Friday 9 March 2012

Romanità e Latinità: Risposta a ideologi d'Oltralpe

(Pubblicato in « Gerarchia », 3 marzo 1938)

di Massimo Scaligero

La scissione che il comunismo ha provocata tra i popoli latini, i quali sotto il riguardo storico possono ritenersi legati da un unico vincolo ideale, sia pure attraverso apparenti contrasti e lotte originate da motivi politici e territoriali, è un fatto nuovo, proprio della storia contemporanea: la divisione, infatti, questa volta si verifica in profondità, in un piano di essenziali forze dello spirito: è una frattura di coscienze, è la separazione fra due mondi divenuti estranei l'uno all'altro: idea democratica, socialista, parlamentarista, e idea fascista: principio comunista e principio dell'ordine, della gerarchia.

Tuttavia, in rapporto a tale scissione, già da qualche tempo alcuni retori d'oltralpe hanno cominciato a equivocare sul senso della « latinità » la quale è stata da essi invocata come una forma di coscienza tradizionale che potrebbe essere a sè stante e tale da poter prescindere da una ispirazione romana. È recente, inoltre, l'articolo dell'accademico francese Rosny junior apparso su Lea nouvelles litteraires, con il quale si tiene a dimostrare che a « dispetto di Roma e dei Tedeschi la Francia è ben ancor oggi la Gallia »: ciò a proposito della questione posta da Mario e Ary Leblond nell'opera storico-polemica Vercingetorix, circa la parentela tra i Francesi di oggi e i Galli vinti da Cesare. Già a prima vista, si constata come non si possa concepire una Gallia se non come un mondo conquistato e civilizzato dai Romani, ma, a parte l'aspetto semplicemente storico della questione, interessa a noi esaminare qualcuna di queste galliche interpretazioni, particolaristiche ed ingenue, mascherate di filosofia della civiltà. Secondo qualche ideologo francese, la storia dell'Occidente presenterebbe taluni aspetti di evoluzione e di rivoluzione, riguardanti particolarmente le popolazioni latine: tali aspetti sarebbero recisamente in antitesi con la spiritualità di chi pretende rivendicare a sè una cultura latina, romana, una « ortodossia » nel senso originario del termine. La rivoluzione francese, la lotta di classe instaurata dalle democrazie, il comunismo spagnolo, sarebbero fenomeni che, sotto l'aspetto dello spazio, della razza e della nazionalità, non che considerarsi latini, anzi esprimono una sorta di insorgente forza d'armonia, propria alla spiritualità latina, in quanto tenderebbero a ristabilire un equilibrio violato un tempo dal principio d'autorità, oggi dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo. Ciò che, come politica e come cultura, parte oggi da Roma, sarebbe dunque fuori di una tradizione latina, ossia un ritorno alla forma più dura e più militaresca del romanesimo.

Si dovrebbe cominciare col chiedere a codesti signori che cosa intendano per « tradizione » e per « latinità » e a quale deficienza culturale si debba questa escogitata opposizione tra « latino » e « romano », la cui sostanza è come quella di tutto il loro sistema teorico e politico, ossia semplicemente dialettica. Ma oggi esiste ancora chi è mosso da motivi dialettici e crede a quella rettorica che può essere la giustificazione concettuale di talune degenerazioni nella vita. Che cosa è per essi la tradizione? Forse il patrimonio storico, la lessicologia, la cultura universitaria, forse la filosofia? Purtroppo si giuoca eccessivamente con le parole, a tal punto che si giunge a far perdere ad esse il loro reale significato; d'altro canto, l'ignoranza giuoca brutti tiri anche a brillanti giornalisti e a dotti filosofanti.

Non è questa la sede più adatta per cominciare a chiarire che l'autentica tradizione occidentale è una e non può essere che quella romana in quanto dopo la romanità imperiale nessun'altra idea universale illumina il volto dell'Occidente, che non sia una parziale resurrezione di quella scaturita dall'Urbe. Dopo di essa, quale altro ideale superiore di civiltà ha unificato i popoli spiritualmente e temporalmente? Forse la rettorica scientifica e filosofica del periodo umanista, che pure è l'emanazione di uno « spirito italico »; forse la rivoluzione francese, o forse il bolscevismo? Occorrerebbe inoltre precisare fin dove proprio una spiritualità romana ha inspirato anche in periodi di decadenza, in Europa, ogni permanente espressione di costruzione organica sia dell'intelletto che dello spirito guerriero. Si dovrebbe peraltro insegnare a moltissimi intellettualoidi come, a differenza di tutti i complessi psichici, delle forme mentali e dei modi filosofici da essi conosciuti, ossia a differenza di un mondo di assoluta « contingenza », il carattere intimo della tradizione sia la perennità, onde essa non muore, ma si cela, in periodi in cui la sua azione esteriore sembra arrestarsi: la sua essenza è spirituale e rituale, il suo costume è virile e gerarchico, il suo principio esoterico e necessitante: la sua azione ha un motivo costruttore imperiale e il suo movente è da ricercare tra le quinte della storia, dietro i più decisivi avvenimenti, dietro le grandi conquiste dei popoli, non certo nelle caterve libresche e attraverso il freddo, arido esame morfologico. Sarebbe compito lungo epiegare a coloro che non sanno e non vogliono capire, il senso della tradizione romana; tuttavia, già sarebbe molto se cominciassero ad intendere che non è quella cui ossi si riferiscono dialetticamente.

Per il suo senso univoco ed universale, la Tradizione è al disopra di qualsiasi settario dialettismo: essa non si rimpicciolisce in aspetti diversi, ma comprende ogni aspetto: essendo occidentale e romana, essa dà significato anche alla latinità. Per virtù di forze di individui superiori e per fatale necessità, sempre Roma rimane centro del maestoso ciclo di lotte e di trionfi dell'Occidente: la sua virtù d'irradiazione di energie spirituali e la sua funzione di scaturigine di ogni corrente organizzatrice in Europa, hanno soprattutto valore simbolico, sia rispetto al valore di determinazione dello spazio (è proprio questo uno degli argomenti che vorrebbero impugnare gli assertori della bastarda latinità), sia rispetto alla virtuale progressività del tempo: in altre parole, un'essenza non è superiore in quanto spazialmente originata dall'Urbe, ma in quanto scaturita dall'anima dell'Urbe: ciò che è grande è romano, non rettoricamente, ma in quanto, in rapporto ad una indistruttibile etica occidentale, collaterale, come rispondente manifestazione, alla segreta e dominante tradizione mediterranea, non può, per i suoi caratteri di precisione, di potenzialità plasmatrice, di volontà costruttiva, che essere ispirata da Roma.

L'unità latina dei popoli fu una creazione possente operata da Roma: non sarebbe esistita, non avrebbe avuto forza di amalgamazione e di luminosa fecondità, se la virtù segreta dell'imperium, tradotta in orditura di azioni, more pontificali e per forza della tradizione guerriera, non avesse conferito fisionomia all'Occidente: senza la solennità necessitante e metafisica di « cose fatali », di oggetti di culto ereditati dal nume o dal potere numinico di antiche città mediterranee, senza il possesso di un nome segreto che legava una forza divina al destino dell'Urbe, senza la propiziazione di intelligenze soprannaturali compiuta dai sacerdoti, dai flamini e dal pontefice massimo, senza le cerimonie misteriche, senza l'azione sacrificale e il rito alla vigilia delle grandi guerre e delle decisive battaglie, senza la presenza di un genius eroico-guerriero che diviene ispirazione di ogni evento romano — elementi, tutti questi, componenti ls grande trama dell'autentica tradizione — non si sarebbe mai potuto parlare di una tradizione latina, nè di una spiritualità latina, nè di una neolatinità delle lingue, quale segno del permanere di una cultura latina.

Condizione della latinità è dunque il promanare da Roma: in ogni punto in cui la latinità si distacchi dalla tradizione romana, essa ritorna barbarie: tale riteniamo sia il caso dell'odierno comunismo di Nazioni latine. D'altro canto, il sussistere di un pensiero latino non è un fatto particolare proprio a una esperienza nuova, ma l'aspetto relativo alla permanenza assoluta di una spiritualità romana. L'essenza della latinità è il retaggio di una tradizione che permane identica, estranea a tutte le degenerazioni di razze che pure ebbero il dono della sua luce: ciò giova fissare una volta per tutte.

Le autentiche virtù latine non sono emanazioni casuali di forze connesse ad umane e contingenti finalità, non possono essere distaccate da un piano di azione « metafisica » ove cessano di avere significato le sterili controversie dialettiche e materialistiche: esse agiscono per un potere che ha carattere super-temporale e supernazionalistico, ossia per un potere d'organizza rione identico a quello che Roma adottò a fine d'unificare e armonizzare, con una morale integrativa e con un sano corpo di leggi, tutto l'Occidente. Avulsa da tale senso sovrammateriale, ossia fuori di una tradizione romana, la latinità non è più tale, è degenerazione: può anche diventare comunismo spagnolo, sovversivismo francese.

Un altro degli errori comuni a quegli storici d'oltralpe che non solo ignorano l'esistenza di una tradizione esoterica di Roma, ma tentano altresì di svalutare il significato della sua imperialità, è ritenere che la conquista romana arrestasse lo sviluppo naturale dell'antica civiltà celtica la quale avrebbe forse potuto, verso il secondo secolo, fare della Francia una grande Nazione. Ora, a parte la grossolanità di queste forme di fantasticheria storica, ad evitare di cadere in tale vieto errore, è sufficiente tener conto che all'epoca in cui Cesare conquistò la Gallia, questa stirpe aveva già dato tutto quello che poteva dare, anzi, secondo l'opinione degli stessi assertori di una spiritualità occidentale originaria nel Nord, lo spirito celtico a quel tempo si trovava nella sua fase finale, così che la razza non appariva più depositaria di una tradizione supe riore, ma ritornata a forme primitive di cultura. Una serie di positivi elementi si potrebbe riportare ad attestare la decadenza dello spirito celtico all'epoca dell'avvento romano: non essendoci consentito dalla limitatezza dello spazio, ci basti ricordare che si dovè a Cesare la difesa della Gallia dalle invasioni germaniche e che proprio un poeta gallo, con espressioni di entusiastica gratitudine, inalzò lodi a Roma che aveva redento con la sua civiltà tutto l'Occidente.

Voler negare una spiritualità a Roma significa negare la sua stessa storia quale elementarmente ed esteriormente viene da tutti conosciuta: basta dal nudo fatto risalire alla causa determinante, per giungere alla identificazione di un alto sistema di idealità che non furono soltanto politiche e guerriere, ma superumane e trascendenti. Proprio in virtù di una tradizione superiore, Roma potè affermare tra i popoli attraverso il costume guerriero il suo modo di vita, non limitato da una visione materialistica del mondo, ma attuato in vista di un piano superumano da conquistare.

Il torto maggiore circa l'equivoco sulla spiritualità romana è da attribuirsi alla gran parte degli storici, la quale non si preoccupa che di ritrovare l'organicità e la continuità di una serie di fatti, di particolari, di date e di nomi, allo scopo esclusivo di compilare una minuziosa riesumazione degli avvenimenti. Ma il senso di questi si è perduto: ciò di cui essi erano significato ed emanazione, la potenza rituale, l'azione segreta, il motivo intimo di ogni iniziativa e di ogni conquista, non sono più compresi: si ha soltanto un retaggio di parole e l'illusione di aver potuto ricostruire l'essenza della « romanità » attraverso l'annale, la cronistoria, la epigrafe e il rudere.

Il compito di una ricostruzione della storia di Roma implica non pure la necessità di una definitiva dimostrazione del perenne riferimento spirituale di tutta l'azione guerriera, ma anche la identificazione di una « tradizione romana » la cui forma è conoscibile soltanto attraverso la comunione superstorica, d'indole psicologica, con un ciclo di cultura a sè stante, per virtù di una dignità interiore del tutto estranea allo spirito accademico e di là dalla semplice erudizione universitaria.

Infine non sarà mai sufficientemente ricordato, a penniferi di tal conio, che il limitato sviluppo dell'arte e della filosofia è un fatto naturale in una civiltà che sorge, in quanto la sua azione, per essere pienamente tale, si mantiene fedele a superiori principii dello spirito che costituiscono l'essenza della sua Tradizione, nè s'irretisce in formule culturali, ma tende ad attuare un sistema di vita, in atto di uno stato di vita superiore da raggiungere attraverso ogni atto: il che costituisce la più alta forma di spiritualità, al disopra di ogni rettorica o concezione astratta. Roma, in questo senso, è ancora una volta maestra, allorchè insegna come anzitutto importi quel modo di vita maschio e realizzatore, che è manifestazione di una vitalità interiore operante, sintesi di spiritualità e azione, e che conduce alla effettiva realizzazione di un regime imperiale, dopo la quale, in pienezza di potenza, i civilizzatori possono dedicarsi a quella prima forma d'arte aderente all'azione e inspirata ad un senso di « necessità » che è l'architettura. È evidente che se i Romani avessero cominciato con l'essere filosofi ed artisti, ci avrebbero lasciato un retaggio semplicemente libresco, nè avrebbero avuto il potere di unificare un continente, nè sarebbero stati depositari di quella Tradizione che visse in quanto essi ritualmente agirono e vinsero. Essi tradussero in trame di forza e di armonie imperiture ciò che dall'alto, per naturale virtù, fu loro trasmesso: un fato superiore la cui azione si manifestò imperiosa e ineluttabile, i cui segni costanti nella pietra e negli edifizi, come nell'anima delle genti, esclude assolutamente che ciò si sia dovuto a una serie di combinazioni esteriori o alla semplice forza bruta.

Se è vero che durante il ciclo di Roma non emersero, come nell'Ellade, costruzioni dell'anima estetico-filosofica, quali l'idealismo platonico, la metafisica di Aristotile, le opere di Prassitele, la medicina d'Ippocrate, le intuizioni astronomiche di Aristarco di Samo, la dialettica di Diodoro di Jaso; è peraltro innegabile che proprio attraverso lo spirito di universalità essenzialmente romano la cultura greca si propagò in Occidente, acquistando un carattere didascalico-dottrinario cui la Roma imperiale annesse una certa importanza educativa.

La spiritualità romana ebbe, d'altro canto, una forza unificatrice più attiva di quella di una semplice cultura, allorchè l'Urbe, per redimere in ordine politico l'impulso irrazionale proprio della vita stessa dei barbari sottomessi, conferi ad essi organismi legislativi che tuttora permangono in Europa, e fece intendere essere un privilegio civile, un premio ambito, il venir governati da Roma. La quale inoltre, a dare ampio respiro di vita ai popoli vinti, elevò nei loro Paesi grandi monumenti architettonici, eresse templi insigni per arte e per le divinità cui erano consacrati, dischiuse vaste vie di comunicazione al commercio internazionale, protesse il lavoro e l'economia, suscitò quell'ordine organico da cui scaturì l'« immensa pace » che Plinio il Vecchio esaltava, formulando l'augurio che « si rendesse eterno il bene della civiltà romana, apportatrice di nuova luce nel mondo ».