Sunday 4 March 2012

Discorso al Consiglio nazionale del PNF, 25 ottobre 1938


di Benito Mussolini

Il discorso che sto per pronunciare davanti a voi è stato meditato da me da molti mesi. Questo discorso è destinato a rimanere inedito per il momento. Però vi autorizzo a trasmetterlo per diffusione orale. Vi prego di stare ben attenti, perché è un discorso importante. Non conta se sarà letto fra una settimana, due anni, venti anni. Il verbale autentico della riunione del 16 ottobre 1922, durante la quale decisi la marcia su Roma, voi lo leggerete venerdì prossimo, dopo sedici anni. E lo troverete interessante.

Ricorderete un altro discorso di questo genere, che rimane inedito, quello di Eboli. Allora io dissi: «Noi vinceremo il negus, noi mette remo in ginocchio l'Etiopia ». Fu riferito in diverse versioni, ma raggiunse lo scopo che si proponeva: quello di aumentare la temperatura del popolo italiano e la sua certezza nell'esito della guerra, ormai inevitabile e necessaria.

Alla fine dell'anno XVI ho individuato un nemico, un nemico del nostro regime. 'Questo nemico ha nome « borghesia ».

Quando, alcuni anni fa, mi occupavo di questa faccenda e tentavo, invano, di raddrizzare le gambe ai cani, io dicevo: fate una distinzione nettissima fra capitalismo e borghesia. Perché la borghesia può essere una categoria economica, ma è soprattutto una categoria morale, è uno stato d'animo, è un temperamento. È una mentalità nettissimamente refrattaria alla mentalità fascista. Si potrebbe dire, grosso modo, che la borghesia è quella che sta fra gli operai da una parte, e i contadini dall’altra, cioè fra alcuni milioni di persone. Questo non ci soddisfa.

La borghesia è una categoria a carattere politico-morale. Come la identificheremo? Attraverso delle esemplificazioni. Esempio: un giorno di luglio il principe Colonna vola e cade. Il fascista di temperamento dice: « Però questo principe romano, di una grande, grandissima famiglia, ha del fegato. Il suo gesto è ammirevole. Poteva nel pomeriggio rimanere in via Veneto a scambiarsi delle parole inutili con altri individui e, viceversa, volava ». Commento del borghese: « Ma chi glielo ha fatto fare? ».

Si fanno dei voli transoceanici che portano la nostra ala in continenti lontani. Il popolo fascista è fiero di ciò. Vede in questa gesta qualche cosa che inorgoglisce il popolo italiano. Vede un aumento di prestigio morale della nazione. Il borghese si mette al tavolo e dice: « Tre motori, tre apparecchi, nove motori. Consumo di benzina per ogni motore cinquecento litri. Dunque questo ci viene a costare dai quindici ai venti milioni ». Questo è un tipico ragionamento del borghese. Un altro dato di fatto per identificare il borghese, la mentalità borghese: la esterofilia. « Parigi! Ma chi non è stato a Parigi non conosce il mondo, non è un uomo! ». E ci mettono anche la erre moscia. « Londra! Domina la quarta parte dei continenti ».

Secondo costoro l'Italia è un piccolo, povero paese, che deve andare a scuola dalla democrazia. francese e dalla aristocrazia britannica, perché deve sempre copiare qualcuno e qualche cosa.

Altro tratto caratteristico della borghesia: il suo pessimismo, ben lontano dal nostro pessimismo virile, che è il pessimismo che vede l'ostacolo e non lo svaluta ed è deciso ad affrontarlo. Il pessimismo del borghese è quello che si fascia la testa prima di essersela rotta. Prima che succeda niente dice: « Ma che cosa va a succedere? Siamo perduti, è un salto nell'ignoto ».

Ma poi ancora il borghese è un minuzzatore di quelli elle si chiamano i grandi uomini. La gioia del borghese è quella di vedere che Napoleone, ad un certo momento della Maria Waleska, è in una specie di vestaglia, non ben definita, e si rade. Allora il borghese dice «Vedete, è uguale a me». Infatti è uguale a lui. Napoleone non andava a letto con gli speroni e con gli stivali. Ma c'è una cosa che il borghese non potrà mai fare. Non potrà mai vincere una battaglia come quella di Austerlitz. Evidentemente c'è qualcosa in Napoleone che è comune a tutti gli uomini, ma c'è anche qualcosa di profondamente diverso.

Il borghese è nemico dello sport. Nemicissimo dello sport, di tutto quello che può turbare il suo stato perenne di quiete. È naturalmente pacifista, pietoso, pietista, pronto a commuoversi, sempre umanitario, infecondo. Infecondo, perché il borghese ci fa un calcolo sopra. Se un sabato sera si mette a discutere con la moglie se fare un bambino o no, il calcolo gli dice che non gli conviene, che è meglio non farlo. Mentre, invece, 1a fecondità è un dato dell'istinto. La troppa ragione raziocinante è ostile a quelle che sono le, forme primordiali, incoercibili e profonde della umanità.

Questi sono i tratti caratteristici somatici del borghese.

Vediamo un po' cosa è successo nel sedicesimo anno del regime. È successo un fatto di grandissima importanza. Abbiamo dato dei poderosi cazzotti nello stomaco a questa borghesia italiana. L'abbiamo irritata, l'abbiamo scoperta, l'abbiamo identificata. Qualche volta si nasconde anche nelle nostre file. Dobbiamo liberarci di essa, bisogna cacciarla, anche se dovessimo essere costretti a strapparci di dosso la carne viva.

Il primo cazzotto è stato passo romano di parata. Il popolo adesso lo adora. Ma la borghesia lo ha detestato. Ha detto: « Ma che cosa è questo passo romano di parata! ». Non sapeva che è stato inventato da Eugenio di Savoia e adottato poi da tutti gli eserciti. Si è detto che esso non era democratico e perciò era stato abolito, mentre noi lo abbiamo ristabilito. Si è detto anche che essa è uguale al « passo dell'oca ». Prima di tutto ciò non è vero. Secondo, anche se fosse vero, c'è un dato di fatto curioso: che il popolo italiano è forse il solo popolo della terra che abbia l'oca nella sua storia. Infatti tutti gli storici di Roma lo attestano. C'era un accantonamento di romani sul Campidoglio. Ora l'oca faceva migliore guardia dei cani. Del resto l'oca era dedicata a Giunone, e quindi era un animale altamente rispettabile, ed è perfettamente normale che l'oca abbia risvegliato i romani, che forse erano stanchi e dormivano, e quindi il console abbia sconfitto i Galli (francesi di oggi) ed abbia impedito salissero fino sulla vetta del Campidoglio.

Tutti coloro che hanno visto il nostro passo di parata ed il passo di parata germanico hanno constatato che c'è una differenza essenziale. Tutti gli eserciti lo hanno adottato, ivi compreso l'inglese, ivi compreso l'albanese, il bulgaro; persino i soldati della Repubblica Argentina e i cadetti degli Stati Uniti. Evidentemente bisogna dare, ad un certo momento, l'impressione della forza.

Decisivo e grave è questo che vi dico: perché non si faceva prima il passo di parata? Perché si riteneva che noi fossimo incapaci di farlo. Infatti si diceva: « È un spasso da giganti e non può essere un passo di un popolo dove tutti sono piccoli, storpi ». C'era quasi un riconoscimento della nostra inferiorità fisica per rinunciare a manifestazioni di questa nostra forza. Il popolo l'ha sentito. La borghesia si è inalberata. Ma, dopo le mie parole del 1° febbraio, in cui gettavo fasci di luce contro i borghesi definendoli sedentari, mezze cartucce ed altro, la borghesia si è acquetata.

Quel passo esprime la volontà. Chiunque è capace di andare al passo. Se voi prendete un gregge di tremila pecore con i campanelli, tutti i campanelli suonano nello stesso tempo e il gregge va al passo.

Possiamo noi accontentarci di questo? No. L'introduzione del passo romano ha avuto una ripercussione enorme in tutto il mondo, come espressione di forza morale. Noi lo manterremo appunto perché risponde a queste caratteristiche.

Altro piccolo cazzotto: l'abolizione del « lei ». (Approvazioni). È incredibile che da tre secoli tutti gli italiani, nessuno escluso, non abbiano protestato contro questa forma servile, che ci è venuta dalla Spagna del tempo. Fino al cinquecento gli italiani non hanno conosciuto che il « tu » e il « voi ». Poi solo il « tu », ignorando il « lei ». Infatti, quando il contadino ha parlato con me, non mi ha detto: « Senta Eccellenza », ma mi ha detto: «Senti, Duce, noi non abbiamo l'acqua».

In Romagna ancora oggi la moglie dà del «voi » al marito, i nipoti al nonno, e qualche volta il figlio dà del « voi » al padre. Tutta l'Italia meridionale ignora il «'lei », sia nelle classi colte, sia in quelle popolari. Invece lo spagnolismo ci aveva infettati creando problemi complicatissimi di sintassi, perché è chiaro che il « lei » si riferisce ad una donna. Ciò era stato notato da uomini di grande valore, che si chiamano Vittorio Alfieri, Giuseppe Giusti, Giacomo Leopardi, Silvio Pellico.

La borghesia italiana ha detto: « Che cos'è questa storia? Allora vuol dire che invece di Galilei diremo Galivoi ». Cretinismo spappolato; barzelletta che vorrebbe essere spiritosa, ed è invece semplicemente cretina.

Altro cazzotto nello stomaco è stata la questione razziale. Io ho parlato di razza ariana nel 1921, e poi sempre di razza. Una o due volte sole di stirpe, evidentemente alludendo alla razza. E quindi ho respinto le parole schiatta, genere umano, ecc., e altre parole che sono troppo evanescenti. Ed ho parlato di uomini vivi di carne ed ossa. Per il Papa le anime non hanno colore, ma per noi i volti hanno un colore. Pur avendo io sempre parlato di razza, la borghesia si è risvegliata all'improvviso e ha detto: «Razza?». Allora io mi sono domandato: « Per avventura non sarei come quell'autore più citato che letto? ». Il problema razziale è per me una conquista importantissima, ed è importantissimo l'averlo introdotto nella storia d'Italia. I romani antichi erano razzisti fino all'inverosimile. La grande lotta della Repubblica Romana fu appunto questa: sapere se la razza romana poteva aggregarsi ad altre razze. Questo principio razzista introdotto per la prima volta nella storia del popolo italiano è di una importanza incalcolabile, perché, anche qui, eravamo dinanzi ad un complesso di inferiorità. Anche qui ci eravamo convinti che noi non siamo un popolo, ma un miscuglio di razze, per cui c'era motivo di dire, negli Stati Uniti: « Ci sono due razze in Italia: quella della valle del Po e quella meridionale ». Queste discriminazioni si facevano nei certificati, negli attestati, ecc.

Bisogna mettersi in mente che noi non siamo camiti, che non siamo semiti, che non siamo mongoli. E, allora, se non siamo nessuna di queste razze, siamo evidentemente ariani e siamo venuti dalle Alpi, dal nord. Quindi siamo ariani di tipo mediterraneo, puri. Le invasioni barbariche dopo l'impero erano di poca gente: i longobardi non erano più di ottomila e furono assorbiti; dopo cinquant'anni parlavano latino. Gli arabi di Sicilia non lasciarono tracce.

Senza risalire alle origini, ai liguri ed ai cinque o seimila anni prima di Cristo, ci limitiamo a dire che, da almeno millecinquecento anni, le nostre genti si sono raggruppate fra di loro, ragione per cui la loro razza è pura, soprattutto nelle campagne. Naturalmente, quando un popolo prende coscienza della propria razza, la prende in confronto di tutte le razze, non di una sola. Noi ne avevamo preso coscienza solamente nei confronti dei camiti, cioè degli africani. La mancanza di dignità razziale ha avuto conseguenze molto gravi nell'Amara, è stata una delle cause della rivolta degli amara. Gli amara non avevano nessuna volontà di ribellarsi al dominio italiano, nessun interesse a farlo. Lo prova il fatto che durante l'impresa etiopica cinquemila amara, armatissimi, accolsero il camerata Starace, quando egli scese dall'aeroplano, con manifestazioni di obbedienza e di entusiasmo. Ma quando hanno visto gli italiani che andavano più stracciati di loro, che vivevano nei tucul, che rapivano le loro donne, ecc., hanno detto: «Questa non è una razza che porta la civiltà». E, siccome gli amara sono la razza più aristocratica dell'Etiopia, si sono ribellati. Queste cose probabilmente i cattolici non le sanno, ma noi le sappiamo. Ecco perché le leggi razziali dell'impero saranno rigorosamente osservate e tutti quelli che peccano contro di esse saranno espulsi, puniti, imprigionati. Perché l'impero si conservi bisogna che gli indigeni abbiano nettissimo, predominante il concetto della nostra superiorità.

Vengo al problema ebraico.

Bisogna reagire contro il pietismo del povero ebreo. « Che colpa ne ha? Che cosa ha fatto di male? Sono qui da tre secoli, da cinque secoli, da dieci secoli ». Con questi sistemi non si affronta mai un problema di carattere generale. Il problema di carattere generale lo si pone in queste linee: che l'ebreo è il popolo più razziale dell'universo. È meraviglioso come si mantengono puri attraverso i secoli, poiché la religione coincide con la razza, e la razza con la religione. Non si è mai potuto assimilare. Perché, come si legge nel suo giornale italiano Israel, è una razza di profeti e di sacerdoti. (Si ride). Ora, fra noi e loro, ci sono delle differenze incolmabili.

Se voi leggete un libro di ebreo, troverete che vi è scritto: « È impossibile che fra noi e gli ariani ci sia mai un punto di congiunzione e di comprensione, perché noi siamo gli uomini della sabbia, voi siete gli uomini della roccia; noi gli uomini della tenda, voi della città; voi gli uomini dello Stato, noi non abbiamo nella nostra lingua una parola che significhi Stato. Siamo rimasti la tribù ».

Non v'è dubbio che l'ebraismo mondiale è stato contro il fascismo, non v'è dubbio che durante le sanzioni tutte le manovre furono tracciate dagli ebrei, non v'è dubbio che nel 1924 i manifesti antifascisti erano costellati di nomi ebrei, non v'è dubbio che erano non quarantatremila ma settantamila!

E a tutti coloro i quali hanno il cuore dolce, troppo dolce e si commuovono, occorre domandare: « Signori, quale sarebbe stata la sorte dei settantamila cristiani in una tribù di quarantaquattro milioni di ebrei? ». (Acclamazioni grandissime e prolungate).

Nonostante questo, noi abbiamo fatto delle discriminazioni, ma sulle quali forse si è equivocato. La discriminazione non è mai nei nostri confronti: è nel confronto con gli altri ebrei. Non vuol dire che i discriminati possono diventare uomini politici, diplomatici, ufficiali, capi di organizzazioni, ecc. No. Possono avere cento operai, magari essere iscritti al Partito Nazionale Fascista; ma questo nei confronti degli altri ebrei, che non hanno queste agevolazioni. Questo è un dato di fatto che sarà chiarito dalle leggi, che sono di imminente attuazione.

Un altro fatto che ha urtato molta gente è stato l'uniforme per gli impiegati civili. Si è detto: « Ma dunque tutti devono essere militari in Italia? ». Precisamente. Tutto in Italia deve essere militare, tutto in Italia deve essere militarizzato. Il pittoresco ci ha fregati per tre secoli. Dopo il 1513, dalla caduta della Repubblica Fiorentina, gli italiani non hanno più portato le armi, eccetto il Piemonte, che si è destreggiato fra grandi Stati, e si è portato molto bene. Allora era molto comodo per gli stranieri, e sarebbe comodo anche oggidì, avere una Italia pittoresca, disordinata, cantatrice, suonatrice, che rispondesse a quello che un giornale inglese diceva come esempio di una spudoratezza senza pari: « Ma perchè gli italiani che sanno maneggiare così bene la penna ed il pennello, vogliono fare altrettanto con i cannoni? » Questo è affare nostro invece. E speriamo di spararli bene e anche le mitragliatrici. Ora, questo spirito borghese, una volta identificato, deve essere isolato e distrutto. Notate che in una nazione non si può pretendere che siano tutti allo stesso livello per quanto riguarda il coraggio, la decisione, l'eroismo. Sarebbe troppo pretendere. Noi pretendiamo soltanto che i quarantaquattromila che fanno da martiri non abbiano mai tanta forza da fermare il carro. (Applausi). In questo caso noi li butteremo sui fianchi della strada. E se venissero ore veramente supreme, non avremo questa volta esitazione ad eliminarli uno per volta. (Acclamazione). Non è più il tempo in. cui si può indugiare alle tendenze facili, disgregatrici.

Siamo usciti da una grave crisi: quella di Monaco. Ma, notate bene, camerati, che ci sono, per Monaco, due cose sulle quali si mette l'accento. 1 borghesi mettono l'accento sulla parola « pace »; viceversa i fascisti degni di questo nome mettono l'accento su un altro fatto: è la prima volta dal 1861 ad oggi che l'Italia ha avuto una parte preponderante e decisiva. (Acclamazioni altissime e grida di: « Duce! Duce! »). Quello che è accaduto a Monaco è colossale. Uso questa parola perché è venuta da noi. Pensate al Colosseo! (Si ride. Acclamazioni altissime). È accaduto questo: la fine del bolscevismo in Europa, la fine del comunismo in Europa, la fine di ogni influenza politica in Europa della Russia. Praga era il quartiere generale della democrazia, del bolscevismo; a Praga c'erano gli archivi della Terza Internazionale. Battendo Praga, noi abbiamo già praticamente battuto Barcellona.

Poi il borghese dice: « Questi tedeschi sono ottanta milioni ». No, borghese caro. Sono cento milioni, perché cene sono ancora da quindici a venti milioni nelle frontiere politiche di dodici Stati. Ma noi non ce li sentiamo sullo stomaco e per ragioni molto semplici. Prima di tutto hanno dodici frontiere; in secondo luogo hanno tutto l'interesse di fare una politica di amicizia cori noi, perché siamo il punto determinato; in terzo luogo, e su questo richiamo la vostra attenzione, il pangermanesimo attuale non ha niente a elle vedere con quello di anteguerra. Il pangermanesimo attuale è rigorosamente razziale. In un momento della conferenza di Monaco in cui si venne un po' ai ferri corti con gli inglesi, Hitler, abbandonando la calma, che aveva sino allora mantenuta, disse: « Signori, io, non voglio che i tedeschi, e non vorrei un solo ceco neanche a peso d'oro ».

Ora l'Asse sta sullo stomaco a questi borghesi, che hanno sempre l'occhio sulla Francia e pensano che l'Inghilterra è l'ideale di ogni Stato ed anche di ogni individuo educato... (Si ride). Ma soprattutto perché l'Asse significa la fine di tutte quelle ideologie, di tutte quelle tendenze nelle quali ancora, per una parte residua, la borghesia crede. (Acclamazioni).

Con un'Asse di centoventicinque milioni di uomini, che crescono di un milione all'anno, non c'è nulla da fare. È inutile che la Francia spenda sedici miliardi per l'aviazione. Ne ha già spesi duecento per arrivare a Praga. Non basta avere dei mezzi; bisogna avere il coraggio. E questo lo possono avere soltanto i popoli poveri. Bisogna avere il coraggio di affrontare i rischi della guerra, il sacrificio. Cose alle quali non possono resistere coloro che mangiano cinque volte al giorno, fumano i sigari raffinati, e hanno fatto una specie di religione professata di certi giochi.

Appunto a questo disfattismo, che talvolta affiora, voi direte che noi fascisti ci rifiutiamo di credere, nella maniera più rigorosa, che noi italiani di questo tempo non abbiamo il coraggio che ebbero i piemontesi nel 1848 in tre milioni o poco più, quando affrontarono l'impero austroungarico, e i milanesi, quando, nel 1848, pochi e male armati, seppero scacciare l'esercito tedesco, che aveva quindicimila uomini di guarnigione. Abbiamo vinto una guerra mondiale e i germanici l'hanno riconosciuto. Poi abbiamo fatto un'altra guerra, l'etiopica, che è stata un capolavoro. Poi siamo andati in Spagna, dove i nostri soldati si sono coperti autenticamente di gloria e se ne sarebbero coperti di più, se lo avessero desiderato gli interessati. I quali, è perfettamente umano, desideravano di vincere, ma, evidentemente, non soltanto, o quasi, unicamente attraverso lo sforzo italiano. Questa è la situazione dell'Italia fascista alla fine dell'anno sedicesimo. Una situazione di incomparabile prestigio mondiale.

I giapponesi sono già a dodici chilometri da Han-Kow. Qualche volta sentite il borghese che dice: « Questi giapponesi... Ma l'Inghilterra... ». Canton prima, Han-Kow oggi: tracollo del prestigio britannico! (Acclamazioni). Come la Cecoslovacchia è stato il tracollo del prestigio francese. I francesi dicevano: « Noi dobbiamo mantenere i nostri impegni, che sono sacri. No,i vi terremo fede ». Ma poi, ad un certo momento, quando si trattò di snudare il brando, il brando venne mantenuto nella guaina. E questo vi spiega che se una si fa sentire parlare francese a Praga, lo accoppano. (Acclamazioni vibrantissime).

Presto avremo la galleria dei pensionati: il primo pensionato è il negus, il secondo Beneš. Fra poco avremo anche Chiang-Kai-Shek. Andranno tutti insieme a consolarsi sulle rive del lago Lemano, a piangere l'uno in seno all'altro e diranno: « Ma questo fascismo è veramente duro e deciso. Contro il fascismo non c'è niente da fare ». Effettivamente è così: non c'è niente da fare. (Acclamazioni vibrantissime e grida: « Duce! Duce! »).

Parliamo adesso di certi rimasugli che vi sono all'interno e che sono insignificanti. Però qualche volta pretendono di rappresentare il popolo. (Si ride). Se anche non avessi informatori di nessuna specie, se anche non ci fossero i prefetti, i segretari federali, i carabinieri, io sentirei lo stesso quello che bolle in pentola. Io sentirei quello che c'è nell'aria. Questo è l'effetto di quarant'anni di attività politica e della mia natura un po' felina. Ora questi rimasugli dicono: « Perché Mussolini non allarga le file per il popolo? » Ma il popolo è tutto per il fascismo. E il milione di bimbi che mandiamo al mare ed in campagna non sono il popolo? E i due milioni di fascisti? Questi ridicoli residui pretenderebbero di rappresentare il popolo italiano, questi burattini di un teatro demolito vorrebbero che noi li prendessimo sul serio. (Si ride). Non lo abbiamo fatto e non lo faremo.

Ora, o camerati, dovete diffondere quello che vi ho detto oggi. Ho visto che qualcuno di voi ha preso degli appunti; questo è scolastico, un po', ma previdente, perché nessuno può avere una memoria di ferro, come il sottoscritto. (Acclamazioni prolungatissime).

Dovete curare soprattutto i giovani, dedicare le vostre energie ai giovani, non però in un senso che potrebbe essere negativo. Il problema dei giovani è stato da me risolto un giorno con questa formula abbastanza semplice. Io dissi: « Non esiste un problema dei giovani ». Il mio interlocutore mi domandò : « Perché? ». Al che io risposi: « Qual è l'interesse di ogni giovane? Quello di vivere. Perché se non arriva a trenta, quaranta, cinquanta anni, gli è successo un guaio: è morto ». (Si ride).

Ma l'interesse di tutti noi non è quello di vivere il più a lungo possibile, ma di vivere nella pienezza dei mezzi fisici e spirituali. Perciò approva, malgrado le critiche dei soliti borghesi, gli esercizi fisici eseguiti dai gerarchi. Perché il gerarca del nostra tempo è un soldato. Tutti quelli che si occupano di cose militari sanno quanto giochi il prestigio fisico presso le truppe. Il reparto vuol vedere il suo comandante. vuole robusto, gagliarda, resistente alle fatiche.

Bisogna inoltre tenere sempre i contatti col popolo, che è grande, che merita veramente di essere amato, di essere difeso; e reagire contro i soliti disfattisti, che si fanno sentire anche adesso per la cinquantatreesima settimana, che è invece una cosa necessarissima, un gesto che ha avuto le ripercussioni più profonde in mezzo alle masse operaie, le quali devono convincersi che se non le aduliamo perché non siamo i cortigiani di nessuno, siamo tuttavia profondamente pensosi delle loro sarti.Soprattutto richiamo la vostra attenzione sulla mia risposta al telegramma Starace della Mostra di Torino. Ognuno si è ben convinto, fino al midollo spinale, che la lotta per l'autarchia la condurremo con una energia spietata. (Acclamazioni lunghissime). Sino all'estremo limite. Hanno tentato di strangolarci una volta, ma non si riproveranno più, perché noi abbiamo fatto sacro tesoro di questa terribile esperienza. Tutti coloro che si opporrano alla nostra attività autarchica, ai nostri piani autarchici, che fanno del disfattismo, che gridano soltanto ma stanno ferini e credono di farla a noi, saranno individuati, scoperti, puniti ed indicati al popolo come disertori e traditori.

Io voglio finire questo mio discorso dicendovi che sono molto contento di voi, di voi tutti collettivamente e singolarmente presi. Voi siete il fermento vitale delle provincie: quelli che tengono il collegamento fra il popolo e lo Stato. Quindi la vostra opera è insostituibile. È meritoria ai fini del regime e della nazione. Nessuno fra voi crede, e sono sicuro che nessuno lo crede, che abbiamo finito. (Voci altissime: « No! No! »). Gli editori lo sentono così bene, che non fanno più gli atlanti a pagine legate, ma a pagine staccate (acclamazioni lunghissime), in modo da non aver bisogno di rifare tutto il volume...

La conclusione è questa, o camerati: noi siamo un popolo che ascende. Gli altri declinano. Io ero matematicamente sicuro che i francesi, e gli inglesi non si sarebbero mossi contro di noi. Da dove deriva questa mia sicurezza? Dalla tabella delle categorie delle popolazioni inglesi e francesi divise per età. Risultava da quelle tabelle di origine francese che in Francia ci sono dodici milioni di uomini che hanno più di cinquantacinque anni finiti. Ci potranno essere delle eccezioni, ma la grande massa, giunta al traguardo dei cinquantacinque anni è una massa stanca, disillusa, che ha avuto le inevitabili malattie che accompagnano la vita dei mortali, che desidera soltanto bere dell'acquavite, fumare dell'ottimo tabacco, stare tranquilla.

Il dinamismo è finito. Non può più esistere; è finito, perché il dinamismo è dei giovani. Sono i giovani che rischiano, gli altri, se hanno arrischiato, chiudono il capitolo; se non hanno arrischiato non desiderano più farlo. Ecco perché noi siamo sicuri del nostro futuro, ecco perché tendiamo tutte le nostre energie del popolo italiano verso l'obiettivo della potenza. Perché l'Europa del domani sarà un complesso di tre o quattro masse demografiche, attorno alle quali saranno dei piccoli satelliti. Noi saremo una di quelle grandi masse.