Saturday, 3 March 2012
Discorso al Senato, 27 novembre 1922
di Benito Mussolini
Onorevoli Senatori!
Ho ascoltato con vivo interesse e meditata attenzione tutti i discorsi che sono stati pronunciati in quest'aula i quali discorsi hanno prospettato diversi argomenti; i ministri chiamati direttamente in causa potranno rispondere sulle singole questioni; io mi limiterò a ribattere alcune affermazioni che si possono chiamare di ordine generale. Certamente se il voto del Senato sarà unanime la cosa mi farà piacere ma non dovete credere che l'unanimità mi lusinghi eccessivamente. Molti di coloro che in questi ultimi giorni solidarizzano più o meno clamorosamente con me li ho in vivo dispetto. Si tratta spesso di anime o animule che vanno dalla parte dove spira il vento favorevole salvo poi a precipitarsi dalla parte opposta quando il vento cambi direzione. Agli amici ambigui preferisco avversari vivi e sinceri.
Di tutti i discorsi pronunciati in quest'aula alcuni assumono particolare rilievo; ad esempio il discorso del senatore Conti a fondo ottimista mi ha ricordato l'analogo discorso a fondo ottimista pronunciato nell'altro ramo del Parlamento dall'onorevole Buozzi. È singolare e certamente di buon auspicio questa valutazione che chiamo ottimista delle condizioni economiche italiane che parte da un capo del proletariato e da un capitano della grande industria italiana.
Debbo una risposta particolare al senatore Albertini. Io ammiro la sua ferma fede di liberale puro; ma mi permetto di ricordare al senatore Albertini che il liberalismo è figlio di ben due rivoluzioni; mi permetto di ricordare al senatore Albertini che il costituzionalismo in Inghilterra il liberalismo in Francia insomma tutto il complesso di idee e di dottrine che prendono il nome di liberalismo e che di loro informano il secolo XIX escono da un Serissimo travaglio rivoluzionario dei popoli e senza questo Serissimo travaglio probabilmente oggi il senatore Albertini non avrebbe potuto tessere l'elogio del liberalismo puro.
Come si poteva uscire da questa crisi interna che diventava ogni giorno più angosciosa e preoccupante?
Un Ministero di transazione o di transizione non era più possibile non risolveva il problema lo dilazionava appena. Di lì a due o tre mesi o sei mesi con quella mutevolezza di sentimenti di appetiti che caratterizza certi ambienti parlamentari ci saremmo trovati al punto di prima con un'esperienza fallita che avrebbe aggravato la crisi. Allora io dopo aver lungamente meditato dopo aver constatato il paradosso ironico sempre più evidente di due Stati uno dei quali era l'attuale mentre l'altro era uno Stato che nessuno riusciva più a definire mi sono detto ad un certo momento che solo il taglio chirurgico netto e nettamente osato poteva fare di due Stati uno Stato solo e salvare le fortune della Nazione.
Il senatore Albertini non deve credere che tutto ciò non sia stato oggetto di lunga meditazione; non deve credere che io non mi sia in anticipo rappresentati tutti i pericoli tutti i rischi di questa azione illegale. E l'ho voluta io deliberatamente: oso dire di più l'ho imposta.
Non c'era a mio avviso altro mezzo per immettere forze nuove in una classe politica che pareva enormemente stanca e sfiduciata in tutte le sue gerarchie se non il mezzo rivoluzionario; e siccome l'esperienza insegna qualche cosa o dovrebbe insegnare qualche cosa agli uomini intelligenti io posi subito dei confini dei limiti delle regole.
Non sono andato oltre ad un certo segno non mi sono ubriacato minimamente della vittoria non ne ho abusato.
Chi mi impediva di chiudere il Parlamento? Chi mi impediva di proclamare una dittatura di due tre o cinque persone? Dove era qualcuno che mi avesse potuto resistere che avesse potuto resistere ad un movimento che non era di 300.000 tessere ma era in quel momento di 300.000 fucili? Nessuno.
Sono stato io che per carità di Patria ho detto che bisognava subordinare e impulsi e sentimenti ed egoismi agli interessi supremi della Nazione ed ho subito immesso questo movimento sui binari della costituzione.
Ho fatto un Ministero con uomini di tutte le parti della Camera non ho avuto scrupolo di metterci dentro un membro del vecchio Ministero; guardavo ai valori tecnici non mi interessavano tanto le etichette politiche.
Ho fatto un Ministero di coalizione l'ho presentato alla Camera ho chiesto il voto il giudizio della Camera. Ho pensato che la Camera quella Camera fosse un poco cambiata. Quando mi sono accorto che 38 oratori avevano presentato 36 ordini del giorno allora mi sono detto che non è forse necessario abolire il Parlamento ma che il Paese gradirebbe assai un certo periodo di astinenza parlamentare. Non ho dunque intenzione di abolire la Camera di abolire tutto ciò che è il risultato ed il frutto della rivoluzione liberale.
Io posso valutare tutto ciò filosoficamente da un punto di vista che si potrebbe chiamare negativo; ma la filosofia deve tacere di fronte alle necessità politiche. Ma intendiamoci che cosa è questo liberalismo questa pratica del liberalismo? Perché se c'è qualcuno che ritiene che per essere perfetti liberali occorre dare la libertà a qualche centinaio di incoscienti di fanatici di canaglie la libertà di rovinare 40.000.000 di italiani io mi rifiuto energicamente di dar questa libertà.
Signori non ho feticci e quando si tratta degli interessi della Nazione non ho nemmeno il feticcio della libertà. Ecco perché quando mi si è parlato della libertà di stampa io che son giornalista ho detto che la libertà non è solo un diritto ma è un dovere; e quello che è successo dopo in certi giornali romani mi dimostra esattamente che qualche volta si dimentica che la libertà è un dovere; ragione per cui il Governo ha diritto di intervenire; se non lo facesse sarebbe insufficiente la prima volta ed in seguito sarebbe suicida.
Non intendo uscire dalle leggi non intendo uscire dalla costituzione non intendo di improvvisare del nuovo: l'esempio delle altre rivoluzioni mi insegna appunto che non si può dar fondo all'universo e che ci sono dei punti fondamentali nella vita dei popoli che conviene rispettare. Ma io intendo che la disciplina nazionale non sia più una parola intendo che la legge non sia più un'arma spuntata intendo che la libertà non degeneri in licenza e non intendo nemmeno di essere al disopra della mischia fra coloro che amano che lavorano e che sono pronti a sacrificarsi per la Nazione e coloro che invece sono pronti a far tutto il contrario.
È di questo rollandismo di questo insulso rollandismo che il Governo di ieri è perito; non si può stare al disopra della mischia quando sono in giuoco i valori morali fondamentali della società nazionale; e nessuno può dire che una politica nazionale siffattamente intesa sia reazionaria.
Io non ho paura delle parole; se domani è necessario mi proclamo il principe dei reazionari; per me tutte queste terminologie di destra di sinistra di conservatori di aristocrazia o democrazia sono vacue terminologie scolastiche; servono per distinguerci qualche volta o per confonderci spesso.
Non vi sarà una politica antiproletaria e non vi sarà per ragioni nazionali né per ragioni di altro ordine. Noi non vogliamo opprimere il proletariato ricacciarlo verso condizioni di vita arretrate e mortificanti; anzi vogliamo elevarlo materialmente e spiritualmente ma non già perché noi pensiamo che il numero la massa la quantità possa creare dei tipi speciali di civiltà nell'avvenire; lasciamo questa ideologia a coloro che si professano sacerdoti di questa misteriosa religione.
Le ragioni per cui vogliamo fare una politica di benessere del proletariato sono affatto diverse e ricadono nell'ambito della Nazione; ci sono dettate dalla realtà dei fatti dal convincimento che non ci può essere una Nazione unita tranquilla e concorde se i nostri tre o quattro milioni di operai sono condannati a condizioni di vita disgraziata insufficienti; e può darsi anzi è certo che la nostra politica operaia antidemagogica perché non possiamo promettere i paradisi che non possediamo riuscirà in definitiva assai più utile alla massa lavoratrice dell'altra politica che l'ha incantata e mistificata nell'attesa inutile e vana dei miraggi orientali.
Cosa farete mi si domanda dell'organizzazione militare del fascismo? Questa organizzazione militare ha dato a Roma uno spettacolo meraviglioso. Vi erano esattamente 52.000 camicie nere che hanno lasciato Roma nel termine da me prescritto di 24 ore. Obbediscono; oserei dire che hanno il misticismo dell'obbedienza. Non intendo di dissolvere e di vaporizzare queste forze vive non solo ai fini del Fascismo ma ai fini della Nazione.
Quello che io imporrò al Fascismo sarà la fine di tutte quelle azioni che non hanno più ragione di essere la fine di tutte le piccole violenze individuali e collettive che mortificano un po' tutti che sono spesso il risultato di situazioni locali che malamente si potrebbero inquadrare nelle grandi linee dei grandi partiti e sono sicuro che quello che si potrebbe chiamare illegalismo fascista che oggi è in grandissima confortante diminuzione finirà completamente. Qui è una delle condizioni di quella pacificazione cui alludeva il mio amico sen. Bellini. Ma bisogna perché questa pacificazione avvenga che anche dall'altra parte si rinunci agli agguati ed alle imboscate.
Io ringrazio il Senato di non aver molto insistito sulla politica estera. Io sono particolarmente lieto che il Fascismo tutto abbia accettato con entusiasmo il mio fermo proposito quello che riguarda l'applicazione dei trattati perché se io non ammetto l'illegalismo nella politica interna meno ancora lo ammetterò nella politica estera; ciò sia ben chiaro per tutti dentro e fuori di quest'aula.
La politica estera sarà fatta da un solo Stato quello che ho l'onore di rappresentare e di dirigere io perché non ci può essere diffusione e dilatazione di responsabilità all'infinito e la politica estera è cosa troppo gelosa troppo delicata e formidabile perché possa essere gettata in pascolo a tutti quelli che non hanno niente di meglio da fare.
Posso dire all'on. Barzilai che io conserverò il ministero degli esteri; in fondo il ministero dell'interno è un ministero di polizia; sono lieto di essere il capo della polizia non me ne vergogno affatto anzi spero che tutti i cittadini italiani dimenticando certi atavismi inutili riconosceranno nella polizia una delle forze più necessarie alla convivenza sociale.
Ma soprattutto intendo di fare della politica estera che non sarà avventurosa ma non sarà nemmeno rinunciataria; certo in questo campo non c'è da aspettare il prodigio perché non si può cancellare in un colloquio sia pur drammatico di mezz'ora una politica che è il risultato di altri elementi e di un altro periodo di tempo. Io credo che nella politica estera si debba avere come ideale il mantenimento della pace; ideale bellissimo specie dopo una guerra durata quattro anni.
Quindi la nostra politica non sarà la politica degli imperialisti che cercano le cose impossibili; ma sarà una politica che non partirà sempre necessariamente dalla pregiudiziale negativa per cui non si dovrebbe mai ricorrere all'uso della forza. È bene tener presente questa possibilità: non si può scartarla a priori perché allora voi sareste disarmati dinanzi alle altre nazioni.
Ma non mi faccio illusioni perché per il mio temperamento disdegno tutti gli ottimismi facili; tutti quelli che vedono sempre il mondo in rosa qualche volta mi fanno ridere spesso mi fanno pietà. Io credo però di essere riuscito già a qualche cosa e credo che non sia poco che non sia scarso risultato: sono cioè riuscito a far capire agli Alleati e forse anche ad altri popoli di Europa i quali erano evidentemente rimasti ad un'Italia che ci appare alquanto vagamente preistorica all'Italia dei musei e delle biblioteche — tutte cose rispettabilissime — i quali non avevano forse ancora l'esatta visione di un'Italia quale è quella che io vedo nascere sotto i miei occhi: un'Italia gonfia di vita che si prepara a darsi uno stile di serenità e di bellezza; un'Italia che non vive di rendita sul passato come un parassita ma intende di costituire con le sue proprie forze col suo intimo travaglio col suo martirio e colla sua passione le sue fortune avvenire.
Questa è l'Italia che è balenata ma forse non tanto vagamente davanti a coloro che rappresentavano le altre nazioni e che d'ora innanzi dovranno convincersi lo vogliano o non lo vogliano che l'Italia non intende di seguire il carro degli altri ma intende rivendicare dignitosamente tutti i suoi diritti e intende non meno dignitosamente difendere tutti i suoi interessi.
Tutti coloro che hanno parlato in quest'aula mi hanno ammonito e mi hanno detto: la responsabilità che voi vi prendete è certamente grave è enorme. Sì lo so lo sento; qualche volta il senso di questa responsabilità aggravata da una attesa così profonda e vibrante mi dà un senso di asfissia e di schiacciamento; allora io debbo evocare tutte le mie forze richiamare tutta la mia volontà tenere presenti al mio spirito i bisogni e gli interessi e l'avvenire della Patria.
Ebbene lo so non è la mia persona che è in giuoco. Certo se io non riesco sono un uomo finito; non sono esperimenti che si possano tentare due volte nella stessa vita; ma la mia persona vale pochissimo. Il non riuscire non sarebbe grave per me ma potrebbe essere infinitamente grave per la Nazione e allora io intendo di dirigere il timone della barca — e non lo cedo a nessuno — ma non mi rifiuterò di caricare tutti coloro che vorranno costituire la mia bellissima ciurma tutti coloro che vorranno lavorare con me che mi vorranno dare consigli e suggerimenti che vorranno insomma fornirmi un'utile necessaria collaborazione.
Nell'altro ramo del Parlamento ho invocato Iddio; in questo — non sembri un contrasto cercato dall'oratoria — invoco il popolo italiano. Qui potrei riaccostarmi a Mazzini che di Dio e del popolo aveva fatto un binomio ma se il popolo sarà come io lo spero e come io lo vorrò disciplinato laborioso fiero di questa sua terza e meravigliosa rinascita io sento che non fallirò alla mia meta.