Saturday 3 March 2012

Discorso al Senato, 16 febbraio 1923

La nuova politica estera

di Benito Mussolini

Onorevoli senatori!

Dopo aver scritto le prefazioni e le introduzioni ai disegni di legge e dopo il discorso pronunciato nell'altro ramo del Parlamento, non credo che ci siano ancora troppe cose da dire. La stessa rapidità della discussione sta a testimoniare che tutti questi trattati, che tutti questi accordi, sono in certo senso già ampiamente scontati. Con ciò non voglio negare l'importanza di questi trattati e di questi accordi, ma si tratta di accordi e di convenzioni che risalgono a molto tempo fa e la vita oggi va straordinariamente in fretta.

Non vi nascondo che, continuando la teoria infinita delle conferenze, i popoli hanno ragione di manifestare un certo scetticismo sui risultati delle medesime.

Il senatore Crespi ha cercato di portare la discussione su un terreno d'ordine generale: il terreno scottantissimo dei debiti e delle riparazioni. Il senatore Crespi chiede dei fatti nuovi. Non ce ne sono. E forse non ce ne possono essere. L'appello del senatore americano Borah non ha una eccessiva importanza.

Mi sono informato e ho saputo che si tratta di un capo gruppo di uno dei tanti partiti della Repubblica stellata: questo non gli dà ancora titoli sufficienti perché io debba precipitarmi a raccogliere i suoi più o meno fantastici appelli. Se domani elementi responsabili di Governo, e specialmente dei Governi interessati e impegnati in conflitti, si rivolgessero all'Italia, che è l'unica Nazione del mondo che in questo momento fa una politica di pace, non esiterei un minuto solo a rispondere all'appello.

C'è un fatto nuovo, sul quale conviene di riflettere, ma è un fatto nuovo che gela piuttosto che accendere gli entusiasmi; e il fatto nuovo è questo: che l'Inghilterra e gli Stati Uniti si sono messi d'accordo e l'Inghilterra si è impegnata a pagare il suo debito verso gli Stati Uniti. Non c'è quindi da nutrire soverchia illusione sulla possibilità di avere una cancellazione dei nostri debiti. Sarebbe giustissimo, io penso, da un punto di vista di stretta e assoluta moralità, ma i criteri e i principi nell'assoluta moralità non guidano ancora le relazioni dei popoli.

Si è detto in un Parlamento straniero che l'Italia aveva tentato una mediazione tra la Francia e la Germania: non esiste un tentativo siffatto. Il mio dovere era quello di procedere a un sondaggio e a una indagine, e l’ho fatto. Questo era il mio dovere; ma quando dal sondaggio e dall’indagine fatta nelle capitali europee mi sono accorto che in quella direzione non sipoteva marciare non ho insistito: avrei commesso un gravissimo errore.

D’altra parte, io penso che la crisi è giunta a un punto culminante; si tratta di sapere se c’è e ci sarà ancora un’intesa. Non credo di svelare misteriosi arcani se dico che quello che balza agli occhi di quanti leggono le semplici cronache dei giornali. Non c’è un solo avvenimento, non c’è una sola questione davanti alla quale non si ponga il problema dell’unità d’azione dell’Intesa. In questa situazione politica di necessità non si possono improvvisare dei gesti, meno ancora delle originalità.

Tutte le diplomazie, non esclusa quella russa, che è di un formalismo e di un procedurismo raccapricciante, tutte le diplomazie sono in questo momento guardinghe e circospette; non c’è ragione perché l’Italia debba fare qualcosa di diverso.

Quando si tratta degli interessi della nostra nazione, quando ritratta degli interessi di quaranta milioni di abitanti, che hanno diritto di vivere, bisogna andare adagio nelle improvvisazioni e bisognatenere conto che oltre alla nostra volontà, ci sono le volontà degli altri.

Se noi avessimo dei bacini carboniferi, se noi avessimo in qualche modo risolto il problema delle materie prime, se noi disponessimo di larghi depositi aurei a sostegno della nostra valuta, potremmo seguire una data politica, magari la politica della generosità verso la Germania; ma noi non ci possiamo permettere il lusso della prodigalità e della generosità quando stentiamo a trar la vita, quando dobbiamo raccogliere tutte le nostre energie per evitare l’abisso. E allora voi convenite, onorevoli senatori, che l’Italia non poteva restare assente nel bacino della Ruhr, non poteva cioè negarsi e negare una partecipazione di ordine economico e tecnico.

E’ meglio a mio avviso essere sempre presenti, poiché, qualche volta, dei complicati problemi hanno delle soluzioni impensate, e non si poteva correre capricciosamente il rischio di non essere presenti nel caso – tutt’altro che improbabile – di un accordo sul terreno economico – ferro e carbone- tra la Francia e la Germania.

Venendo agli accordi di Santa Margherita, io comprendo perfettamente l’angoscia e il dolore che traspariva dalle parole dei senatori Tamassia e Tivaroni. Certamente il sentimento è una forza spirituale grandissima, e negli individui e nei popoli, ma non può essere l’unico o l’esclusivo motivo dominante della politica estera. Bisogna avere il coraggio di dire che l’Italia non può eternamente rimanere inchiodata in un solo mare, sia pure esso il mare Adriatico. Oltre il mare adriatico c’è il Mediterraneo e ci sono altri mari che possono interessarci.

Il trattato di Rapallo fu, a mio avviso, una lamentevole transazione che era essa stessa il risultato di una situazione interna difficile, e di una politica estera che non brillava per eccesso di autonomia.E qui mi sia concesso di ripetere che non si può fare una polita estera di stile, di dignità, e di fermezza, se la Nazione non dà quotidianamente spettacolo di ferrea disciplina.

Io non credo che questi accordi di Santa Margherita segnino la morte di Zara, e della Dalmazia. Intanto, con le ultime concessioni, abbiamo salvato l’impiegao della lingua italiana per quei nostri fratelli. Ora, mi pare che fosse Gioberti il quale diceva che ove la lingua ivi è nazione; per cui, se quei nostri fratelli potranno parlare e scrivere e imparare nella mdre lingua italiana credo che uno degli elementi fondamentali della loro italianità sarà salvo.

L’italianità di Zara e della Dalmazia ha resistito durante decenni a tentativi ferocissimi di snazionalizzazione tentata dall’impero absburgico. Allora l’Italia non poteva dare un soccorso vivo e forte ai nostri fratelli; oggi – voi lo notate – la Nazione ha un’altra coscienza di se stessa.

Quei nostri fratelli che potevano sentirsi dimenticati qualora gli accordi di Santa Margherita fossero stati applicati da un altro governo, non possono pensare la stessa cosa, quando la definitiva e necessaria esecuzione del trattato di Rapallo venga fatta dal Governo che ho l’onore di presiedere, del quale sono membri gli artefici della vittoria.

Noi crediamo fermamente che l’applicazione leale e scrupolosa da parte nostra, come leale e scrupolosa dovrà essere da parte della Jugoslavia, degli accordi di santa Margherita, salverà l’italianità di Zara e della Dalmazia.

Non ho bisogno di ripetere che i trattati sono delle transazioni che presentano degli accordi, dei punti di equilibrio; nessun trattato è eterno, quello che accade sotto i nostri occhi è altamente ammonitore.

Non vale quindi la pena di seguire il senatore Scialoja nel constatare l’imprefezione giuridica di alcune parti di questi accordi. Io credo che, se l’onorevole Scialoja avesse lui stesso elaborato questi accordi, si sarebbe trovato un altro giurista capace di scoprire che non erano ancora perfetti.

Noi applicheremo dunque lealmente e rapidamente questi accordi.Non bisogna credere che la terza zona sia una specie di continente vastissimo e che abbiamo in essa delle forze ingentissime; si tratta di un territorio che circonda Zara e di un gruppo di isole; in totale non abbiamo là che 120 carabinieri, 18 guardie di finanza e 20 soldati.

A Sussak abbiamo un battaglione di fanteria. Si tratterà di farlo ripiegare sulla linea dell’Eneo, perché sino a quando non si sappia che cosa sarà Fiume, il Delta e Porto Baros rimangono presidiate da truppe italiane.

Che cos’è questa Commissione paritetica o paritaria che dir si voglia? E’ il tentativo, starei per dire una specie di forcipe, col quale o attraverso il quale deve uscire, più o meno vitale, quella creatura che si pensò a Rapallo, cioè lo stato indipendente di Fiume. Certo è questo: che noi abbiamo tre italiani in questa commissione paritetica. Certo è questo: che non è proprio assolutamente necessario che Fiume diventi la settantacinquesima provincia del regno, che a Fiume ci sia veramente il prefetto: questo per me è secondario. Per me è importante che Fiume abbia la sua anima italiana, che abbia il suo spirito intatto, che Fiume resti italiana e nello stesso tempo si trovino accorgimenti o transazioni tali che facciano di Fiume una città che viva in se stessa e per se stessa, e non soltanto attraverso le elargizioni dello Stato italiano.

Il Governo, che qualche volta fa precedere i fatti alle parole, ha già preso provvedimenti per Zara; provvedimenti di indole economica, provvedimenti di indole politica e spirituale. Altrettanto ha fatto per la Dalmazia.

Bisogna che riconosca con tutta franchezza che dall’avvento del governo fascista, gli jugoslavi sono stati meno intransigenti nei nostri riguardi.

Non è dubbio che la definitiva esecuzione del trattato di Rapallo è motivo di fiero dolore per i fiumani, per i zaratini, per i dalmati e per moltissimi italiani del vecchio Regno.In un altro momento ci sarebbero state forse delle difficoltà.

Il Governo che ho l'onore di presiedere non evita le difficoltà: le affronta, starei per dire che le cerca.Io intendo di sistemare nel più rapido tempo possibile tutte, le eredità più o meno fortunate della nostra politica estera.

Non bisogna allarmarsi per quello che succede. Io ho della storia e della vita una concezione che oserei chiamare romana. Non bisogna mai credere all'irreparabile. Roma non credette all'irreparabile neppure dopo la battaglia di Canne, quando perdette il fiore delle sue generazioni; anzi ognuno di voi certamente ricorda come il Senato romano movesse incontro a Terenzio Varrone, il quale, pure avendo voluto impegnare la battaglia contro il parere di Paolo Emilio, era certamente uno dei responsabili della disfatta.

Roma cadeva e si rialzava: camminava a tappe, ma camminava; aveva una mèta e si proponeva di raggiungerla.

Così dev'essere l'Italia, la nostra Italia, l'Italia che portiamo nei cuori nostri come un sogno orgoglioso e superbo; l'Italia che accetta il destino quando le viene imposto da una situazione di dura necessità mentre prepara gli spiriti e le forze per poterlo un giorno dominare.

Propongo che il Senato, dopo avere esaurito la discussione del disegno di legge sulla caccia, sospesa ieri sera, si aggiorni.

Non so quanto durerà questo aggiornamento; bisognerà che il Governo sia lasciato libero di lavorare, di preparare del lavoro per la Camera dei deputati e per il Senato.

Intanto mi preme di ringraziare S. E. il Presidente che ha retto i lavori di questa Assemblea con quel tatto e quell'alta sapienza che ognuno gli riconosce. Sono lieto che il Senato, approvando tutti i trattati di commercio e tutti i trattati politici, che sono due aspetti di una stessa politica, abbia condotto alla sistemazione di una parte della nostra politica estera.

Prego S. E. il Presidente di gradire l'attestazione della mia più alta simpatia. (Vivi applausi).