere l'eredità del vecchio regime e delle vecchie classi dirigenti. Ambedue erano movimenti di masse o facevano leva sulle masse. Ambedue traevano forza d'impulso specialmente da ceti nuovi o in formazione che volevano ascendere. E poi, antidemocrazia, antiliberalismo, ecc., in ambedue. Ma anche contrasti profondi. L'uno muoveva da una opposizione totale e irriducibile a quel complesso di fatti, pensieri sentimenti che si chiamavano “guerra”, la guerra italiana 1915-18, specialmente in quanto voluta e combattuta con spirito volontaristico; e trasse vigore - effimero vigore - dalla massa torbida dei risentimenti e rancori e bassa passione di rivalsa che la guerra lasciò dietro di sé. Astraeva da quei valori patriottici e morali, da quelle tradizioni che avevano presieduto nel sec. XIX alla formazione politica dell'Italia e che formavano, ora più che mai, il fondo vero, magari poco visibile in quel momento di cieche rivolte, della vita italiana. Procedeva con poca o nessuna rispondenza fra la sua dottrina, socialistica o comunistica, e la stessa realtà sociale italiana, meno che ogni altra preparata o disposta a socializzare; con poca o nessuna rispondenza fra il suo internazionalismo e lo spirito che allora presiedeva ai rapporti internazionali, lo spirito di sopraffazione che animava i governi dei paesi alleati nei confronti con l'Italia, l'atteggiamento degli stessi proletariati stranieri, sordi pur essi a ogni sentimento di solidarietà. Aveva un programma rivoluzionario, ma era povero di uomini di vero temperamento rivoluzionario e di audacia rivoluzionaria; povero, nelle stesse masse che il socialismo aveva educato e ora capeggiava, di quello spirito di sacrificio che si forma solo con un'educazione idealistica e con obiettivi che trascendano gl'immediati interessi. L'altro, invece, muoveva dall'accettazione della guerra, e, specialmente, dall'esaltazione di quella guerra, e si alimentò di quelle energie morali, di quel senso di disciplina, di quella capacità d'iniziativa, di quel coraggio e spirito combattivo che la guerra aveva educato nella gioventù italiana, nella borghesia italiana. Accettava o accettò ben presto i valori tradizionali della nazione italiana, cioè si nutri di sostanza italiana: condizione necessaria per poter far presa su di essa, per potere avere la collaborazione o anche solo la benevola neutralità delle forze migliori del paese. Aderì più realisticamente alla società italiana che era, per tre quarti, una società agricola e contadinesca, individualistica, non socializzatrice. Ebbe veramente spirito rivoluzionario e uomini e gregari disposti a tutto, animati da passioni profonde, da certezze ideali, da miti fascinatori. Cadde così il socialismo e fallì la sua tentata rivoluzione, vinto dalle stesse sue tare morali, dall'eterogeneità degli elementi costitutivi e dall'indeterminatezza dei fini, dall'indisciplina, dall'impossibilità di mantenere le promesse fatte e di dare più di quello che aveva dato, dallo svanire delle illusioni e infatuazioni, dal riconciliarsi dello stesso proletario-combattente col suo passato di guerra e farsene titolo di gloria; ma anche ferito dai colpi del fascismo, espressione di forze morali più alte, più nazionali, più storiche. E il fascismo, cresciuto di numero e di forze, divenuto quasi il movimento della gioventù italiana e con tutta l'aureola della gioventù, fattosi milizia disciplinata e armata, tratta a sé molta borghesia media e piccola e molto proletariato specialmente agricolo, che già seguiva il socialismo, accreditatosi come educatore e iniziatore di masse alla vita nazionale e al senso dello stato; avvicinatosi idealmente alla tradizione di Roma, al cattolicesimo, al papato, alla monarchia; prevalso sopra ogni altro partito politico anche per la sua attrezzatura che lo abilitava a operare in tutti i campi, e con tutte le armi, parlamento e piazza, giornale e squadre; raccolta attorno a sé gran parte della società italiana e aiutatala a riprendere quella forza vitale che essa non aveva potuto riprendere attorno allo stato, quasi assente e soverchiato dalla crisi di sfiducia generale e dalla forza dei partiti; sostituitosi al governo in taluni compiti essenziali; in ultimo ebbe investitura del governo legale. E di lassù, prima attese a normalizzare la vita italiana - ordine pubblico, servizi statali, finanze ecc. - chiedendo o accettando la collaborazione anche di uomini d'altro colore; poi, rimasto solo padrone del campo, quasi diventato l'Italia, innovò istituti e leggi fondamentali allo scopo di fare dello stato il centro e pernio di ogni attività nazionale (“tutto nello stato, nulla fuori o contro lo stato”), ordinò i cittadini-produttori nelle organizzazioni sindacali e di esse fece quasi suoi organi, ed elevò su questa base l'edificio della rappresentanza politica, saldando così istituzionalmente nazione e stato. Tutto questo Mussolini chiamò alla Camera, nel marzo '27: creare lo stato unitario italiano”. E voleva certo riferirsi all'avere il fascismo concorso a educare nella grande massa degl'Italiani il senso della nazione e dello stato nazionale, investito di funzioni pubbliche tutte le forze organizzate del paese, chiamato veramente il popolo a partecipare all'attività statale.

Intanto, si lavorava di buona lena a creare una più intensa agricoltura e, specialmente, una più redditizia cerealicoltura (la “battaglia del grano”), a conquistare o riconquistare, cioè a risanare coltivare popolare, secondo un concetto organico (la “bonifica integrale”), le molte terre malariche incolte spopolate che cingevano da secoli la penisola come una corona di spine, in Sardegna, in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Campania, nel Lazio, in Maremma, nel Basso Po, in Alto Adige: per la quale opera, Mussolini trovò validi coadiutori in Giacomo Acerbo, ministro dell'Agricoltura, e Arrigo Serpieri, sottosegretario per la Bonifica. Grandi estensioni di terra acquistava e bonificava, fra gli altri, l'Opera nazionale dei combattenti, realizzando gradualmente quella che era stata una delle grandi speranze dei combattenti stessi durante la guerra: il possesso della terra. Faceva parte, tutto ciò, di quella “ruralizzazione” dell'Italia che era tendenza viva e programma del fascismo, in vista di fini vari e complessi: maggiore indipendenza per il pane quotidiano e maggior libertà politica nei rapporti col di fuori; impulso alla soluzione della cosiddetta “questione meridionale”; maggior equilibrio tra classi e interessi cittadini e rurali, industriali e agricoli; reazione all'urbanesimo, lotta contro l'incipiente denatalità, cura della sanità fisica e morale della stirpe, rappresentata dalla famiglia contadinesca, ferma sopra la sua terra. Ricordiamo la “democrazia rurale” che balenò davanti agli occhi di Mussolini già nel 1921. Alla quale democrazia rurale faceva riscontro l'artigianato, al quale pure si rivolgevano, nel frattempo, sollecite cure del governo fascista, per ridargli forza, credito, abilità tecnica, possibilità di vivere e di restaurare le sue antiche fortune. Anche l'artigianato voleva dire integrazione e correttivo della grande industria, dal punto di vista sociale e morale.

Si coltivava intensivamente l'infanzia e la gioventù, entro e fuori i confini, con le molte istituzioni rivolte a tutelarne la salute fisica, a svilupparne lo spirito d'iniziativa, a educarne l'abitudine della disciplina, il senso della solidarietà sociale, l'amore della patria. Ricordiamo specialmente l'Opera nazionale Balilla, di grandissime proporzioni, e la Fondazione nazionale “Figli del Littorio” per i fanciulli e i giovanetti italiani dimoranti all'estero. Meritavano lode in questo lavoro, Renato Ricci, organizzatore dell'Opera Balilla, e Piero Parini, sovrintendente dei fasci all'estero e delle scuole italiane all'estero. Per opera loro, non piccolo impulso ebbero le colonie marine e montane, i campeggi estivi, le crociere navali, destinate anche a dare ai giovinetti un più vasto senso del mondo, specialmente mediterraneo, così pieno e vivo di memorie e tradizioni romane e italiane. Anche lo sport di ogni genere, individuale e collettivo, veniva incoraggiato con ogni mezzo e assai si diffondeva da per tutto, compreso le regioni e gli ambienti che fino allora lo avevano ignorato e quasi pareva ne fossero la negazione (Italia meridionale, campagne). Spirito e abitudini sportive penetravano anche nelle caserme e orientavano in modo nuovo l'istruzione militare: tendendosi a fare di ogni soldato un “ardito”, a educare in tutti i reparti e in tutte le unità quelle doti che, durante la guerra, erano privilegio di speciali formazioni d'assalto. Nessuna meraviglia, con tali inclinazioni spirituali, che molte simpatie del governo fascista si volgessero all'aviazione, quasi incarnasse tipicamente quello spirito dinamico che era lo spirito del fascismo. Dopo la guerra, l'aviazione italiana era caduta a terra. Mussolini la risollevò, le ridiede le ali. Creato il Ministero dell'aeronautica, prima lo tenne egli; poi, vi mise Italo Balbo, alpino e squadrista, che ora quasi s'improvvisò aviatore, e ascese rapidamente a un alto grado nella gerarchia militare, organizzò e guidò crociere aeronautiche nel Mediterraneo occidentale, nel Mar Nero, sull'Atlantico, dalle coste dell'Africa alle coste del Brasile. Uomo fra i più rappresentativi di questa fase di vita italiana, in quanto rinnovamento e ringiovanimento della classe dirigente, in quanto fervore di azione, spirito fiducioso e ottimista di fronte ai problemi, capacità realizzatrice.

Tener presente questo, per intendere come ora annose questioni venissero dipanate. E fra esse, quella dei rapporti fra lo stato italiano e la Santa Sede. I tempi, certo, erano lentamente maturati. Scomparso o attenuato assai il vecchio e vacuo anticlericalesimo. Negato ogni credito a certo presuntuoso scientificismo. Gli spiriti, con e dopo la guerra, fattisi meglio disposti verso il fatto religioso in genere, verso il cattolicesimo e il papato in specie, considerati nel loro valore storico e nazionale, nel loro intrinseco significato. Soppressa per legge la massoneria nel 1925 e dispersa la setta. Entrato nel fascismo, con l'assorbimento del partito nazionalista, qualcosa della vecchia concezione giobertiana intorno al papato e al cattolicesimo. Ma Mussolini accelerò questo maturarsi dei tempi, egli uomo nuovo, non appesantito da troppi giudizi e pregiudizi tradizionali; non spaventato dalla gran mole di certi problemi che, simili alle valanghe, pareva, col volgere dei tempi, crescessero, avvoltolandosi su sé stessi: diciamo pure, non appesantito, non spaventato da troppa storia. Così, l'11 febbraio 1929, si giungeva al trattato del Laterano: patto duplice, in quanto conciliazione, scioglimento della questione romana da una parte, e Concordato dall'altra; patto uno, in quanto conciliazione e concordato si condizionavano praticamente a vicenda. Col trattato del Laterano si compieva dal governo fascista un notevole sforzo per portare maggior somma di valori religiosi nella vita civile della nazione, per sanare quel che rimaneva del vecchio dissidio tutto italiano fra il cittadino e il credente, per togliere una causa non disprezzabile d'inferiorità internazionale dell'Italia. Un pensiero politico, certo, presiedé a questo patto, da parte del governo italiano: ma non volgare machiavellismo. È che, oltre quel nuovo atteggiamento spirituale di cui sopra, i nuovi italiani non annettevano più grande importanza a certi “principi” che erano stati quasi la vita delle due o tre generazioni precedenti. Non vedevano nessuna offesa della coscienza civile e dell'onore nazionale, in piccole transazioni territoriali (lo Stato Vaticano). La nazione, ora, non era più quasi solo nel territorio. Essa viveva, essenzialmente, negli spiriti. E l'Italia si sentiva abbastanza salda e grande per fare nella sua capitale, al capo della cristianità, un posto maggiore che non gli avesse fatto dopo il '70. La nazione ormai faceva in Roma energico atto di presenza. Vi lasciava segni di sé sempre più numerosi, impronta di sé sempre più visibile. La Roma del 1928 non era più la Roma del 1870. Grandi cure furono rivolte a Roma, dopo il 1922. Nuovi palazzi per i ministeri; sistemazioni stradali; liberati dalle pittoresche ma sudicie croste, cioè dai segni di una miseria secolare, tanti nobili monumenti antichi, il Campidoglio, il teatro di Marcello, i mercati di Traiano, ecc. Come tutti i grandi italiani del Risorgimento, Mussolini ha un alto sentimento di Roma, un'alta ambizione per Roma. Uno dei segni più evidenti del piccolo animo che i nuovi Italiani rimproveravano agl'Italiani che governarono l'Italia dopo il 1870 - eccettuato Crispi - era l'abbandono in cui avevano lasciato Roma, l'indifferenza di fronte a Roma e alle deturpazioni e devastazioni che vi si erano commesse.

Tanto rapido crescere e affermarsi del fascismo e suo identificarsi con la nazione; tanta ricchezza e varietà di opere su tutto il vasto campo della vita nazionale, tanta sollecita soluzione di annosissimi problemi sarebbero cosa inspiegabile, se si concepisse il fascismo come una forza impostasi violentemente dal di fuori al popolo italiano. Bisogna invece ammettere una profonda rispondenza fra movimento fascista e nazione; anzi concepire il fascismo come un modo di rinnovarsi della nazione italiana, sollecitata da energiche minoranze, espresse dal suo stesso seno e con una immediatezza e rispondenza assai maggiore di quanta poté essercene fra la minoranza che fece il Risorgimento e la grande massa del popolo italiano che, più o meno inconscia, seguì. In questa differenza è significato il progresso grande dell'Italia nei 60 anni dell'unità.

Di questa storia poco più che decennale del fascismo, una parte notevole è suscettibile, ormai, di giudizio sufficientemente sicuro. Si tratta di frutti già maturati; di opere di valore assoluto; di pensieri già incorporatisi nella nazione. Per un'altra parte - opere e pensieri - il giudizio è ancora prematuro. Siamo ancora nella fase costruttiva e sperimentale. Per esempio, che consistenza avrà l'edificio elevato sulla base dei sindacati di mestiere? Darà esso, veramente, la solidarietà fra le classi, la collaborazione fra capitale e lavoro, la coordinazione fra i vari fattori della produzione nell'interesse supremo della nazione, senza che la macchina corporativa si appesantisca troppo e si risolva in un regime di tutela burocratica, senza che la sua energia si esaurisca nello sforzo di funzionare e nel mantenimento dei suoi numerosi quadri? Darà alle masse operaie la sensazione di essere veramente parte viva dell'azienda economica nazionale e a ogni produttore di compiere una funzione pubblica, quasi un compito ad esso affidato dalla nazione? Sarebbe da dubitarne, se queste speranze poggiassero solo sopra un corpo di leggi, sopra la mera creazione di organi di collegamento. Ma bisogna riconoscere essere assai cresciuto quel senso dell'unità nazionale e della comunanza d'interessi, che è presupposto e condizione perché quegli organi funzionino, perché quelle leggi non siano pezzi di carta affidati alla forza coattiva dello stato. E che nulla si trascura per creare, con le parole e coi fatti, con l'insegnamento dottrinale e con la propaganda spicciola, quella “coscienza corporativa” che fa di una concezione o dottrina un normale modo di sentire e di vivere. Il fascismo, cioè ormai l'Italia, si sente vivamente impegnato in quest'opera. Dalla riuscita o no, esso misurerà sé stesso, la sua capacità di dire veramente una parola nuova nel mondo, meglio che non l'Occidente (americanismo) o l'Oriente (il bolscevismo), meglio che non la Francia del Maggis o del Kadmi-Cohen, meglio che non il germanesimo, rinascente nelle visioni e profezie di scrittori tedeschi come lo Spengler o il Korherr; di additare la strada per la soluzione del problema dell'autorità e libertà, dello stato e dei sindacati nei loro mutui rapporti; insomma, di iniziare quasi una civiltà nuova, se pur su antiche basi, cattolicesimo e romanità. Non manca, nel fascismo, l'ambizione e, oramai possiamo dire, persuasione di poter riuscire a tutto questo. Una persuasione che non è, forse, solo e tutto una giovanile presunzione. Nel nuovo concetto dell'Italiano, proprio del fascismo, c'è, abbozzato, un nuovo concetto dell'uomo, quale accompagnar suole ogni rinnovarsi di civiltà: cultura aderente alle opere e quasi risolventesi tutta in esse; istruzione eguale a educazione; scienza che non sia frammentario e astratto sapere, ma sforzo consapevole di chiarir tutto nella vita e per la vita; spirito dinamico e realizzatore; mens sana in corpore sano; pensiero e azione, concepita non come materialità ma come prodotto di una somma di energie morali e intellettuali; al solitario filosofo, chiuso al senso della vita, contrapposto il trasvolatore degli oceani o il giovane atleta teso ogni giorno nello sforzo di superare la prova del giorno innanzi; sentimento religioso che viva come spirito di sacrificio, come disciplina, come accettazione di leggi e necessità e doveri che ci trascendano; non il liberalismo e individualismo e cosmopolitismo del sec. XIX, ma la società nazionale, la patria fortemente sentita e affermata e non viva solamente nelle sacre memorie, ogni pensiero attività interesse coordinati e subordinati al bene di quelle superiori entità. Di fronte al sec. XIX, di fronte allo stesso Risorgimento italiano, il fascismo si è posto, a volte, nella posizione di critico, quanto meno di superatore. Per cui si è potuto, nella polemica attorno al 1924-1925, si è potuto, da liberali e democratici, condannare e, da fascisti, esaltare il fascismo come “antirisorgimento”, sebbene in esso siano molti motivi di Risorgimento, come il culto di taluni suoi uomini (Gioberti, Mazzini, Mameli, Garibaldi, qualcuno della stessa Destra storica); la passione nazionale e la subordinazione della libertà all'indipendenza all'unità alla grandezza; il convincimento di riprendere, dopo una parentesi di stanchezza e quasi ripiegamento dell'Italia su sé stessa, l'opera iniziata dal Risorgimento; lo sforzo di creare quella coincidenza fra interessi privati e pubblici, fra individuo e stato, di creare quell'unità di vita che era andata perduta; il pensiero o mito animatore di una nuova civiltà da rappresentare, di una missione da compiere nel mondo; lo sforzo di avere una propria filosofia, arte, cultura, di essere insomma sé stessi, dopo tanto soggiacere a estranei influssi.

Che, del resto, questa aspirazione e quasi persuasione, nell'Italia fascista, non sia mera presunzione è mostrato dall'atteggiamento dell'Europa e del mondo civile: attenzione crescente, interesse crescente per le cose italiane negli ultimi dieci anni. Vi è ormai in Europa e fuori, un'intera biblioteca sul fascismo, le sue vicende la sua dottrina, il suo corporativismo, i suoi uomini rappresentativi. Vi è, a Ginevra, un Centre International d'études sur le fascisme, con ricchissimo schedario bibliografico e una rivista. E si tratta non di mera curiosità, per gli aspetti pittoreschi che sono nel fascismo; o di astratto interesse per una cosa nuova e importante, sì, ma che, dopo tutto, poco riguarda gli altri. Non c'è forse concezione politica o partito o anche paese, che non si sia sentito un poco parte in causa e non abbia detto: de re mea agitur. Hanno reagito e reagiscono ostilmente liberalismo, socialismo, comunismo, gruppi e partiti parlamentari. La massoneria internazionale ha scatenato campagne di stampa, ha aiutato i fuorusciti del fascismo, forse non è stata estranea a certe offensive finanziarie. Il societarismo ginevrino e tutti i concreti interessi che a Ginevra fanno capo hanno visto nel fascismo un nemico o avversario. Insomma l'Europa ufficiale, le forze e i raggruppamenti oggi ancora dominanti in Europa hanno armato contro il fascismo: il fascismo che è “militarismo”, “reazione”, “schiavitù operaia”, “dittatura”. Cecità assoluta per quel che possa essere ideale etico o di cultura del fascismo; per il contenuto sociale della sua dottrina e azione; per il carattere meramente contingente e strumentale di quella “dittatura”. Di qui, nel fascismo, quanto meno in certe sue correnti, l'accentuarsi della opposizione all'Europa”, a questa avversa Europa in cui si vede ancora l'Europa del sec. XIX; il suo atteggiarsi ad “Antieuropa”, in vista di una Europa nuova, un po' improntata dal fascismo. Insomma lotta: la quale, certo, non ha reso facile la vita all'Italia fascista; ma, anche, ha concorso a temprarla, a rinsaldarne l'interna solidarietà, a tener deste le forze di autocontrollo, insomma a promuoverla.

Viceversa, anche riconoscimenti, venuti perfino da alte e non amiche tribune giornalistiche, di benefici apportati dal fascismo all'Italia: l'ordine restaurato; le finanze rassettate; la sicurezza data alla vita economica; l'impulso all'agricoltura, ai pubblici servizi, alla marina mercantile, ecc., la soluzione definitiva della questione romana, dovuta al senso politico di Mussolini e all'orientamento spirituale e religioso del fascismo; il rinnovamento culturale, ecc. E poi, di fronte a certi timori o impazienti attese che il fascismo crolli come un castello di carta, frequenti constatazioni che il fascismo è ormai solidissimo in Italia; che esso non è fenomeno transitorio, né pianta senza radici, cioè senza addentellati storici, senza nessi con l'Italia prefascista. Né tutto si è limitato a questi riconoscimenti e a queste constatazioni. Qua e là si sono visti affiorare veri e propri filofascismi; programmi di partiti e di gruppi, che ricordano il fascismo; certe formazioni politiche o politico-militari che prendono nome di fascismo. Così in piccoli o non grandi paesi come la Romania, la Lituania, il Belgio; così anche in Francia, in Germania, in Spagna, nella stessa Inghilterra. Difficile dire quanto tutto questo sia cosa spontanea e denotante solo un comune orientarsi degli spiriti verso comuni soluzioni di comuni problemi, e quanto sia derivazione dal fascismo italiano, più o meno ammessa dagli altri, dato il carattere nazionalistico di questi movimenti similari e la tendenza, in chi li rappresenta, di considerare come proprio ogni pensiero e dottrina. Ma c'è anche derivazione o figliazione, per quanto più in superficie che in profondità, più nella forma che nella sostanza. Quasi da per tutto questi fascismi stranieri, o come altrimenti si chiamano, sono mero nazionalismo conservatore, sono antirivoluzione. In essi c'è assai più l'elemento negativo del programma fascista, cioè quello che vi prevaleva nel 1919, che non l'elemento positivo. È chiaro che si vuol combattere parlamentarismo, democrazia, liberalismo e loro degenerazione, ecc.; ma non che cosa si vuol ricostruire sopra le loro rovine. Vi manca poi il pathos del fascismo italiano e il suo ricco colore, non facilmente scindibile dal contenuto: manca cioè quel che è riflesso della singolarissima personalità di Mussolini, fiamma accesa dalla sua ardente natura; oppure prodotto schietto del popolo italiano, del popolo stesso che ha dato, nel sec. XIX, il garibaldinismo. Da questo punto di vista, il fascismo veramente non è, secondo una frase più volte ripetuta, “merce di esportazione”, come riconoscono del resto quanti, Italiani o stranieri, vedono in esso questi intrinseci segni dell'Italia. Pur con queste limitazioni e restrizioni, è da affermare certa capacità di proselitismo del movimento fascista italiano, fuori dell'Italia; una larga accettazione individuale della sua dottrina e delle soluzioni che esso ha dato e dà ai problemi dello stato e delle masse; un frequente richiamarsi ad esso e additarlo a esempio e auspicarne una fortuna europea e universale. Ciò specialmente nei paesi che più hanno sofferto della guerra e più se ne trascinano dietro le dolorose conseguenze, nell'ordine morale e sociale e politico: vedano essi nel fascismo la forza ricostruttrice dello sconquassato edificio interno; vedano invece in esso l'elemento dinamico, capace di strappare l'Europa contemporanea dal suo attuale irrigidimento e quindi di chiamare a sé tutti i popoli che si trovano nelle stesse condizioni dell'Italia, i “popoli senza spazio”, e di creare una specie d'internazionale fascista. Così, più d'uno, in Germania. E si chiedono se il fascismo è disposto a presentarsi in veste europea e universale. Assai meno naturalmente, in paesi come la Francia e l'Inghilterra, più fermi sulle loro basi, più orgogliosi di loro tradizionali dottrine e tradizionali istituti, che sono stati, per uno o più secoli, espressione e, insieme, sorgente della loro grandezza e del loro credito internazionale. E pur tuttavia non sono mancate, in Francia, affermazioni come questa: che se, nel sec. XIX, quel paese era esso il laboratorio politico dell'Europa, ora questo laboratorio è piuttosto l'Italia. La rivoluzione era un po' dappertutto, negli ultimi tempi; ma essa si è veramente incarnata sul Tevere e di lì agisce sul mondo.