Friday 27 April 2012

Conferenze patriottiche del P. Reginaldo Giuliani


SECONDA EDIZIONE

EDITRICE
AMMINISTRAZIONE STELLA DI S. DOMENICO - TORINO 1939-XVII



Visto nulla osta alla stampa
P. COSTANZO BERETTA o.p. – P. CESLAO PERA o. p.

Imprimatur
M. R. P. ENRICO IBERTIS Prov.

Visto nulla osta
P. CESLAO PERA o. p. – Rev. DEL

Imprimatur
Torino 17 Ottobre 1936 - XIV
Can. GIO. DALPOZZO Prov. Gen.


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INDICE
Prefazione
La riconciliazione fra la Chiesa e lo Stato italiano
La missione provvidenziale del popolo italiano
Chiesa e Patria
Curriculum vitae di P. Giuliani


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PREFAZIONE

Il Padre Giuliani, purtroppo, non ha scritto molti dei suoi discorsi, specialmente nell’ultimo periodo della sua vita, quando era straordinariamente occupato. Dotato di una prodigiosa facilità di parola, egli poteva permettersi il lusso di improvvisare o quasi, anche su argomenti difficili e dinnanzi ad uditorii quanto mai esigenti. La maggior parte delle volte egli non scriveva che una piccola traccia, che diventava la trama, su cui tesseva agevolmente un lungo ed eloquente discorso.

Perciò, ora che l’abbiamo perduto, i pochi discorsi che ha scritti in disteso, diventano molto importanti, perchè sono gli unici documenti permanenti dell’arte oratoria di colui, che è stato uno dei più grandi e forse il più completo oratore sacro della nostra generazione.

E poichè una delle principali caratteristiche della sua anima e della sua attività è stato un patriottismo eccezionalmente fervido ed illuminato, che ebbe, a prova della sua sincerità, la consacrazione dell’eroismo e del sangue, è naturale che i suoi discorsi patriottici rivestano un particolarissimo interesse per gli Italiani, specialmente ora che il patriottismo più ardente ed entusiastico – primo patrimonio di pochi eletti – è divenuto, nel clima fascista, retaggio di tutto il nostro popolo. E, poichè l’eloquenza allora è veramente grande, quando è profondamente sentita («gettate una passione in un’anima – diceva il Padre Lacordaire – ed essa diventerà eloquente») non c’è a meravigliare che questi discorsi patriottici siano tra i più belli usciti dal cuore e dal labbro di questo magnifico oratore domenicano, la cui vita fu illuminata da questa duplice fiamma, sempre indissolubilmente intrecciata nel suo spirito magnanimo: l’amore della Religione e l’amore della Patria.

In queste conferenze (poichè trattano di argomenti affini) c’è qua e là qualche piccola ripetizione di idee e di frasi, che P. Giuliani avrebbe probabilmente eliminate in caso di pubblicazione. Ma all’editore parve più grave inconveniente il ritoccare gli scritti di un uomo come P. Giuliani, che il lasciare nelle diverse conferenze qualche lievissima ripetizione, tanto più che «repetita iuvant».

Due di questi tre discorsi, che pubblichiamo in questo volumetto, furono fatti ai giovani, che erano la sua speciale predilezione e che solevano ispirare alla sua facondia gli accenti più caldi e più appassionati.

La conferenza sulla «Missione provvidenziale del popolo italiano», per la sua forte genialità e per la sua alta passionalità, richiama alla mente e fa un felice riscontro colla celebre conferenza del P. Lacordaire sulla «Vocazione della nazione francese», colla quale il sommo nostro oratore vinse la sua battaglia sull’opinione pubblica francese, finallora ostile al ristabilimento in Francia degli Ordini religiosi.

Anche il discorso su la «Riconciliazione fra la Chiesa e lo Stato italiano» che, quando fu detto alla radio destò un’ondata di compiacenza e di entusiasmo in tutta Italia, rimarrà, nonostante la sua brevità, uno dei commenti più alti e più autorevoli fatti a quello, che forse rimarrà il più grande avvenimento del secolo XX; anche perchè sgorgò dal cuore di uno che aveva cooperato non poco a creare l’atmosfera favorevole al faustissimo evento.

Infine la conferenza «Chiesa e Patria», che è un tema di perenne e scabrosa attualità, pur essendo uno studio prevalentemente scientifico, è mirabile per la felice sintesi storica dell’argomento, che viene ad essere inquadrato e culminante nelle parole del Duce e nella realtà della situazione italiana. La quale situazione feconda di frutti per ambedue i poteri è fortunatamente di esempio e di monito eloquentissimo a tutti gli Stati del mondo, specialmente in questo agitato periodo, nel quale la maggior parte delle nazioni sono come l’inferma di Dante:
Che non può trovar posa in su le piume
Ma con dar volta suo dolore scherma.
                                           (Purg. VI, 150 - 1).
Essa perciò assurge ad un interesse che supera i confini d’Italia, ed è come una fiaccola di pace innalzata da un eroico sacerdote dinnanzi ai popoli del mondo, bramosi di pace, ma i più, incapaci a ritrovare questo tesoro.

Se questa trilogia patriottica del valoroso Cappellano degli Arditi, dei Legionarii e delle Camicie Nere, incontrerà, come ne siamo certi, l’apprezzamento di un buon numero di lettori, pubblicheremo presto anche le altre belle conferenze da lui fatte al Guf di Torino, e che dimostreranno come P. Giuliani fosse, non solo un brillante conferenziere, ma anche uno studioso serio e profondo, come si addice a un confratello e discepolo del grande Aquinate.

P. FILIPPO ROBOTTI, O. P.




LA RICONCILIAZIONE FRA LA CHIESA E LO STATO ITALIANO

Questo discorso fu pronunciato alla Stazione Radio di Torino ai primi di aprile del 1929.

Quando l’undici febbraio scorso si divulgò la notizia dell’accordo firmato in Roma, nel palazzo Lateranese, fra la Santa Sede e il Governo italiano, parve a me di rivivere l’ora più attesa eppure più sbalorditiva della passata guerra. La notizia invero della cessazione delle ostilità e del conseguimento della vittoria finale che mi arrestò sulla pianura friulana, in piena volata con i miei battaglioni d’assalto, parve incredibile in quei primi istanti, come incredibile appare l’avveramento repentino di un sogno per lunghi anni portato in cuore. Nati dopo il venti settembre del milleottocentosettanta, cresciuti fra le schermaglie polemiche dei paladini di due campi avversi, Chiesa e Stato, edotti del fallimento di parecchi tentativi di conciliazione, stavamo abulicamente soggetti al deprecabile statu quo, affatto compresi della imminente maturazione degli eventi, più volte profetata indarno.

Ma, ecco, come un colpo di folgore, la inaspettata novella è lanciata sull’Italia, sul mondo. Bandiere al vento! Le belle bandiere dei tre colori fasciano tutte le contrade d’Italia, danno l’assalto alle torri, ai campanili, ai vescovadi, ai templi, ed offrono al popolo la letiziante certezza che finalmente il nodo gordiano è sciolto, che la sfinge è vinta, che l’unione fra Chiesa e Stato, Religione e Patria è una raggiante realtà sul sereno cielo d’Italia. Il popolo dimenticò il carnevale, nè valsero a spegnere i suoi ardori le raffiche del gelo imperversante. Le capaci cattedrali furono invase, gremite dalle folle capeggiate da tutte le autorità, per cantare il solenne Te Deum.

Sia vivamente ringraziato Iddio che ha concesso alla nostra generazione l’ora inebriante di questa pace!

Concorde, universale fu il coro della stampa nazionale ed estera, non turbato dalle insignificanti, ben spiegabili stonature, che ci è dato di trascurare più coscientemente dal giorno in cui furono integralmente pubblicati i tre testi, e cioè il patto di conciliazione, la convenzione finanziaria e il concordato fra la Santa Sede e lo Stato Italiano. La luce serena delle grandi cose buone e belle ha rischiarato come un sole questo punto fisso della storia contemporanea e ne balenò inaspettatamente tale sincerità e onestà, quale non suole accompagnare i normali contratti della diplomazia.

Non è adunque per ricercare spiegazioni, per rintracciare recondite causalità e prevedere facili conseguenze che ritorniamo sull’argomento: ai giuristi, agli esperti il misurare la portata di tal fatto. Ma mentre ci dichiariamo umilmente impreparati a questo studio, ci sia concesso il compenso di un atto di legittimo orgoglio: e cioè di non voler essere secondi a nessuno degli italiani nell’accogliere nell’anima la gioia traboccante dal cuore del Sommo Pontefice. Chi non fu commosso dalle espressioni chiare e tenerissime, con cui l’undicesimo Pio ripeteva ad ogni occasione, l’altissima soddisfazione sua per la recente conciliazione? Io credo che anche i vecchi anticlericali adusati dal mal animo e dalla prava cieca abitudine a giudicare i gesti amorevoli del vecchio pontefice, come «ferri propri del suo mestiere», strumenti di subdola penetrazione, questa volta furono conquistati dall’abbraccio paterno.

Queste nostre brevi considerazioni vorrebbero rendere più durevole il profumo del bacio idilliaco di pace, per quegli uomini di buona volontà che portano incisi nel cuore due cari nomi: Chiesa e Patria, Cattolicismo e Italia.

Per meglio misurare il beneficio della conciliazione, non v’è che ricordare quali fossero i dolorosi rapporti fra Chiesa e Stato, fra cattolici e demoliberali imperanti, prima di questo ultimo settennio fascista. Gioverà ricordare tutto ciò non certo per turbare la serenità della presente pace con acide recriminazioni, ma per stabilire i giusti rilievi. Mentre invano il Cantù, il Balbo, il Tommaseo e pochi altri sognavano cattolico il nostro risorgimento, indarno battezzato dal sangue sacerdotale dei martiri di Belfiore, trionfava invece l’ideale pagano di un completo ritorno all’impero de’ Cesari, dimentico di tutti i secoli di Roma medioevale, e di Roma della rinascenza. I pontefici venivano proclamati «grette parodie de’ Cesari» e su di loro si rovesciavano tutte le folgori de’ moderni restauratori: «Maledetta tu, vecchia vaticana lupa cruenta». L’ira carducciana giunse a tali escandescenze da formulare ne’ seguenti versi la irreconciliabilità assoluta fra i due poteri:
Quando stringe la man Cesare a Piero
Da quella stretta sangue umano stilla:
Quando il bacio si dan Chiesa e Impero,
Un astro di martirio in del sfavilla.
Le trepide autorità, impegnate nell’equilibrismo politico, si accodavano ai corifei dell’anticlericalismo, e mentre tirannicamente tentavano imporre al Pontefice le condizioni della pace con le leggi delle guarentigie – immemori che al Pontefice spogliato de’ dominii terreni rimaneva una dignità sovrana universalmente riconosciuta – per altra parte favorivano, seguivano o permettevano la gazzarra anticlericale, antipapale che per cinquantanni mise in delirio le piazze d’Italia e rese famosi, per massonica e irreligiosa briacatura, i vespri del venti settembre fin nelle lontane colonie delle tre Americhe. Un prete spretato era sempre un eroe, che poteva anche finire su una cattedra universitaria. Un raglio dell’Asino (famoso periodico anticlericale), aizzava la canea de’ trivii per la penisola, contro inermi e benemeriti sacerdoti, come nei famosi scandali di Varazze; mentre il capo del governo, Amleto della politica, Pilato della viltà, cercava agnosticamente l’alibi della villeggiatura di Bardonecchia.

L’ubriacatura anticlericale trascese a tali eccessi che nauseo perfinò uno de’ primi suoi padri, il Carducci stesso, che, consapevole e pentito, non solo proclamò, nel canto dell’amore: «Noi troppo odiammo», ma soggiunse:
Io maledissi al Papa or son dieci anni,
Oggi col Papa mi concilierei!
Ma il vecchio Papa, «quel di se stesso antico prigionier» non ritrasse giammai il suo gesto di benedizione da quel popolo in cui, fra tanti bestemmiatori, gemevano figli devoti, oranti, pazienti e combattenti, che con Lui attesero a lungo l’ora della Provvidenza.

Ora della Provvidenza fu la guerra. Di questa si può ripetere la massima che forse a torto il greco filosofo affermò d’un altro soggetto. «La donna è un male, ma è un male necessario» disse egli. Noi potremmo volgere la massima così: «La guerra è un male, ma è un male necessario». Necessario pure, come sono necessari i salassi, a suscitare in un corpo malato, cadaverico, salutari reazioni. Quando «il popolo de’ morti surse cantando a chiedere la guerra» lanciava la parte di sé più viva, più dinamica contro due ostacoli, rivelatori di inusitati eppur fondamentali veri. Il combattente fu messo a contatto con due grandi cose: la natura e la morte. La prima gli insegnò a ripudiare le convenzioni, le menzogne per respirare l’azzurra atmosfera di sentita, passionale realtà; la seconda gli fece sentire la necessità del divino, di quella religione i sacerdoti della quale egli aveva imparato a disprezzare sui banchi della scuola atea. Perciò la massa grigio-verde che innervava le trincee dallo Stelvio al Mare venne presto pervasa da uno spirito nuovo, riallacciato alle millenarie tradizioni di fede, ribelle a tutto il barocchismo anticlericale. E come il nostro generalissimo Luigi Cadorna ebbe talvolta a reazionare con un imbelle governo precaporettistico, così le masse de’ combattenti, pur volte al secolare nemico le mitraglie e i cannoni, furono iniziate sul campo a quelle salutari reazioni di cui portarono poi il lievito possente in patria, al domani della vittoria.

Il mio antico reggimento, il 55° fanteria, fu onorato dal valore di due uomini: Guido Negri, l’uno, il capitano santo, il crociato del Papa e dell’Eucaristia, che diè poi eroicamente il suo sangue per l’Italia. L’altro non nòmino: egli rappresentava allora quell’ardire garibaldino, anticlericale, irreligioso, sventolato come una bandiera sul grande quotidiano dell’interventismo d’Italia. La stessa divisa copriva due uomini così diversi: ma fra le loro inconciliate divergenze s’ergeva, uguale in essi, l’amore della Patria. Una sera del settembre del mille novecentoquindici, tornando dalla trincea dopo un infernale combattimento, il vecchio soldato anticlericale reggeva per i sentieri del Monte Piana il passo vacillante del Capitano Negri: in una sosta solitaria di riposo, Si capitano abbracciò il vecchio volontario esclamando: «A te che non credi, Ottavio, il bacio in nome di Dio. Le nostre anime sono tuttavia sorelle, perchè crediamo assieme, buoni, in un infinito amore, in una radiosa giustizia».

Nel vespro del combattimento, mentre la montagna fumava ancora del sangue de’ nostri eroi, nel bacio, ardente di comprensione, del cattolico combattente d’Italia, in quel bacio, posato sulla fronte garibaldina, brilla, in germoglio e in essenza, tutta la conciliazione fra la Chiesa e lo Stato.

Il fascismo, integrazione perfetta della duplice vittoria italiana, contro il secolare nemico e poi contro il bolscevismo, si propose la ricostruzione della Patria. Questa formidabile potenza ricostruttrice, più che una idea o una teoria, ci appare come una forza, un dinamismo irresistibile: il fascismo, armato di un singolare senso di onestà umana – che non poteva certo ingenerarsi fra la vecchia politica camorrista – sbarazzò il campo dalla massoneria, dalla mafia, dal settarismo, covi tradizionali dell’anticlericalismo mondiale! Nel restaurare il concetto di autorità, nel risanare la famiglia, cellula prima dello Stato, nel ridare l’anima alla scuola, un infallibile senso pratico guidò il fascismo verso i cieli sereni della sociologia cristiana. E così, ribellandosi alle astruse sottigliezze del razionalismo, il fascismo si orientò verso la nostra fede millenaria. Le proteste del professore siciliano dalla logica tedesca furono acquetate dalle zampate leonine del Duce, che con un supremo tuziorismo dichiarò solennemente, nell’archiginnasio di Bologna, che lo spirito umano «sulla zona di mistero, sulla parete chiusa deve scrivere una sola parola: Dio».

Per la prima volta, nella storia delle umane evoluzioni, fu smentito l’aforisma di Tommaso Campanella, che «le parole precedono le spade». I vecchi professori che con l’Enciclopedia avevano suscitata la rivoluzione francese, che con la kultur tedesca avevano attizzato la guerra mondiale, e che conservavano il dissidio fra scienza e fede, fra Stato e Chiesa, erano sorpassati e vinti da questa bella, dinamica giovinezza italica che alle parole aveva fatto precedere le spade e affissava le sue pupille ardenti negli eterni veri, nelle idealità italiche di libertà e di religione.

Quando l’onorevole Mussolini, non ancor assurto al timone politico d’Italia, levò il suo sguardo sulle folle raccolte nella tazza del colonnato berniniano, nell’attesa di un grande evento, sentì la verità dell’affermazione di Dostoïewski: «Per duemila anni l’Italia ha coltivato nel suo grembo un’idea universale, capace di unire l’universo, non in un modo astratto, ma reale, organico, frutto della vita nazionale e insieme della vita universale. Era l’unificazione del mondo intero, prima sotto l’antica Roma, quindi sotto il papato». (Journal d’un écrivain).

Il Duce chiuse forse allora per un istante i suoi occhi capaci, ed ebbe una visione repentina, sintetica. Vide l’Italia tutta; la vide raccolta nel bacino del mediterraneo, nel centro della civiltà europea, come una nave nel mare nostro. La vela di Enea le aveva apportato le perfezioni classiche di pensiero e di arte dell’Eliade antica: la vela di Pietro l’eredità spirituale, cristiana del mondo universale. Beata la terra che accolse questa duplice eredità! Beata Roma; cuore d’Italia, cuore del mondo!

Il Duce sentì l’eterna città: il cielo, le pietre, le acque gli han cantato la sovranità spirituale de’ suoi pontefici. Sentì questa Italia benedetta, dove ogni zolla si cambia in fiore, dove ogni fiore è sacro all’idealità, dove vi è dell’anima anche nel fischio del monello, dove cantando si offre in olocausto a Dio e all’umanità l’anima epica di Carlo Delprete!

Riaprì gli occhi il Duce, e la sua visione divenne forza del braccio indomito per spingere la nave d’Italia verso ì suoi superni destini.

Riconoscenza e gloria a Lui, all’Uomo della Provvidenza.

Se passi fece l’Italia, in questo settennio fascista, verso la Chiesa, non rimase certo immobile il cuore dei Pontefici romani che si succedettero sulla cattedra del maggior Piero.

A noi piace ricordare che un atto decisivo per la soluzione della questione romana fu compiuto dall’altissimo senno politico di Benedetto decimoquinto, quando dichiarò che questa spettava ai due contendenti, alle due parti interessate, e non ad altri, e che Egli l’attendeva «dal buon senso del popolo italiano». Con tale dichiarazione si tenevano lontane tutte le possibili inframettenze di quegli stranieri, che furono sempre pronti a calare per mangiar le ciliege di ogni primavera italica, e per alleggerire a’ contadini le fatiche delle nostre vendemmie.

Maturavansi così i destini: ma «ci voleva un Papa alpinista» a sciogliere il nodo intricato. Un poeta d’Italia, sul limitare del presente secolo, dinnanzi alla sublimità raggiante di Leone decimoterzo, aveva cantato: «Ai trémuli ginocchi, date il guanciale dell’ultima preghiera». Ma non vacillarono i ginocchi dell’undicesimo Pio: il suo passo spedito eppur misurato, quale di perfetto alpino, ascensionale sempre, lo portò in alto, in alto, nelle regioni di una inarrivabile spiritualità. Avevano parlato di rivendicazioni territoriali: di sbocchi al mare – di città leonina – di villa Pamfili. Nulla di tutto ciò Egli volle: la sua rinuncia in questo senso fu completa. Volle esser libero da ogni preoccupazione materiale e strettamente politica. Gli bastò la rocca vaticana, che è una vetta, solo una vetta, ma più alta di ogni cima. Quale ascensione del Papa alpinista!

Egli è salito alla vertiginosa vetta di gloria de’ grandi pontefici: lassù dove la storia ha collocato Gregorio Magno, Leone Primo, Alessandro Terzo, Pio Quinto, Leone Tredicesimo, fari a tutta un’epoca.

Un’era nuova si apre oggi all’Italia. Un Orazio novello potrebbe oggi intonare un novello Carmen Saeculare.

Noi possiamo ripetere la frase moderna in cui Alfredo Oriani sintetizzò tutta la sua passione di «Rivolta ideale»: «Nessuno può dire che cosa prepari alla storia la magnifica vitalità cristiana».

Ecco: dalla rocca vaticana il pontefice ripete: «Abbiamo ridato l’Italia a Dio e Dio all’Italia!»; e con l’Italia è il mondo intero che riprenderà la via verso il cristianesimo. poichè non alle torri del Kremlino, non a Chicago fumosa, non alla Parigi delle mode, ma a Roma ha sempre guardato e guarderà con maggior attenzione il mondo spirituale. L’umanità si agita e Dio – e per Dio Roma, Roma – la conduce.

Tu régere imperio populos, romane memento!

Ricordati o romano, che tu sei la luce del mondo! Come l’anima umana è naturalmente cristiana: così il mondo politico è tendenzialmente cattolico. Dai giorni in cui le aquile romane presero a nidificare ai confini del mondo, e più ancora da quando Remigio e Bonifacio e Colombano portarono la fede tra i barbari delle Gallie, della Germania, dell’Inghilterra, e innumeri missionari partirono da questa Italia che, come dice Ambrogio – con latino orgoglio – operarios mittere solet, il mondo non cessò di guardare all’Italia, di apprendere da lei, di amare questa terra benedetta, poichè, come afferma Sienkiewicz: «Ogni uomo ha due patrie: una è quella in cui è nato, l’altra è Roma».

Un nuovo meriggio si alza sul cielo d’Italia. Una pace profonda si prepara nelle nostre città e ne’ borghi. Trono e altare, croce e spada sono oggi tornati all’amplesso spezzato da circa un secolo. Abbiamo oggi la consolazione insperata di sentir consertati i due grandi nostri ideali di religione e patria, e di vedere spenta – e speriamo per sempre – la lotta che frazionava l’Italia fin sotto gli ultimi campanili dell’Alpe in comico duello fra il curato e il segretario comunale.

Nel 1920, quando il sottoscritto venne difeso, in una polemica giornalistica, dal foglio di battaglia che serviva di trincea quotidiana all’on. Mussolini, fu affermato su quel foglio che un bivio poteva aprirsi inevitabile, dinnanzi ad ogni prete, ad ogni cattolico d’Italia: il bivio di Chiesa e Patria.

No, io scrissi allora; dinnanzi a me sacerdote, frate in tutto me stesso, da’ piedi a’ capelli – dinnanzi a me guida spirituale di fanti, di arditi, di legionari, no, d’innanzi a me non v’è, non si aprirà mai il bivio fatale.

No, ripetiamo ora più fortemente, no, amatissimo Duce d’Italia! Per la vostra opera, per il vostro genio, non più bivii, non più scissioni, ma una sola via regale, ampia, luminosa, ascendente, si apre a tutti, a tutti gli italiani. Gloria a voi, o Duce invitto! Grazie a S. M. il Re Vittorio Emanuele III e grazie al cuore dell’Undecimo Pio! Lode a Dio che ha posto l’Italia alla testa della civiltà.




LA MISSIONE PROVVIDENZIALE DEL POPOLO ITALIANO

Lezione tenuta nella Regia Università di Torino il 26 gennaio 1934, al Gruppo Universitario Fascista (GUF).

Agli studenti del Guf io rivolgo la mia parola: ai giovani dinamici che sognano la vita come un campo di battaglie ininterrotte, e che si lanciano verso il domani, non spinti bestialmente dall’ansia del pasto e dello strame, ma dall’ebbrezza delle conquiste che Dio serba al popolo italiano.

La gioia di collaborare alla grande fatica, che il Duce e il Fascismo si sono assunte, non rappresenta per voi il pur legittimo desiderio di mettere nella vita il ricordo incomparabile di sante imprese, di cui il miles gloriosus favellerà domani nella corona de’ cari nepotini; essa è necessità sorgente sgorgante dall’anima cresciuta, nutrita nell’ambiente affocato del primo esuberante decennio fascista. Mentre l’utilitarismo, la moda, comune fenomeno di mimetismo politico, han fatto accomodare una parte degli uomini maturi tra le file fasciste: voi siete venuti per natura, portati dalla vostra giovinezza, sfornati da quegli organi che il Fascismo, sapientemente predispone per rigenerare dalla sorgente, a nativitate tutta la vita italiana.

Nè vi tenti l’idea che dopo dieci anni di conquista più poco rimanga a farsi alle venienti generazioni; poichè il felicissimo e perfettissimo coincidere degli scopi fascisti con il bene della patria, comunica quel perpetuo divenire che è vita ininterrotta. I vecchi necrofori dei partiti che scindevano la sacra unità d’Italia, ormai sono scomparsi dalla scena, rincantucciati a meditare qual abissale differenza vi sia tra la piena vitalità della nuova forza e i consunti clichés dei biscazzieri della politica tramontata. Il decennio non è che la prima ondata, cui susseguiranno altre innumerevoli, che faran mareggiare ogni atomo della perenne giovinezza italiana. Ma affinchè queste ondate risultino degne dell’arduo compito e abbian la forza di travolgere perennemente l’Italia e il mondo puntando agli obbiettivi altissimi della nostra santa civiltà latina, devono armarsi di quella italica «luce intellettual piena d’amore» che è la tradizionale condizione del perfezionamento della nostra razza. «Le parole precedono le spade» ha affermato con logica stringente Tommaso Campanella: perchè le idee son le madri dei fatti e la scienza è la generatrice della vera grandezza.

L’università mantiene il focolaio di questo dinamismo intellettuale, e quand’essa non si limita a sfornare de’ dottori, a procurare un titolo (più o meno onorifico) di sussistenza, assurge a vertici più sublimi dell’antico Stoa e del Portico.

È di qua che il Fascismo aspetta l’irrompere della piena vitalità che si travaserà incontaminata nell’industria, nel commercio, nell’arte, nella piazza e sfodera sugli aperti campi, per quel concetto organico della vita nazionale che il Fascismo ha instaurato.

Ma io vorrei stassera, da questi brevi accenni all’aristocrazia del compito dei giovani universitari, passar a trattare di un’altra aristocrazia, di quella della patria nostra, della comune madre, l’Italia. Chi di voi non L’ha posta al vertice de’ suoi pensieri? Chi di voi non è pronto per Lei a un giuramento d’amore, sigillato con il proprio sangue? Sappiamo bene che, come diceva il vecchio Seneca al suo Lucilio «Nemo patriam quia magna est amat, sed quia sua» (ep. 66): ma la più modesta cultura storica deve mettere l’Italia al disopra di tutte le altre nazioni, per gli immensi valori etici e spirituali che Ella racchiude in sè. I tre volumetti di Vincenzo Gioberti sul Primato Morale e Civile degli Italiani basterebbero – anche senza le aggiunte facili a farsi in generale per la storia d’Italia e doverose per gli ultimi decenni – basterebbero a rendere persuaso anche il più arrabbiato italofobo, della trascendenza della nostra stirpe. L’amore che ardente nutriamo per colei che i massimi nostri poeti si compiacquero di appellare l’umile (Humilemque videmus Italiam, Eneide 3, 522, dice Virgilio – e Dante gli fa eco: Di quest’umile Italia fia salute, Inf. 1, 106); non potrà giammai venir confuso con una di quelle tante borie nazionali che sono di moda al di là delle Alpi, e che talvolta oscurano i cieli d’Europa.

L’anima del nostro popolo, quando si è ripiegata su se stessa a chiedersi ragione della propria preminenza, si è trovata come in un tempio (l’anima è il primo tempio di Dio, secondo l’apostolo cristiano: templum Dei estis vos) e vi ha visto la ieratica figura del Creatore in atto di avviluppare la terra d’Italia della sua luce e di un gesto di paterna predilezione, come è espresso nel bronzo battesimale della basilica di San Pietro in Roma. Iddio stesso l’ha eletta, nella sua trascendente Provvidenza, a guida della umanità; l’ha fatta pernio della civiltà; l’ha consacrata quale altare, fra tutte le terre ad offrire le vittime più pure e le primizie di doni terreni alla sua eterna maestà. L’anima religiosa del nostro popolo non ha fantasticato: tutta una documentazione irrefragabile affiora dalla storia e logicamente afferma la grande missione provvidenziale del Popolo italiano.

1. — Unità del Genere Umano e Gerarchia delle Nazioni.

La concezione rigorosamente gerarchica cui si ispira il Fascismo è nei suoi presupposti una delle prime e fondamentali verità conquistate dallo spirito. L’ordine, l’armonia, la regolarità che raggia nel cosmos non solo fa proclamare a Eraclito il perpetuo divenire dell’universo, a Pitagora essere i numeri l’essenza delle cose, a Socrate, a Platone e ad Aristotele l’esistenza di una intelligenza ordinatrice dell’universo, ma fa pur sentire, sin da un primo meriggio della umana coscienza, che l’umanità intera non è abbandonata sulla terra come un acervus lapidum, o come branchi di lupi destinati a sbranarsi vicendevolmente.

Le moderne teorie Darviniane, applicate dal Ribot, alla spiegazione della genesi dell’etica, sono ipotesi campate in aria, che hanno il torto di partire da un concetto preistorico, contrario ai dati storicamente e scientificamente accertati. No, l’umanità, neppure alle sue origini, non ci appare come un’accozzaglia di tribù in perpetuo duello. Troppo presto l’uomo, fasciato dall’armonia dell’universo, sotto un cielo che al Caldeo e all’Assiro appariva non meno ordinato che attraverso alle lenti di Galileo, su una terra fiorita nelle alterne primavere orientali intuì gli intimi legami che lo avvincevano alla famiglia, alla tribù, allo stato, alla umanità: e nel graduale accedere a queste concezioni della socievolezza, ingentilì i costumi, elevò, nobilitò la vita.

Nella gerarchia delle creature presentì l’ordine gerarchico della umanità (parte precipuissima del creato), e comprese che il Supremo Ordinatore di tutte le cose aveva pur voluto stabilire una determinata gerarchia nella intera umana specie.

Il Cristianesimo solo doveva far brillare della sua piena luce la unità morale del genere umano con i precetti del supremo Maestro che ordinava agli apostoli suoi: Docete omnes gentes, con le dichiarazioni di Paolo: Non vi è più giudeo, nè greco – che ispiravano gli accenti del poeta cristiano: «Fatti tutti a sembianza d’un solo, figli tutti d’un solo riscatto».

Se non che il concetto di gerarchia appreso dalla natura delle cose importa non solo mutue relazioni degli esseri fra di loro, ma dipendenze, preminenze e soggezioni. Quando Aristotile, nei libri della fisica (8-1) scrive che motus coeli est ut vita quaedam intende proprio affermare che non solo stella a stella differt in claritate, ma che l’organamento dei cieli è fatto di quelle influenze per cui l’astro maggiore trascina dietro di sé, nella propria orbita il minore, come in un vivente il centro propulsore regola le parti che rimangono perciò ad esso soggette nell’armonia del tutto.

Nella famiglia, cellula prima della sociale convivenza, la prelatura è naturalmente affidata, per unanime consenso umano, al pater-familias; nello stato, alla autorità. Le nazioni, sin dal loro sorgere, furono tentate non solo dal desiderio delle cose e della gloria, ma da un istinto persistente a perseguire l’ideale di prelazione sulle genti prossime o lontane. Con la spada e con l’ingegno, con l’arco e la catapulta, con l’ascia e col remo, per terra e per mare si arrabattarono i popoli nella conquista del primato, formando una lunga catena di guerre, di emigrazioni, di imperi transeunti che si perdon ne’ deserti di Asia, «nella terra del sol – d’onde uscìa l’umana schiatta a lunghi esilii». Con la scorta di un piccolo libro, che potrebbe anche essere il discorso sulla Storia universale di Jacopo Benigno Bossuet (a parte i difetti, egli rimane sempre un perfetto francese) noi possiamo assistere al grande spettacolo del succedersi degli antichi imperi, come dalla tolda di una nave ammiriamo le rive di un fluente panorama. Assiri, babilonesi, egizi, persi, greci passano fantasmagoricamente dinanzi ai nostri sguardi, formando «ce jeu sanglant où les peuples ont disputé de l’empire et de la puissance» (Bossuet), e dandoci materia a formarci una Weltanschaung (o contemplazione del mondo) non sfociante solo alla intuizione delle leggi eterne della natura, come per i discepoli del Düring, ma a meditare intorno a un Giustiziere trascendente, che sanziona in terra le terrestri virtù o i vizi delle nazioni, a meditare sulle preordinazioni della gerarchia, dalla divina infallibile sapienza stabilita fra i diversi popoli. La laicizzazione della storia, sogno infecondo di incancreniti materialisti, toglierebbe ai fatti universali la luce che li rileva nelle origini e nelle finalità: onde più che mai, in queste visioni universali sentiamo il bisogno di invocare il principio di Goerres: Gott in der Geschichte – Dio nella storia. Una filosofia della storia tessuta nella luce di Lui, quale Creatore universale e quale Redentore del genere umano, rintraccia fra la Babele degli imperi e le barbarie vestite a festa, il filo invisibile ma reale che lega i popoli nella successione delle diverse primogeniture transitorie e spesso caine, e scopre il primato assoluto che Dio affida alla prediletta fra le genti umane.

2. — L’Italia ha tra le nazioni il primato di civiltà e di missione.

Quando il giudeo Daniele fu introdotto alla corte di Babilonia a svelare al re il sogno (già da questi scordato) e a darne la chiara spiegazione, la luce di quel Dio che transfert regna atque constituit, rivelò orientalmente (nella statua dal capo d’oro, dal petto e dalle braccia d’argento, dal ventre e dalle cosce di bronzo, dalle gambe di ferro, dai piedi di terra cotta) il succedersi degli imperi caldeo, persiano, greco e romano. Quel capitolo del profeta Daniele è il primo abbozzo della filosofia della storia antica, che annuncia il travasamento dei tesori della civiltà asiatica nella razza latina, a quella Italia, in cui qualche secolo innanzi, il maggiore dei profeti israelitici Isaia, aveva già predetto che si sarebbe annunciata alle genti la gloria di Yawé (Isaia, 66, 19).

Quando il pescatore di Galilea, alle cui mani plebee, ma vigorose, il Cristo aveva affidato il timone della sua Chiesa, attreccò nel velabro latino più felicemente dell’antico Enea, si scontrò è vero nella opposizione armata, sistematica, tenace e tre volte secolare dell’autorità imperiale, ma vi trovò una mirabile disposizione, preordinata dalla Divina Provvidenza, nell’anima del popolo, a ricevere la successione spirituale del dominio del mondo, lo scettro delle coscienze e dei cuori.

La realtà e la coscienza del dominio politico del mondo, mantenuto, più che dalle legioni vittoriose, dal sapiente ordinamento delle leggi ispirate a sensi di umana equità, davano al latino l’ebbrezza del potere. Ma il senso del. divino, di cui era pervasa l’anima romana accarezzam i cuori con la fede in una superna selezione più dolcemente e meglio della realtà del dominio universale. Ne sono testimonianza le parole chiare di Plinio: «Terra, omnium terrarum alumna, eadem et parens, mimine Deorum electa, quae coelum ipsum clarius faceret, sparsa congregaret imperia, ritusque molliret, et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraheret: colloquia et humanitatem homini daret: breviterque, una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret» [1] (Nat. Hist. 3, 3). Il sagno di Virgilio, l’epico viaggio del padre Enea non avviene che sotto l’influsso de’ Numi. Il «Carmen Saeculare» di Orazio s’apre e si chiude con una preghiera. E se la Dea Roma è oscurata, dal giorno in cui Augusto (nell’anno dodicesimo della nuova êra cristiana) prendendo il titolo di sovrano pontefice e consacrando nel suo Palatino un tempio a Vesta, confonde il focolare domestico col fuoco della repubblica, e si proclama il Divus, divus imperator, quando il Rex Pacificus, il suppliziato del Calvario, lungi dal gettare in braccio a Roma una croce per farla serva, troverà fra i sette colli una montagna più radiosa del Tabor, gli occhi del popolo, non più perduti sulle foschie del paganesimo, vedranno la realtà di un primato spirituale, immortale consegnato dalla Provvidenza all’anima latina.

L’impero nei disegni divini ha resa organica l’umanità, ha fatto pervius l’orbis terrarum, affinchè la nuova vita portata dal Cristo potesse fluire dal centro eletto alla periferia.

Nell’assetto sociale dell’impero vi era un doppio elemento essenziale, il diritto romano, la giustizia, (con l’ordine che ne è il frutto, e l’assoluto divino che ne è la causa): un secondo elemento, transitorio, caduco come tutte le cose umane, formato dallo’istituzioni di superficie, amministrative, famigliari, culturali e cultuali. Con questo secondo elemento avvenne essenzialmente l’urto, tra di esso e la vita nuova apportata dalla Chiesa.

Un urto analogo scoppierà più tardi nel campo intellettuale fra il pensiero ellenico e la dottrina cristiana; che ne assorbirà l’elemento basilare perenne, e ne respingerà le parti accidentali che partoriranno in seguito le diverse eresie, tutte nate nella sofisticante atmosfera greca.

Il contrasto quindi fra Roma e il Cristo, benché aspro, incalzante, epico, non potè durare: caduti un dopo l’altro gli elementi impedienti nei tre secoli dei martiri e della penetrazione evangelica, l’anima di Roma si riconobbe cristiana, senza rinunciare ad altro che ad elementi che soffocavano la sua stessa vita e prematuramente le preparavano la fossa.

Stabilita questa ovvia distinzione fra gli elementi essenziali e gli elementi caduchi, si colpisce in pieno e si polverizza la tesi del Gibbon che tentò dimostrare il cristianesimo essere la causa prima della decadenza dell’impero romano.

Se Alfredo Oriani in Rivolta ideale (p. 277) può affermare «Forse la civiltà italiana ebbe mondialmente più efficacia che quella magnifica di Roma nella repubblica e nell’impero» gli è perchè la persuasione di una divina selezione rimane costante nella subcoscienza del nostro popolo nel volgere dei successivi millennii, della sua storia multiforme, e fiorisce in prove irrefragabili anche nelle più avverse condizioni. Come all’appressarsi de’ barbari Agostino moriva dicendo: «Quanto Cristo dona, non è tolto dal goto», l’anima italiana non rinunciò mai alla signorìa spirituale e morale del mondo. Essa rafferma potentemente nel gesto de’ suoi pontefici che respingono i barbari, che li costringono a penitenza sotto gli spalti di Canossa – nella voce orgogliosa di Ambrogio, che esalta l’incivilimento d’Europa pensando ai missionari italiani «Italia, quae operarios mittere solet» – nell’invocazione alla fratellanza universale che trema nel canto di Francesco d’Assisi – nel pianto di Caterina da Siena, che, con materno, energico gesto intima al pontefice: «A Roma, o padre» – nel sogno incompreso di audaci universali riforme religiose di Fra Gerolamo Savonarola – ne’ martiri di Belfiore che cambiano in altare la forca austriaca immolante l’intemerata vita del Sacerdote – nelle canzoni ieratiche di tutto il nostro risorgimento. Impedita dall’anticlericalismo in voga (questa credenza in una speciale protezione divina) di affermarsi sul Dio del cielo e della terra, sul Dio dei padri e della patria, prenderà il nome di fede nello stellone d’Italia – come la fede degenera talvolta nella superstizione – ma rimarrà sempre qualche suono nelle gole italiane a rispondere un perpetuo presente ad un appello che cade perennemente dai cieli e investe tutto un popolo per porlo sul piedestallo della gloria.

[1] «La, terra alunna di tutte le terre, ma nello stesso tempo loro madre, fu, per volontà degli Dei, destinata ad avere un cielo più sereno, ad unire le sparse nazioni, ad addolcirne i costumi e unificare per mezzo del suo idioma le discordi e rudi lingue di tanti popoli: fu eletta (l’Italia) a dare all’uomo favella e costumi più raffinati: in una parola diventasse la patria di tutte le genti del mondo».

3. — Le ragioni che giustificano il primato di civiltà e di missione.

Non può credersi il nostro popolo ingannato da una comune utopia di egemonia boriosa, quando attorno a lui e dentro di lui noi riscontriamo tutte le condizioni necessarie ad influenzare sovranamente la civiltà degli altri popoli.

«La Penisola per la sua postura è il centro morale del mondo civile» à scritto il Gioberti. Io ne lascio la dimostrazione ai geografi, agli storiografi della geografia o meglio rimando gli uditori a leggere il magnìfico capitoletto del «Primato». Basta gettare uno sguardo sulla carta geografica d’Europa per comprendere che questa lingua di terra coronata dall’Alpi, lambita da tre mari, è un posto di comando che ha aperte tutte le vie del mondo, che è un trono preparato per un popolo sovrano. Quando «l’italiano Bnonaparte si opponeva a voler fare del Mediterraneo un lago gallico e di Roma una succursale di Parigi», il buon Gioberti diceva: «Veggano i francesi se torni a buon prò dei potenti il pigliarsi a gabbo le disposizioni della Provvidenza, l’autorità dei secoli e persino le semplici convenienze della geografia».

Questa ragione di topotesia ha certamente influito a rendere l’Italia il paese più cosmopolita del mondo. A parte il cosmopolitismo de’ tempi andati, quando l’impero era il centro reale del mondo civile dalla Iberica al Caucaso, quando tutti gli Dei terreni ricevevan l’ospitalità e l’incenso del Panteon, quando i lanzichenecchi (e i loro avi, nonché i nipoti), venivano ad alleggerire a’ nostri contadini le fatiche della vendemmia, pensando alle attrattive che oggi il nostro paese offre, comprendiamo il numero senza numero di visitatori che per l’Alpe e pel Mare scendono oggi nella Penisola. Il paese «dai frutti d’oro» e «dalle rose vermiglie» (Goethe) non ha perso il suo incanto: che anzi scopre ognora nuove bellezze e offre insù per abili attrattive anche al più moderno degli sportman. Le ruine suggestive di Roma, più fascinanti di quelle di Atene, il principato indiscusso dell’arte italiana, e soprattutto la sede del Supremo Pontificato muovono ogni anno centinaia di migliaia di giovani e di vecchi Aroldi, pellegrini di estetica, di scienza e di religione dall’Alpi al mare. Motivi di lucro (non disprezzabili in tempo di crisi) di orgoglio rendono accetti questi ospiti cosmopoliti: ma altissime ragioni di influenze etiche, intellettuali, politiche e civili ci rendon coscienti che oggi ancora l’umanità dei continenti vecchi e nuovi subisce il fascino di Roma e si muove nell’orbita della nostra influenza, idealmente polarizzata sul punto fisso della nostra perenne civiltà.

Le qualità spirituali dell’anima italiana possono venir caratterizzate in un luminoso trinomio: Intuizionecomprensionedinamismo.

Intuizione, innanzi tutto. La mente italiana è tanto lungi dal sofisticare orientale, come dalle tardanze e dalla logomachie nordiche. Le nostre pupille che riflettono la tersura del cielo, rivelano una più accesa sete di vero, un tradizionale figgersi sul punto centrale di grandi problemi che son l’orgoglio della mente. Il genio, produzione rara nelle moltitudini di milioni di microbi umani delle altre razze, è in Italia così frequente che pare sgorgare a getto continuo, come la permanente primavera delle nostre riviere e il sorriso intramontabile di luce sui nostri cieli. La storia delle lettere, delle scienze, delle arti può tutta venire intessuta dal contributo sovrabbondante che vi ha versato il genio italiano. Non facciamo i nomi de’ sommi che possono venir balbettati pur dagli antipodi: ma insistiamo nell’attribuire a tutta la gente italiana una singolare vigoria di intelletto, da cui sgorga perenne come da sorgente piena, la fioritura di uomini genialmente universali.

Intendo per comprensione la facoltà particolare che contraddistingue il popolo italiano di intendere gli altri uomini e di rendersi cordialmente loro accetto. L’antico diritto di Roma, resosi universale più che dalla imposizione, dalla luce di umanità che lo ispirava: il Cristianesimo con la legge incomparabile della carità che a tutte le creature porge gli amorosi sensi della fratellanza universale: e poi la lunga pratica del potere, e nell’impero romano e successivamente nella giurisdizione ecclesiastica hanno reso abili gli italiani, più che ai maneggi di una politica, internazionaie, a una intesa amichevole, a una fraternità insperata nella Babele mondiale. Quando Dostoiewski ammirava la forza universale di Roma, che nell’Impero e nel Papato aveva per duemila anni unificata l’umanità, poteva egli ignorare la profondità del solco lasciata nell’anima del popolo nostro da questa portentosa abilità ad unificare, a comprendere, a pacificare? Poteva egli, con gli altri sognatori russi, gettare sulla terra l’impalcatura anticristiana, antistorica e antiitaliana delle utopie socialiste? Le diverse internazionali, germinate nel settarismo putrido giudaico-massoneggiante sono sfociate naturalmente nel fallimento. Ma Roma, che fu madre ai popoli diversi «fecisti patriam diversis gentibus unam», non fu mai sospetta di tirannia e nel Cattolicesimo non conobbe altra ribellione che quella capeggiata da un monaco scostumato e da un re divorzista, ambedue doppiamente traditori dell’autorità spirituale e del popolo loro soggetto. Nè le moderne politiche basate sui compensi, riguardose delle suscettibilità, zelanti degli equilibri, e in verità mascheranti inconfessabili egoismi di razza, di casta sociale e politica, han niente a che fare con la chiara e onesta ispirazione di umanità che ha mosso sempre, ieri e oggi, l’italiano verso lo straniero.

Il travaglio della liberazione nazionale ci ha fatto cantare con le gole aperte dei nostri cannoni (poichè altre voci erano divenute superflue) il «Va fuori d’Italia, va fuori o stranier»: ma, conclusa la pace, sborsate le pattuite riparazioni, l’Italia, per la politica sagace e pel cuorebdel suo Duce – sintetizzante tutti i cuori del suo popolo – è pronta alla sincera, fraterna amicizia. Tale è il cuoree del nostro popolo, tale lo spirito della nostra razza. Ricorderò sempre con viva commozione il trattamento benignoche i nostri fanti usavano con i vinti e i prigionieri: coloro che erano stati sino a qualche minuto avanti avversari detestati, venivano satollati con il sacrificio personale deL pane e del prezioso rancio della trincea. Talvolta bisognava frenare questi slanci altruisti: ma sempre si ammirava la generosità di questo cuore italiano, le cui passioni ardenti posson venir sempre dominate dalla comprensione e dal più delicato sentimento d’umanità.

È ancora per questo senso di universalità che il settarismo di ogni specie, religioso, politico, sociale, non ha mai potuto allignare tenacemente: e quando le sue radici son state messe al sole un applauso universale benedì alla mano geniale e forte che le sbarbicava – e speriamo per sempre – dalla nostra terra.

La terza caratteristica dello spirito italiano è il suo dinamismo, la sua forza versatile, la sua capacità a risolvere praticamente e sollecitamente tutti i problemi della vita. La massa del popolo, durante la guerra, era irreggimentata, nella fanteria – nella santa fanteria – direbbe il nostro Locchi: e di questa massa la virtù caratteristica fn definita con quelle parole poco italiane, ma molto espressive che suonano: il fante si arrangia sempre. O con un colpo di genialità pratica, o con una tranquilla logicità, lenta ma infallibile, il fante arrivava ai suoi scopi: talvolta umili, come quello di scroccar un secondo rancio, talvolta sublimi, eroici, come quello di poter far parte di una arrischiata pattuglia. E tutto ciò era universale, (di un’universalità di persona, di tempo, di luogo), presso questa massa omogenea, uniforme del nostro popolo; che perciò noi proclamiamo senza ambagi, pronto a tutto, abile a tutto, dinamico per eccellenza.

Con adattabilità sorprendente il popolo nostro accettò le ineluttabili condizioni che talvolta furono imposte dalla storia: ma il suo misticismo non degenerò mai in fatalismo. Ribelle a fondo, indomabile quando i più cari interessi furon messi in gioco, trovò modo di esplicare il suo libero ingegno latino anche sotto il giogo straniero. Sovente alla servitù della patria preferì l’esilio, alla povertà l’emigrazione, mettendosi per la scia di Colombo, (il vittorioso degli uomini e degli elementi), memore che, come affermava Seneca, «Ubicumque vicit, romanus habitat»; (Consol. ad matrem, 1) colonizzatore perenne e fortunoso per quella sovrabbondanza di vita che l’Italia effonde sulla terra. Fortemente vuole, come passionalmente ama. Sensibile, pronto, impulsivo, dal gesto di un fanciullo ne fa scattare una rivoluzione. Eroico sino alla morte e al di là delia morte, al termine d’una guerra che costò il sacrificio di cinquecentomila vite, scatta fresco e possente per le piazze e per le contrade d’Italia a reclamare col prezzo incomparabile d’un’altra legione di morti il diritto d’amare la Patria e la Vittoria, tradite dalla farisaica viltà di governanti imbelli e di ignobilissimi partitanti.

Questo è il popolo italiano, e tali sono le armi spirituali che Iddio gli ha fornito, affinchè alcun mezzo atto non gli venisse meno nella difficile impresa di capeggiare l’umanità, di unificare le menti e i cuori verso gli scopi supremi dell’umano consorzio.

Certo, lo stesso Dio è creatore e redentore, autore della natura e della grazia, dell’ordine naturale e soprannaturale. Quindi due sono le manifestazioni di questa missione provvidenziale: una nel campo della grazia, l’altra nel campo naturale della vita delle nazioni.

E poichè religione e civiltà sono da parte nostra intimamente connesse, noi le vediamo sfociare, sotto la rivelazione della logica e della due volte millenaria esperienza, nella inebriante esaltazione storica, etica e religiosa della gente cui abbiamo la benedetta sorte di appartenere per il sangue e per l’anima.

Comprendiamo come i trattati di storia, di etica, di psicologia, da quasi secolari preconcetti – di perfetta ispirazione straniera – siano stati costretti a tacere financo il nome di quel Dio che è l’ordinatore sommo del primato italiano. Ma, negata la causa, ne vien di conseguenza che l’effetto pure venga soppresso, se non nella realtà obiettiva, nella coscienza e fors’anche nella conoscenza di chi invece dovrebbe venire investito appieno da questa luce. Noi ricordiamo alla gioventù italiana l’antico detto: «Sublato numine, tollitur civitas» vero sempre, negli antichi e ne’ moderni tempi, per tutte le nazioni ma in modo particolare per quella che ha ricevuto i baci più ardenti, le carezze più dolci, i donativi più preziosi della Divinità. La patria è in marcia verso il trionfo quando è presidiata dalla fede di uomini quali quel Tiberio Gracco, che, saccheggiato da numantini che gli permettono di scegliersi qualche cosa delle spoglie, sceglie per sé, solamente l’incenso destinato agli Dei – e fatalmente segna la sua morte quando il senato ascolta fremente la pubblica professione di ateismo.

La patria vive tutta – con le memorie e con le speranze – benché in piena angustia di battaglia, quando il carroccio leva al cielo le braccia della croce – e si narcotizza alle scettiche affermazioni di Macchiavelli che irride ai Cinquecento che proclamano Gesù Cristo «Rex Florentinae Reipubblicae» e fa eco all’insulto d’Erasmo: «Itali omnes atei», con le osservazioni sulle Deche: «Noi italiani siamo per eccellenza irreligiosi e perversi».

Agonizza la patria, quando il dotto vaneggia col trastullo del materialismo storico e nell’esagerazione dei fattori economici e nella negazione dei valori etici e religiosi, – e quando il popolo è infuriato come la bestia col cencio rosso del bandelero: risorge la patria quando la Conciliazione riapre la porta ampia del tempio, affinchè tutto il popolo possa ritornare a riaccendere le sue speranze, nutrite da memorie millenarie nella fede integrale del suo Dio.

Non oblìi la gioventù italiana che tre precisi ed essenziali elementi combinano il tessuto della storia: la concatenazione dei fatti, la libertà umana e la Provvidenza di quel Dio, che non ha mai rinunciato al volante dell’universo, che ha mantenuta contro ogni anarchismo la gerarchia degli esseri, che ha conferito all’Italia il primato invidiabile sulle nazioni. Potenziate, con una seria, scrupolosa e religiosa preparazione, l’anima del fascismo agli obbiettivi trascendenti della universalità di Roma. Attendete dal genio, dall’uomo della Provvidenza, i gesti profetici che dissipano le titubanze del domani.

I campi internazionali di ludi intellettuali e morali – alla pari e sopra i ludi ginnastici – vi sono aperti oggi, mentre l’Europa e il mondo ammirano il Duce e il Fascismo è trascinato dall’orbita di questo novissimo astro trascendente dal cielo latino.

Fissate sempre le pupille in quell’alta missione provvidenziale del nostro popolo, che è la luce della storia, la speranza dell’avvenire, per tutta l’umanità.
... Se tu segui tua stella
non puoi fallire a glorioso porto.
                                 (Dante, Inf. 15)



CHIESA E PATRIA

Discorso fatto nella Regia Università di Torino il 21 marzo 1934.

Il tema che ci siamo imposti stassera è arduo quanto mai: dobbiamo parlare delle relazioni mutue che intercedono fra le maggiori istituzioni: la Chiesa e la Patria.

E poichè l’Italia e il mondo sono ancora avvolti nel fascino illuminatore della parola sbalorditiva del Duce, che nella scorsa domenica, alla seconda assemblea quinquennale del Regime ha fermato in una potentissima sintesi le supreme ragioni della politica interna ed estera del fascismo, ed ha creato una visione introspettiva e panoramica quale mai nessuna nazione, da nessun più alto vertice di genio politico si ebbe, noi abbiamo la strada chiaramente aperta dalle sue stesse solenni affermazioni. Il Duce ha detto: «L’unità religiosa è una delle grandi forze di un popolo. Comprometterla, o anche soltanto incrinarla è commettere un delitto di lesa nazione». Le quali parole vengono a mettere ancora una volta in piena luce la decisa volontà del fascismo di mantenere tutto quel patrimonio di pacificazione, che esso ha creato per l’anima credente, cattolica del nostro popolo, con i Trattati Lateranesi e con tutto quel complesso di disposizioni e di leggi che favoriscono il tradizionale e genuino cattolicesimo nel regime della nuova Italia.

Concludendo la sua luminosa esposizione con quegli incitamenti energetici che forgiano la sicura dimani del popolo nostro, il Duce proclama: «Perchè il lavoro dia il rendimento massimo, è necessaria l’assoluta intransigenza ideale, la fedeltà assoluta ai principii, la distinzione sempre più netta tra sacro e profano e la vigilanza assidua contro tutto quanto possa anche lontanamente nuocere al prestigio morale del Regime». E in questo solenne monito che richiama «la distinzione sempre più netta tra sacro e profano», noi vediamo condensato un doppio valore, dottrinale e morale, gravido di chiare conseguenze e logicamente dedotte nel campo, ideologico, e praticamente orientanti tutto il complesso delle relazioni che devono intercedere fra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica. Non si poteva meglio nè più fecondamente esprimere, in sintesi più stretta, più luminosa, tutta una tesi di altissimo diritto internazionale fra i due supremi poteri, alla cui tutela Iddio affidò i destini temporali ed eterni della stessa umana specie. La dottrina tradizionale, bimillenaria del cattolicismo trova la più perfetta, geniale espressione in questa modernisssima formula, del genio mussoliniano, che si eleva trionfalmente al disopra dì tutto il confusionismo secolare di teorici unilaterali, e sulla boria degli autocrati tiranni spezzati ai piedi dello spalto di Canossa e sulle roccie di S. Elena.

Religione e Stato attraverso i tempi.

La Chiesa e la Patria, la Religione e lo Stato, sono due forme di vita sociale nelle loro essenziali costituzioni antiche quanto l’umanità. Due forme di vita, due classi di atti, due leggi e due autorità si sono sempre imposte allo stesso soggetto, all’uomo sociale, irresistibilmente dominato dall’ansia del presente e del futuro. I gruppi di umani che vennero gradatamente costituendosi nelle distinte nazioni, videro man mano ergersi, distinguersi e spesso battagliare le due forze centrali cui facevan capo le tendenze politiche e religiose.

L’etnologia e la storia fanno sovente affiorare sin dalla remota antichità distinzioni e contrasti che mettono in rilievo i due nuclei centrali.

Il popolo che meglio è conosciuto, in grazia della sua trascendente letteratura, dalla più remota antichità è il popolo ebraico. Le finalità essenzialmente e teleogicamente religiose della sua costituzione e della sua permanenza per i millenni della sua storia hanno dato a lui un carattere assolutamente religioso, un’autorità quasi completamente teocratica. I patriarchi son scelti e costituiti da Dio, come il liberatore e legislatore Mosè, come i re posteriori. È il sacerdozio legale della tribù di Levi ed estralegale del profetismo il pernio di tutta la vita israelitica: il grande Jave impera, regge e comanda: se cede alla pressione del popolo che reclama un re terreno, nulla toglie al prestigio trascendente del sacerdozio, che continuerà ad essere il principio ispiratore e l’autorità primaria. E anche quando gli uomini della Torà, della Legge, saranno decaduti dalla pubblica stima, più in basso, più abietta sarà, la autorità degli imbelli ultimi Erodi, meno temuti dalla stessa Roma, di quanto potesse esserlo il Sinedrio.

Mentre (v. Archeologia biblica - Kortleitner) in Israele il potere religioso assorbiva, il politico, in Roma, repubblicana o imperiale, succedeva il fenomeno contrario: l’autorità politica aveva schiavo il sacerdozio. Se Polibio, nel secondo secolo prima di Cristo, attribuiva la superiorità politica e religiosa dei romani sugli Elleni del suo tempo alla religiosità di quelli, sulla incredulità di questi, egli era perchè comprendeva, la influenza che il culto ha sulla vita pubblica, direttamente soggetta alla sovranità statale.

Questo concetto, confuso, non approfondito presso un popolo languente, in aberrazioni religiose decadenti ogni dì più in un volgare sincretismo pericolosissimo e per la moralità pubblica e per la concezione unitaria dello stato, condusse Augusto, restauratore della vita romana, ad entrare coraggiosamente sul terreno delle riforme religiose, che ebbero per iscopo, tutte, un accentramento di poteri nello scettro del Cesare.

Infatti, sin dall’anno 29 a. Cristo, egli s’era fatto dare il diritto di nominare tutti i collegi sacerdotali – fece poi instaurare i culti ancestrali, primo fra i quali il culto arcaico e patrizio della Dea Dia. Tito Livio l’appella «fondatore e ristoratore di tutti i templi».

Nel monumento di Ancira egli stesso enumera i templi costruiti o ristorati a sue spese. Per lui il mondo ufficiale romano viveva in una atmosfera impregnata di devozione verso gli antichi Iddii. Così nell’anno dodicesimo di Cristo poteva consacrare nel suo Palatino un tempio a Vesta, confondendo il focolare domestico del principe col fuoco della repubblica e prendere definitivamente il titolo di Sovrano Pontefice. Dalla statolatria (dalla Dea Roma) fu così reso facile il passaggio per servilità di uomini bassi e l’orgoglio illimitato del grande, alla divinizzazione dell’imperatore: Divus imperator. La lex regia, magna carta della monarchia assoluta, dà all’imperatore il triplice despotismo dell’amministrazione, dell’esercito e della religione: despotismo che concorse a formare quei nostri sanguinari, nemici non solo degli innocenti seguaci del libero Cristo di Galilea, ma ancora del genere umano.

Data la pace alla Chiesa con l’editto costantiniano del 313, parve per più che mille anni che l’impero terreno dovesse venire assoggettato al celeste, non ostante i tentativi di parecchi imperatori di estendere il laro dominio invadendo il potere religioso, inframettendosi nelle questioni puramente teologiche e proponendo con violenza i proprii candidati alle cariche ecclesiastiche.

Queste lotte che turbaron sovente, nella bassa età, la pace dell’impero e dei regni cristiani han segnato una scia di lacrime e di sangue per ambedue le comunità, la civile e la cattolica; la storia ricorda le secolari lotte per le investiture, come ricorda l’inframettenza profana di imperatori, di imperatrici bizantineggianti fra Ariani, Iconoclasti ed eretici d’ogni fatta, che davan accenti dolorosi all’alata parola dei Padri. S. Ambrogio, con latino buon senso, in un fraterno sfogo con la sorella Marcellina, esprimeva così la sua indomita fierezza: «È più facile che un imperatore aspiri al sacerdozio che un sacerdote all’impero».

Nell’umanesimo, Guglielmo Occani, Giovanni Giandone, Marsilio Patavino insegnarono la completa subordinazione della Chiesa allo Stato, e il regale egemonico diritto di questo su quella, preparando così il terreno al protestantesimo il cui principio generale in questa materia fu espresso dal volgare detto: cuius regio, illius et religio. Si videro così i cittadini del Palatinato in Germania, dal conte Federico III costretti a passare dal luteranesimo al calvinismo, e dal suo successore Ludovico costretti a ritornare al luteranesimo, e nuovamente da Federico IV riportati al calvinismo. In forza pure di tale principio il parlamento inglese d’Arrigo VIII e d’Elisabetta non riconobbe nessuna giurisdizione ecclesiastica se non «per regem, sub rege et a rege». Il diritto maiestatico, circa sacra, fu appellato questo nuovo potere, che nello studio partigiano dei novatori protestanti venne classificato in tre teorie:

1). la episcopale: in cui si sosteneva che il diritto primordiale e sovrano dei vescovi era stato devoluto ai principi civili.

2). la territoriale, in cui si sostiene che tutto ciò che è contenuto in qualsiasi modo in un territorio, spetta al signore della terra.

3). la collegiale, in cui si attribuisce al principe l’autorità dei collegi religiosi, della ecclesia, o adunanza dei fedeli.

Il Gallicanismo (recentemente e abilmente insinuato nella Action française) il Giansenismo e il Giuseppinismo hanno tentato con diverse forme di sottrarre alla autorità religiosa la suprema direttiva delle coscienze.

Hegel ha minato radicalmente l’autorità religiosa distinta dalo Stato, con la concezione globale del suo idealistico panteismo. Lo stato è la divina volontà (göttlicher Wille) che si esplica nella forma reale e nella organizzazione del mondo (einer Welt): perciò è fine di ogni cosa e fine ultimissimo a se stesso.

Esso è fonte di tutti i diritti: la religione è tutta soggettiva mentre che lo stato è oggettivo, sa, vuole e regge. In una parola, lo stato hegheliano distrugge tutti i diritti e financo la esistenza di un Dio trascendente e qualsiasi ordine di bene soprannaturale.

Il liberalismo italiano ha creato in questa difficile materia, una formula diventata, proverbiale «libera Chiesa in libero Stato». Ha creduto così di tagliar corto con ogni difficoltà, spastoiandosi dalle difficoltà politiche in cui si dibattè lungamente il nostro risorgimento nazionale – non certo favorito dal potere temporale della Chiesa –; ed esagerando in tutto il resto, come se nella vita pratica fosse facile mantenere un perfetto agnosticismo fra due poteri che si esercitano sullo stesso soggetto.

E poi se ciò fosse possibile, come immaginare uno stato perfettamente agnostico di fronte alla Chiesa senza pensarlo ateo? Mentre è ovvio che una società cattolica nella sua maggioranza ha pure debiti sociali di religiosità?

In una limitata pratica noi questo ateismo l’abbiamo visto realtà, sotto ai nostri occhi. Se la religione tutta si eonsumasse in una attività interiore, se l’evangelo non riguardasse pure la società familiare e i pubblici costumi, se i credenti fossero puri spiriti, forse tornerebbe facile la pratica della massima «libera Chiesa in libero Stato». Il cittadino e il cattolico, non sono due esseri divisi, abitanti di due distinti poli: essi si fondono in un sol uomo, e poichè il suddito della Chiesa, nella vita pubblica non può vivere come vivrebbe un pagano: e nella sua stessa vita privata ha obbligazioni interne ed esterne imposte dalla fede, quali quelle dei Sacramenti, che tutta la vita santificano, non può certo non sentire che nelle opere sue per un lato può essere regolato dalla Chiesa e per l’altro può venire legiferato dall’autorità civile.

Nella pratica il decantato principio fu soggetto al più evidente fallimento: anche le nazioni separatiste per eccellenza, come la Francia, conobbero piccole, modeste Canossa, che le portarono ai ripieghi di velate e pur palesi relazioni con la suprema autorità ecclesiastica, mentre il parlamento discuteva, negava e continuava a mascherarsi nel fittizio agnosticismo o si mascherava in una lotta aperta (novello Don Chisciotte) contro le agnelle belanti del Cristo.

La Dottrina Cattolica sui rapporti fra Chiesa e Stato.

La serena intuizione del Duce, anche in questa questione ha dato dei lampi che illuminarono i cieli della politica europea in piena burrasca. Ma non rifacciamo una storia che ci canta ancora nell’anima con l’eco recente della gioia di tutti gli italiani.

Il principio recentemente affermato dal Duce sulla necessaria distinzione dei due poteri, il sacro e il profano, basta a richiamarci alla mente le linee fondamentali della questione, perfettamente collimanti con la più sieura e più umana tradizione.

Principio fontale di ogni diritto è la divinità, creatrice dell’uomo come cittadino e come cattolico. Lo Stato e la Chiesa sono società distinte, ambedue perfette nel loro ordine, armate cioè dei mezzi necessari al conseguimento delle loro finalità. Scopo della Chiesa è portare gli uomini alla ultraterrena felicità: scopo della società civile procurare il bene terreno, senza impedire il celeste. La dignità dell’autorità è segnata dalla dignità delle finalità che tutte convergono verso la divinità.

I tre evangeli sinottici ci riportano un episodio di capitale importanza, in cui appare chiaro l’atteggiamento del Divino Maestro nella questione civile.

I farisei, nemici senza quartiere, assicuratisi la testimonianza degli erodiani (favoreggiatori dei romani), vengono a sorprenderlo con questa sfacciata e intempestiva richiesta: «Maestro, sappiamo che sei verace e insegni la verità del nostro Iddio, e non hai timore di dire il vero in faccia a chiunque: poichè tu non sei un accettatore di persone – neppure dei grandi, fosse pure il Cesare di Roma –. Dicci adunque: È lecito pagare le tasse all’imperatore o no?».

Domanda subdola: si aspettava una delle due risposte o in favore delle tasse, e perciò stesso contro la indipendenza del popolo che mal portava il giogo de’ romani – o contro le tasse, e per ciò stesso riusciva un’accusa in mano dell’autorità imperiale contro di lui.

Il Maestro, cui era noto il tranello di quei perfidi, non solo se la cavò con una risposta più astuta della loro malizia, ma prese motivo per dare al mondo il suo sovrano insegnamento di rispetto alle autorità terrene. Si fe’ mostrare una moneta, un denaro, il mezzo siclo coniato con l’effigie imperiale e chiese loro: «Di chi è questa figura e il nome soprascritto?». Gli risposero: «Di Cesare». (Era infatti Tiberio, detto come il primo imperatore: Cesare). Ed egli, con semplice autorità soggiunse: «Date a Cesare adunque quel che è di Cesare, e quello che è di Dio a Dio» (Matt. 22,16 e seg.).

Dall’episodio il Maestro è salito al principio: dalla contingenza della piccola politica, alla grande politica che insegnò a tutti i sudditi di Dio e di Cesare a distinguere fra potere e potere, fra «sacro e profano» come dice il genio del Duce, e a tributare all’una e all’altra autorità il dovuto, imprescindibile ossequio. In questo insegnamento l’ideologia cristiana fondò tutta una filosofia morale sociale, che corse pacificatrice lungo il fluire dei secoli. Origene diceva «Per ciò che si dà il dovuto all’imperatore, non si viene impediti di dare a Dio il dovuto culto». E Costantino il grande, teste Eusebio (Vita, 4, 24) proclamava ai vescovi: «Voi siete vescovi nella Chiesa, come io da Dio sono stato costituito vescovo fuori della Chiesa». Dio però direttamente e immediatamente pel suo Cristo alla Chiesa aveva dato la sua autorità. A lui, all’imperatore attraverso lo sviluppo storico della umana società.

Quando Paolo di Tarso dirigeva il suo verbo infocato alla prima comunità di Roma imperiale, si rendeva interprete del Maestro celeste con questi poderosi concetti: «Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori; perchè non v’è podestà se non da Dio, e quelle che sono, sono da Dio ordinate. Sicché chi si oppone all’autorità fa contro l’ordine di Dio, e quelli che così resistono si tireranno addosso la condanna. poichè i magistrati non sono oggetto di paura per l’opera buona, ma per la cattiva. Vuoi tu non dover temere l’autorità? Fa il bene e avrai lode da essa, che è ministra di Dio a te per il bene. Ma se fai il male, allora devi temere; poichè il magistrato non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio e vindice dell’ira divina per chi fa il male. Perciò è necessario sottomettersi, non solo per tema dell’ira divina, ma anche per la coscienza». (Ad. Rom. 13).

Dove mai un principe, uno stato, l’autorità civile può trovare più chiare testimonianze e più solidi argomenti di sudditanza? E poiché la Chiesa, fin dal suo nascere, ha affrontato così serenamente la questione delle relazioni del credente (individuo o società che si voglia) come mai un modernissimo e modernistico autore (che si appella inesauribilmente al cristianesimo primitivo), può fare l’appunto al Papa contemporaneo di avere negletto il messaggio spirituale evangelico diretto a tutti gli uomini, per preoccupazioni nazionalistiche, di non avere battuto in breccia contro i moderni nazionalismi, tutti basati secondo l’autore sull’egoismo razziale, a danno del concetto unitario dell’umanità? La Chiesa non si è mai rinchiusa nell’agnosticismo di fronte agli aggruppamenti nazionali, capeggiati dalle legittime autorità. Come l’insegnamento del Cristo e l’epistola dell’apostolo, i suoi concordati sono coscienti e chiare dimostrazioni del riconoscimento dell’autorità, e necessarie, benché talvolta contingenti, condizioni di pace, affinchè i popoli possano godere la pace sopratutto là dove la pace deve essere frontale, ai piedi degli altari.

Del resto quest’autore ignora o mostra ignorare, quanto il principe dei dottori cattolici, l’Aquinate, nella massima opera sua ha insegnato. Egli ha dato il titolo glorioso di culto della patria «In cultum autem patriae» (Summa 2a 2ae - 1°) a quell’ufficio della virtù della pietà che s’estende ai concittadini, alle autorità e agli amici del suo paese. E tutto ciò senza venir punto accusato di panteismo statolatrico! La conquista ideale oggi fatta dal nostro governo, con la pacificazione delle coscienze, dopo le amare esperienze fatte dal nostro popolo nell’individualismo, nel separatismo dissolvente ed anarcoide, è ispirato non solo alla più sicura tradizione cattolica, ma pur corrisponde alla limpida vena millenaria del buon senso italiano.

Vincenzo Gioberti, nel Primato poteva sinteticamente affermare che «se altri può essere cattolico senza essere italiano, non si può essere italiano senza essere cattolico». Due millenni han visto vivere e prosperare ininterrottamente, sullo stesso suolo, nella stessa casa un popolo innamorato del suo Dio e delle sue bandiere: due società distinte con le sue gerarchie divinamente istituite, l’una la Chiesa, direttamente suscitata dal Cristo figlio di Dio – l’altra la società organizzata dallo stesso Dio, con la mediazione delle forze sociali da Lui create. Le due gerarchie, svettanti con i culmini massimi, sotto il nostro cielo fortunato, han fatto di Roma la capitale del regno terreno e del regno spirituale, caput mundi, Jerusalem coelestis. Se talvolta i cieli parvero rabbuiarsi, se croce e spada parvero scontrarsi, la colpa più grande degli uomini fu il non comprendere il «vitia donec homines» già proclamato dal buon senso latino, e di incolparne i principii, quei principii che Dio stesso, autore della natura e del soprannaturale, armonizzò perfettamente. Ma il popolo italiano, sempre migliore de’ miopi e partigiani politicanti, non abbandonò mai i templi del suo Dio, come mai fu sordo alla diana della patria. E attese, per più che mezzo secolo di maledizioni e di bronci, che finalmente sorgesse il giorno benedetto in cui Chiesa e Patria tornassero ad essere anche sotto il cielo, il binomio rifuso in un solo amore dal fuoco di un genio rinnovatore. Questo giorno noi lo godiamo per la mente e l’opera di Benito Mussolini.




CURRICULUM VITAE DI PADRE REGINALDO GIULIANI

Per i lettori di questo volumetto, che non conoscessero i dati della vita dell’Autore, ne diamo qui un breve compendio.

Egli nacque in Torino il 28 Agosto del 1887. Fu battezzato il 4 Settembre col nome di Andrea.

Compiè i due primi corsi elementari alla «Federico Sclopis» e gli altri tre alla «Regia Opera Munifica Istruzione» dove insegnavano i Fratelli delle Scuole Cristiane.

Dal 1900 al 1903 frequentò il ginnasio dei Salesiani a Valdocco.

Il 25 Settembre 1904 veste a Chieri l’abito domenicano e l’anno seguente fa la professione religiosa. Dal 1905 al 1912 segue, pure a Chieri i corsi di filosofìa e di teologia nello Studentato domenicano, e il 21 Dicembre 1911 è ordinato sacerdote. L’anno dopo consegue la laurea in teologia col titolo di «Lettore», e per un anno insegna a Chieri, dove pure inizia il ministero della predicazione, nel quale subito eccelle.

Dal 1913 all’inizio del 1916 è assegnato al convento di Trino Vercellese, dove lo raggiunge la chiamata alla vita militare.

Dopo pochi mesi nei Reparti di Sanità viene nominato Tenente Cappellano del 55° Fanteria, e il 4 Novembre 1916 pel combattimento di Hudi Log è insignito della prima medaglia (di bronzo) al valor militare.

Sulla fine del 1917 ottiene di essere nominato Cappellano dei Reparti d’assalto della IIIa Armata, e come Ardito guadagna il 26 Ottobre 1918 un’altra medaglia di bronzo al V. M. a Fornace, dove fa prigionieri trenta austriaci, e il 30 dello stesso mese a Romanziol ottiene una medaglia d’argento.

Nel Settembre 1919 va a Fiume quale Cappellano dei Legionari, finchè nel Marzo 1920 è richiamato al suo convento di Trino V.

Dal 1920 al 1921 insegna apologetica a Chieri, dopo di che è asse- /58/gnato nel convento di San Domenico di Torino, dove si occupa molto dei giovani, pure attendendo intensamente alla predicazione in molte parti d’Italia.

Nel 1924 inizia l’ufficio di Cappellano alla R. Accademia di Artiglieria e Genio a Torino.

Nel 1927 è insignito del grado di predicatore generale, e nello stesso anno inizia all’Università di Torino il Corso di cultura religiosa per gli studenti del G.U.F.

Pure nel 1927 diviene Cappellano dell’O.N.B.

Nel 1928 fa un giro di propaganda religiosa e patriottica nella America del Sud, e nel 1929-30 percorre allo stesso scopo l’America del Nord. Tornato in Italia riprende la predicazione e nel 1934-35 il Corso di cultura al G.U.F. torinese.

Nel Febbraio del 1935 chiede di essere Cappellano delle CC. NN. e nell’aprile parte per l’A. O. col grado di Centurione.

Il 21 gennaio 1936 nell’asprissima battaglia del Tembien e precisamente a Mai Beles mentre già ferito da arma da fuoco, continuava nel pietoso ufficio di confortare ed assistere spiritualmente i feriti e i moribondi, viene trucidato dagli Abissini con un colpo di scimitarra alla spalla destra. Fu sepolto a Passo Uarieu nel cimitero intitolato al suo nome e il 21 Gennaio 1939 fu tumulato nella Chiesa parrocchiale di Adi-Cajeh.