Sunday 4 March 2012

Discorso al Senato, 5 giugno 1928


di Benito Mussolini

L'ultima volta che ebbi, onorevoli Senatori, l'onore di parlare dinanzi a voi in tema di politica estera, fu nella seduta del 28 maggio 1926. Sono passati esattamente due anni. Il mio discorso di allora fu breve e si limitò a rispondere a talune osservazioni di vostri colleghi, che avevano interloquito sul Bilancio degli Esteri. Il discorso che intendo pronunciare, oggi, sarà molto più ampio: e necessariamente analitico, perché mi propongo di passare in rassegna tutte le posizioni di politica estera che l'Italia ha nel mondo, a cominciare dalle più lontane, per finire alle più vicine. Dato che l'Italia è, oggi, una Potenza mondiale, cioè ad interessi non limitati a un dato settore o continente, la rassegna comincerà dall'Asia e attraverso l'Africa e l'America, si concluderà in Europa. Prospetterò, quindi, talune questioni d'ordine generale come il disarmo, le riparazioni, la Società delle Nazioni e infine parlerò degli strumenti dell'Amministrazione degli Esteri.

Un paese che nell'Estremo Oriente addimostra il più vivo interesse per le vicende italiane e gli attuali ordinamenti politici dell'Italia, è il Giappone. I rapporti fra i due Governi e si può dire fra i due popoli, sono molto cordiali. Il volume degli scambi commerciali è modesto. Tuttavia nel 1927 sono state importate dal Giappone in Italia merci per un valore globale di 119 milioni di lire circa e dall'Italia in Giappone sono state esportate merci per un valore di 19 milioni di lire circa, rappresentate in massima parte da mercurio, automobili, marmi.

Particolarmente interessante anche per l'Italia è la situazione della Cina le cui lotte interne tengono desta l'attenzione diplomatica e pubblica del mondo. La situazione dopo un biennio di guerre civili, complicate da un tentativo di sollevazione bolscevica che appare oramai completamente liquidata, la situazione, dicevo, è ancora caotica ed oscura. Grosso modo, la Cina del Nord fa capo al Maresciallo Cian-Tso-Lin, le provincie meridionali si raccolgono attorno al Governo Nazionale di Nankino. In mezzo ci sono dei governatori locali che agiscono per loro conto e non obbediscono praticamente né al Nord né al Sud.

Un momento drammatico di questa lotta si ebbe nel settembre-dicembre 1926, quando l'Inghilterra perdette la sua concessione di Han Kow. Fu in quel periodo che le Potenze europee, con interessi cinesi, ritennero necessario inviare dei rinforzi e stabilire una specie di fronte unico europeo. Il Governo che aveva già in Cina le Regie Navi Libia, Caboto e Carlotto, mandò due navi da guerra, il Volta e il Muggia. Poiché la situazione ha aspetti di cronicità, con bruschi e sanguinosi sussulti come quello che ha provocato in questi giorni l'intervento del Giappone nello Sciantung, il Volta è stato richiamato. I marinai italiani hanno adempiuto in tutte le circostanze il loro dovere. Attualmente ci sono in Cina i seguenti contingenti militari italiani: 80 uomini di guardia alla Legazione di Pechino, 300 uomini del Battaglione Tien-Tsin e 80 del contingente di Shangai. È assai malagevole determinare quale sia il significato profondo delle guerre civili cinesi e quale sbocco possano avere. Non bisogna passare in silenzio l'ipotesi avanzata che attraverso queste lotte, la Cina possa raggiungere l'unità dello Stato, con un blocco di oltre 400 milioni di uomini.

Tra l'Italia e la Cina esiste un Trattato di amicizia, di commercio e di navigazione che risale al 1866 e che la Cina può chiedere di rivedere - nella parte commerciale - dal 1° luglio al 31 dicembre dell'anno in corso. Trattati analoghi esistenti col Belgio e colla Spagna sono stati però denunciati per intero. Le conseguenze di tale denuncia potrebbero essere di una certa gravità per quanto concerne i nostri istituti bancari e commerciali e ben undici vicariati apostolici italiani, che d'altra parte siamo decisi a salvaguardare possibilmente con un'intesa amichevole. Non si può parlare della Cina senza accennare alla Concessione Italiana di Tien-Tsin popolata da circa 7500 individui, dei quali 150 italiani, 7000 cinesi e il resto di altre nazioni. L'importanza politica e morale di questa sentinella avanzatissima della civiltà italiana nell'Estremo Oriente, è palese. Vi interesserà, forse, di sapere, onorevoli Senatori, che il bilancio della Concessione è modesto, ma si chiude con un attivo di oltre 600.000 lire.

Ritornando e concludendo, sulla Cina, noi ci auguriamo che la situazione politica si chiarisca e si stabilizzi onde sia possibile di mantenere rapporti stretti di amicizia fra l'Italia e la Cina, come sempre esistettero, sino da quando viaggiatori italiani percorsero quelle lontane contrade, dove si è svolta una delle più antiche e interessanti civiltà del mondo.

Dalla Cina, passo al Siam. Anche con questo Stato esisteva un vecchio Trattato firmato nel 1868. È stato sostituito da un Trattato di amicizia, commercio, navigazione, firmato il 9 maggio del 1926. Il volume dei nostri rapporti commerciali è limitato: tuttavia nel 1927 sono state importate nel Siam 277 automobili italiane. Esistono le possibilità di aumentare i nostri traffici ora che il Trattato di commercio ne determina e facilita le condizioni.

Ben più ampie sono le relazioni commerciali fra l'Italia e l'India britannica. Il Governo ha pensato che ad intensificarle occorreva riorganizzare ed aumentare la rappresentanza consolare italiana. Sono stati quindi istituiti il Vice-Consolato italiano di Madras e il Consolato di Colombo.

Uno Stato che suscita particolare attenzione per la sua posizione geografica, per la sua costituzione, la sua forza, è l'Afganistan.

Il viaggio europeo del Re Aman Ullah Khan è cominciato dall'Italia. A questa priorità di simpatie non è estraneo il fatto che l'Italia fu la prima Potenza alleata a riconoscere l'indipendenza afgana proclamata nel 1919. Le relazioni commerciali italo-afgane sono attualmente minime e per la situazione geografica dell'Afganistan, paese ultra-continentale incastrato com'è tra l'India e la Russia, quindi distante centinaia e centinaia di miglia dal mare e per il fatto che l'Afganistan non ha ferrovie e manca di un'organizzazione bancaria. Tuttavia recentemente l'Italia ha concluso affari per forniture belliche e automobilistiche e si sta preparando un invio di. tecnici. Importante, dal punto di vista anche del prestigio dell'Italia nel centro dell'Asia, è il fatto che l'Afganistan abbia mandato i suoi primi 25 cadetti d'aviazione all'Accademia Aeronautica di Caserta. Questi giovani sono già a Caserta. Tornando col brevetto di piloti, nel loro paese, non potranno non ricordare il loro soggiorno in Italia. È anche con questi « scambi » di uomini e di servizi che si sviluppano i rapporti fra i popoli.

È mia convinzione che l'Afganistan, paese rigidamente islamico, popolato da stirpi forti e guerriere, guidato da un Re che armonizza nel suo spirito le tradizioni dell'Oriente colle audacie dell'Occidente, è destinato a rappresentare una parte preponderante nella politica dell'Asia centrale.

I rapporti tra l'Italia e la Persia, sempre cordiali, sono presentemente caratterizzati dalla questione del rinnovamento del Trattato di amicizia e commercio italopersiano del 1862, denunciato dal Governo di Teheran 1'8 maggio 1927. Tale denuncia non è stata fatta soltanto nei riguardi dell'Italia, ma di tutti gli altri Stati aventi con la Persia Trattati a base capitolare. Scopo principale del Governo persiano in tale sua linea di condotta, è, come è noto, quello di poter affrancare il proprio Paese dal regime delle capitolazioni.

Le potenze interessate sono già da tempo in conversazione con il Governo persiano onde ottenere qualche garanzia di fronte alla perdita dei privilegi capitolari ed alcune di esse hanno già concluso accordi provvisori. Anche l'Italia ha i suoi interessi nella questione; non può certo non preoccuparsene e la cordialità con la quale vengono condotte le trattative col Governo persiano ci dà la convinzione che giungeremo a brevissima scadenza ad un modus vivendi sulla base della clausola della Nazione più favorita.

Tale cordialità dei rapporti tra i due Paesi è confermata dalla recente richiesta fatta dal Governo persiano al Ministero degli Affari Esteri di due tecnici italiani cui dovrà essere affidata la sistemazione dei servizi marittimi dello Stato persiano.

Lasciando l'Oceano Indiano, per venire al Mar Rosso, incontriamo un altro Paese, col quale l'Italia ha firmato un Trattato di amicizia e di relazioni economiche: lo Jemen.

Il Trattato costituisce un riconoscimento ufficiale della intensificazione delle relazioni amichevoli fra l'Italia e lo Jemen, e nel contempo il riconoscimento della piena indipendenza dello Jemen e del suo Sovrano.

Inspirata dal solo intendimento di una leale amicizia con i Paesi dell'Arabia, attraverso la pacificazione fra i vari suoi Emirati, e l'incremento delle loro attività economiche, la nostra azione potentemente favorita dal rinnovato prestigio dell'Italia, amica del mondo islamico e conscia delle sue funzioni di grande Potenza anche mussulmana, non poteva non riscuotere l'adesione delle popolazioni Jemenite ed il consenso del loro Capo, la cui potestà politica aveva modo, per la prima volta, di affermarsi in un atto internazionale.

Il viaggio compiuto in Italia da uno dei figli dell'Iman Yahia, è stato il suggello di queste amichevoli relazioni politiche, che promettono di sviluppare i traffici commerciali fra Massaua e Hodeida. Una società italoaraba lavora attualmente a questo scopo. Il nome d'Italia è popolare nello Jemen e gli unici europei che durante qualche tempo circolarono nello Jemen furono italiani. Il Sovrano dello Jemen non avrà mai a pentirsi di aver firmato il suo primo trattato politico di amicizia e di relazioni economiche coll'Italia.

Se dal Mar Rosso varchiamo la Colonia primogenita incontriamo l'Impero etiopico. Anche coll'Abissinia le relazioni sono diventate - specie dopo il viaggio di Ras Tafari in Italia - particolarmente amichevoli. Le nebbie che agenti di altri interessi volevano far sorgere sull'orizzonte dei rapporti italo-abissini sono scomparse. Un Patto di amicizia, il primo che l'Abissinia firma con una Potenza europea, sarà probabilmente la consacrazione di questo nuovo e felice stato di cose.

Con tutte le Repubbliche dell'America latina, i rapporti dell'Italia sono improntati a grande cordialità. Vivono laggiù laboriose e perciò rispettate, vaste collettività di italiani. Con un solo Stato l'Italia ha stretto un Patto di natura politica: il Cile. In data 24 febbraio 1927 è stato firmato fra Italia e Cile un Trattato di conciliazione e di regolamento giudiziario.

Il Brasile ha ordinato qualche sommergibile alla industria italiana. Maggiori sono state le ordinazioni della Marina Militare argentina, riconoscimento che si potrebbe dire tradizionale da parte della grande e prosperosa Repubblica Argentina, della bontà del nostro lavoro e della capacità delle nostre maestranze.

Non voglio abbandonare l'America del Sud, senza ricordare l'Uruguay - paese che ci ha dato sempre, anche recentemente con l'invio di una Ambascieria straordinaria, prove concrete di amicizia - e tutte le altre repubbliche che dal Perù al Paraguay, dall'Equatore al Venezuela, alla Columbia mantengono rapporti di assoluta cordialità coll'Italia.

Nell'America del Nord, c'è uno Stato che si stende dall'Atlantico al Pacifico, coi suoi 120 milioni di abitanti, colle sue sterminate ricchezze, colla sua gigantesca capacità di lavoro, col suo eccezionale progresso tecnico e scientifico: gli Stati Uniti.

La Repubblica delle Stelle dalla guerra in poi ha una parte grandissima se non preponderante nella storia del mondo. L'asse della finanza si è spostato dall'Europa all'America. Gli Stati Uniti hanno crediti per dodici miliardi di dollari verso tutte le Nazioni specie del vecchio continente. L'iniziativa americana sembra avviata a conquistare l'Europa. L'esame di questo fenomeno attorno al quale è sorta una ricca letteratura mi porterebbe troppo lontano. Del resto il fenomeno si svolge sotto i nostri occhi, nelle forme più svariate che vanno dalla filantropia alla banca, dalla scienza all'industria. Sino a quale punto si tenderà l'arco della volontà di Potenza americana, e quali resistenze potrà. incontrare, non è dato prevedere. Per quel che concerne l'Italia, i rapporti cogli Stati Uniti, sono stati, in questi ultimi tempi, contraddistinti da tre avvenimenti di speciale importanza.

Basterà soltanto ricordare il primo e cioè la sistemazione del nostro debito di guerra. In piena crisi dei cambi e precisamente nel 15 giugno del 1925, io mandavo il seguente dispaccio al nostro Ambasciatore a Washington:
« Dopo una conversazione col Ministro Finanze durante la quale fu prospettata ipotesi che attuale inasprimento cambi potesse essere conseguenza stato incertezza nostre trattative con Stati Uniti circa debiti, sono venuto determinazione invitare V. E. a iniziare ufficialmente trattative per il settlement del nostro debito. V. E. è quindi autorizzata a fare una immediata comunicazione ufficiale decisione Governo italiano iniziare regolari trattative per sistemazione debiti. V. E. mi terrà quotidianamente informato andamento preliminare nonché impressione mondo finanziario americano ».
Successivamente il conte Volpi, negoziava brillantemente la sistemazione del nostro debito, primo passo sulla strada del rinascimento finanziario. Un altro avvenimento ha interessato i rapporti fra Italia e Stati Uniti e precisamente l'iniziativa per una Conferenza concernente gli armamenti navali. Il Senato ricorda che l'Italia declinò l'invito.

Nella nota di risposta alla proposta americana, io prospettai le ragioni per cui l'Italia non poteva aderire alla progettata Conferenza di Ginevra, che si svolse poi in assenza dell'Italia e della Francia e sboccò in un fallimento completo a causa specialmente delle gravi divergenze manifestatesi fra Stati Uniti e Inghilterra circa la fissazione del tonnellaggio e del numero degli incrociatori.

Terzo avvenimento giunto a conclusione nell'aprile scorso: la firma di un Trattato di conciliazione, di arbitrato, fra Stati Uniti e l'Italia. Il carattere di questo Trattato è definito dai suoi articoli e soprattutto dal suo preambolo. Ora è sul tappeto la proposta Kellogg, dinanzi alla quale l'atteggiamento dell'Italia è stato definito da una lettera resa di pubblica ragione. Prima di abbandonare l'argomento delle relazioni fra Stati Uniti e Italia, voglio toccare due questioni che, di quando in quando, eccitano polemiche e appassionano l'opinione pubblica americana. Per quanto concerne la legge sull'emigrazione e relativa quota, il mantenimento della quota - se ci duole per le motivazioni che l'hanno provocata - ci lascia praticamente indifferenti. Da un biennio il Governo fascista segue una politica di volontaria restrizione e controllo dell'emigrazione. Indice palese di questo mutato indirizzo è la abolizione del Commissariato dell'Emigrazione e la creazione in vece sua presso il Ministero degli Esteri, di una Direzione Generale degli Italiani all'Estero. Che gli Stati Uniti modifichino o mantengano il cosiddetto immigration bill è affare che li riguarda. Per quanto concerne gli italiani di origine e naturalizzati americani, essi sono di diritto e di fatto cittadini americani, quindi stranieri per noi.

Ci limitiamo soltanto a desiderare ch'essi siano fieri della loro origine. Finalmente tutte le discussioni sui Fasci all'estero, sono cessate con la pubblicazione dello Statuto dei Fasci all'estero, da me particolarmente dettato e che precisa nella maniera più formale, i cómpiti, le attribuzioni di queste organizzazioni, la cui utilità è indubbia quando siano - come devono essere - composte di galantuomini che onorino col lavoro, la disciplina, la dignità personale la Patria lontana.

Ed ora, onorevoli Senatori, superiamo a volo l'Atlantico, e soffermiamoci sulla nostra vecchia, gloriosa e ancora inquieta Europa. Qui il panorama è più complicato: gli interessi più vivi, la realtà più immediata, i sentimenti più accesi: bisogna procedere con ordine e con attenzione nel prospettarlo. Comincio dall'Inghilterra.

Quando si dice che l'amicizia fra l'Inghilterra e l'Italia è tradizionale, non si ripete un luogo comune, ma si esprime una realtà di fatto. L'amicizia fra i due popoli è profonda: intendo dire che essi non furono mai divisi nel passato, collaborarono insieme alla pace, liquidarono lealmente l'unica pendenza coloniale esistente tra di loro - quella dell'oltre Giuba. A Locarno rinnovarono la loro stretta collaborazione politica ai fini della pace europea. Quando dico che l'amicizia fra i due Paesi è profonda, intendo dire che questo sentimento non è limitato alle sfere necessariamente ristrette dei circoli responsabili, ma si estende alle masse vaste della popolazione.

Il mutare degli uomini al Foreign Office non ha mai alterato questa situazione, la quale - evidentemente - risponde a ragioni di ordine superiore. Ho avuto il piacere e l'onore di incontrarmi con Sir Austin Chamberlain nel dicembre del 1925 a Rapallo, nel settembre del 1926 a Livorno. Voi ricordate, onorevoli Senatori, le farneticazioni polemiche e giornalistiche suscitate da quei due incontri. L'eminente Uomo di Stato che dirige il Ministero degli Esteri dell'Impero Britannico fu persino accusato di avere incoraggiato l'imperialismo fascista e più tardi taluni avvenimenti furono spiegati con una specie di autorizzazione che Chamberlain avrebbe dato alla politica dell'Italia. Niente di più fantastico. L'Italia d'oggi non ha bisogno di chiedere autorizzazioni di sorta per la sua politica. L'Italia è perfettamente autonoma nel condurre la sua politica estera. Aggiungo che uno dei cardini di questa politica è l'amicizia coll'Inghilterra.

Tale amicizia non ha bisogno di speciali protocolli per. essere fortificata e perfezionata. A questo scopo tendono gli sforzi del Governo fascista.

Passo dalla Gran Bretagna al Continente e comincio dalla Unione delle Repubbliche Socialiste, che un tempo nomavasi Russia, e che io chiamerò ancora Russia per ragioni di brevità di eloquio. I rapporti dell'Italia colla Russia sono normali. Come voi ricordate, onorevoli Senatori, l'Italia riconobbe diplomaticamente la Russia nel 1924 e concluse con essa un Trattato di commercio. Poiché sui risultati effettivi di questo Trattato di commercio si è molto discusso, è opportuno che io vi offra le cifre indicanti il volume degli scambi fra i due Paesi. Sono le seguenti:

Nel 1925 L. 149.188.000 per le importazioni in Italia e L. 171.256.000 per le esportazioni dall'Italia; nel 1926 rispettivamente L. 344.851.616 e L. 124.511.369; nel 1927, L. 394.735.633 e L. 43.441.401, cifre queste ultime non definitive.

Da esse risulta che il volume degli scambi è stato modesto. Le ragioni sono note. Esse non sono legate soltanto al monopolio statale del commercio estero, ma al fatto che la Russia ha bisogno di comperare a credito. Ora l'Italia non può in tale campo gareggiare con altre Potenze che possono comodamente attendere. Si è cercato di ovviare a tale deficienza con la creazione di un ente di finanziamento, che anticipi ai fornitori italiani le somme necessarie per la esecuzione di ordinazioni che sono pagate con cambiali russe a varia scadenza.

Negli anni 1925, 1926 vi furono accenni per un Patto di natura politica fra Italia e Russia, ma le conversazioni non uscirono mai dalla fase di semplici preliminari conversazioni.

Dalla Russia si giunge alla Polonia passando per la corona dei Paesi baltici e scandinavi. Colla Lettonia abbiamo una convenzione commerciale firmata il 25 luglio 1925 e ratificata il 25 gennaio 1927.

Attraverso la clausola della Nazione più favorita essa ci assicura il godimento della nuova tariffa minima lettone entrata in vigore il 16 aprile 1928 con probabile vantaggio delle esportazioni in Lettonia di alcuni prodotti italiani. Ottime sono le nostre relazioni con la Finlandia, colla quale abbiamo stipulato un Trattato di commercio che comincia a dare qualche risultato. Ottime del pari sono le nostre relazioni colla Lituania, precisate in un accordo politico e in un Trattato di commercio. I nostri rapporti colla Lituania, suggellati dalla visita di Valdemaras a Roma, ci hanno permesso di compiere un'utile azione « sedativa » nel momento più acuto della tensione fra Lituania e Polonia. Con quest'ultima grande Potenza, sorta dalla guerra e oramai consolidata in uno Stato unitario che rafforza ogni giorno di più la sua compagine politico-economica-morale; colla Polonia, dico, non esistono trattati politici, né di ciò si parlò durante la recente visita di Zalewsky a Roma. Cadono dunque tutte le fantasie che attribuirono al viaggio di Zalewsky caratteri ed obbiettivi che non erano sul tappeto.

Il mio incontro con Zalewsky è stato tuttavia utilissimo, perché dallo scambio di idee e dall'esame della situazione europea, è risultato che vi è la possibilità di un'azione comune, naturalmente pacifica, della Polonia e dell'Italia in certe direzioni e per determinate eventualità. Italia e Polonia hanno molti motivi - d'ordine storico, culturale, economico - che rendono possibile e feconda la loro collaborazione. Non ho bisogno di sottolineare l'importanza politica della Polonia risorta, che novera già 30 milioni di abitanti, fra la sterminata Russia e la popolosa Germania che sta riprendendo le sue forze.

I rapporti dell'Italia colla Germania sono cordiali. Esiste un Trattato di commercio, il cui pregio non poteva essere valutato appieno in regime di valuta italiana instabile e un Trattato di conciliazione e di regolamento giudiziario, firmato nel dicembre 1926 e della durata di dieci anni.

Se dai rapporti dei Governi si passa a quelli - non meno decisivi - dei popoli, è necessario constatare che i rapporti fra i due popoli - italiano e germanico - potrebbero essere infinitamente migliori, se le simpatie quasi naturali di un tempo, non fossero oggi diminuite dall'azione di taluni circoli irresponsabili i quali sostengono la assurda pretesa di intervenire in questioni di politica interna del nostro Stato. Se queste nebbie saranno - come io sinceramente mi auguro - fugate dall'orizzonte, la collaborazione - anche sul semplice terreno economico fra le masse imponenti dei due popoli, potrebbe essere feconda di grandi risultati. Aggiungo che in questi ultimi mesi le relazioni sono migliorate. Le accoglienze che non soltanto la città di Stolp, ma l'intiera Germania fece al Generale Nobile, hanno avuto la più simpatica ripercussione nell'opinione pubblica italiana.

Varchiamo il Reno conteso e presidiato. La storia abbastanza movimentata delle nostre relazioni colla Francia nel dopoguerra, è spiegata in gran parte da quanto accadde a Versaglia e che più o meno giustamente fu attribuito all'atteggiamento politico dei governanti francesi di allora che non considerarono benevolmente le rivendicazioni dell'Italia alleata.

Rievocare questo decennio può essere utile dal punto di vista della storia. Ma per voi, onorevoli Senatori, è importante di sapere quale è la situazione odierna. La situazione odierna è grandemente migliorata. Per avere una sensazione del miglioramento odierno, bisogna riportarsi al momento più delicato, all'epoca cioè del Patto francese colla Jugoslavia e del Trattato di Alleanza difensiva italo-albanese. Da allora molto cammino è stato percorso, sulla via della chiarificazione e della stabilizzazione politica dei rapporti fra le due grandi Nazioni. Va ricordato il discorso pronunciato dall'on. Briand alla Camera francese, al quale io risposi con una dichiarazione in Consiglio dei Ministri. Debbo ricordare che a questa chiarificazione ha contribuito instancabilmente l'Ambasciatore Besnard, nei due anni del suo soggiorno a Roma. Giunto il nuovo Ambasciatore De Beaumarchais, le conversazioni ufficiali si sono iniziate precisamente il 19 marzo u. s. Esse si svolgono su due direttrici: da una parte esse propongono di sboccare nella conclusione di un Patto politico di amicizia, molto largo, secondo l'espressione di Briand; dall'altra con una serie di Protocolli, dovrebbero essere liquidati i punti che hanno dato origine a controversie fra l'Italia e la Francia. Questi punti essenzialmente sono i seguenti: posizione dell'Italia a Tangeri; statuto degli italiani di Tunisi; rettifica delle frontiere occidentali della Tripolitania. Altre questioni che potrebbero interessare altre zone non sono sul tappeto per una ragione evidente e cioè che sarebbe necassario un allargamento ad altri Stati dei negoziati franco-italiani. Ciò vorrebbe dire complicare la situazione e renderla più delicata. Voglio aggiungere che l'andamento delle conversazioni permette di credere a una loro felice conclusione.

Quale felice preambolo di questa possibilità d'intesa può essere considerato l'Accordo per Tangeri. Converrà alcun poco sostare su questa pagina della nostra storia diplomatica e rifarsi ai precedenti.

Il Governo italiano, fin dal 1920, allorché si ebbe per la prima volta sentore in Italia delle intenzioni del Governo di Londra di riprendere con quelli di Parigi e Madrid i negoziati per lo Statuto di Tangeri, interrotti nel 1914, chiese di partecipare a tali negoziati, e con la nota della fine ottobre 1923 diretta ai tre Governi interessati, domandò formalmente che un Rappresentante italiano prendesse parte alla Conferenza di Parigi, all'uopo convocata.

Tale richiesta italiana non fu accolta e il Governo, con successiva nota del 25 dicembre 1923, rinnovò le sue più ampie riserve circa le deliberazioni che fossero state adottate dai tre Stati rappresentati a Parigi, particolarmente nei riguardi della futura libertà di azione. Il nostro atteggiamento era determinato dalle seguenti considerazioni:

1°) Anzitutto l'Italia, come grande Potenza mediterranea riteneva di aver diritto d'intervenire al regolamento di ogni questione mediterranea, anche per la parte da essa avuta nella vittoria degli alleati, la quale aveva reso possibile - nella questione in esame - l'esclusione della Germania e dell'Austria dagli affari marocchini.

2°) Che, per tutto il complesso dei suoi interessi nella questione di Tangeri, sia quelli riferentisi alla sua situazione speciale come grande Potenza mediterranea, sia quelli da essa posseduti localmente nella zona tangerina, l'Italia non poteva, nei riguardi di tale questione, essere considerata alla stregua degli altri Stati firmatari dell'Atto di Algesiras.

L'accordo delle tre Potenze condusse alla Convenzione di Parigi del 18 dicembre 1923. Il Governo dinanzi al fatto compiuto dichiarò ai Governi britannico, francese e spagnolo di essere disposto a dare la sua adesione alla Convenzione di Parigi a condizione indispensabile che venissero accolte le sue domande di modificazioni alla Convenzione stessa.

Queste domande, che presentate da noi nel 1924 e nel 1926, non furono accolte, sono quelle stesse che hanno formato oggetto di discussione nelle recenti conversazioni a quattro di Parigi: conversazioni che hanno proceduto calme ed in ambiente di cordialità e di comprensione dei reciproci interessi, e i cui risultati soddisfacenti, nei riguardi dell'accoglimento delle nostre domande, hanno confermato pienamente il successo già in linea di principio ottenutosi con la nostra partecipazione alle riunioni di Parigi, a parità di condizione con le tre Potenze firmatarie della Convenzione del '23.

L'accoglimento delle nostre richieste (come qui di seguito indicate) costituisce l'esplicito riconoscimento che la qualità di grande Potenza essenzialmente mediterranea conferisce all'Italia il diritto aduna speciale considerazione, tanto nei riguardi della sistemazione, dal punto di vista internazionale, della zona tangerina del Marocco, quanto nei riguardi dell'Amministrazione della zona stessa.

Il Governo italiano ha domandato la facoltà di destinare presso il suo Consolato a Tangeri un ufficiale, con incarico di informare il R. Governo sull'osservanza degli impegni di ordine militare, contenuti nell'art. 3 della Convenzione relativi al regime di neutralità della zona di Tangeri.

Tale domanda è stata accolta. (Sono state regolate infatti con piena parità le funzioni degli Ufficiali delle quattro Potenze a Tangeri, i quali verranno incaricati di visite periodiche della zona, essendo concordemente apparso non essere giustificata, per la sorveglianza della demilitarizzazione della zona stessa, la presenza permanente di detti Ufficiali).

L'Italia ha domandato che le forze navali italiane esercitino congiuntamente alle forze navali britanniche, spagnole e francesi la sorveglianza del contrabbando di armi o munizioni belliche, nelle acque territoriali della zona di Tangeri.

Tale domanda è stata accettata. (Si è cioè ottenuta la parità con l'Inghilterra, stabilendosi che le modalità dell'intervento, nei casi consentiti, delle Marine italiana e britannica saranno concertate fra le quattro Potenze).

L'Italia ha domandato che l'Assemblea legislativa internazionale di cui all'art. 34 della Convenzione comprenda tre membri italiani designati dal R. Consolato e nomini un Vice Presidente italiano con le medesime funzioni ed i medesimi diritti dei suoi colleghi.

Anche questa domanda è stata accolta. La principale funzione dei Vice Presidenti è quella di assistere il Mendub (Rappresentante del Sultano) nella Presidenza dell'Assemblea e di supplirlo in caso di assenza od impedimento.

L'Italia ha domandato che un amministratore aggiunto di nazionalità italiana sia nominato nelle stesse condizioni previste dagli articoli 35 e 36 della Convenzione di Parigi, e più particolarmente incaricato, col titolo di Direttore, dei servizi giudiziari.

La domanda è stata accolta. Era la nostra domanda centrale ed è stata oggetto di vivissima discussione rimanendo fino all'ultimo in sospeso. La difficoltà consisteva nel trovare per l'Amministratore aggiunto italiano, funzioni e prerogative che non fossero già acquisite a funzionari dell'Amministrazione tangerina di altre nazionalità in modo da evitare l'opposizione delle Potenze che altrimenti si sarebbero ritenute danneggiate. Tali difficoltà sono state abilmente sormontate dalla nostra Delegazione, ottenendosi così l'entrata dell'Italia nell'Amministrazione diretta di Tangeri, con particolare riguardo ai servizi giudiziari.

L'Italia ha domandato che un'equa partecipazione sia assicurata al capitale e al lavoro italiani nella costruzione e nell'esercizio del Porto di Tangeri.

La domanda è stata accolta mediante opportuna modifica all'art. 41 della Convenzione del '23 ed un'esplicita dichiarazione relativa al rispetto della parità di trattamento del capitale e del lavoro italiani da parte dei Governi francese e spagnolo, a cui appartengono per nazionalità i due ingegneri per la zona di Tangeri.

L'Italia ha domandato che un magistrato italiano faccia parte del Tribunale misto di Tangeri previsto al 1° capoverso dell'art. 48 della Convenzione di Parigi, e che uno dei cancellieri di cui all'articolo 14 del Dahir sull'organizzazione di una giurisdizione internazionale a Tangeri sia di nazionalità italiana. I Codici emanati in conformità al suddetto art. 48 saranno comunicati al Governo italiano, e nel caso il Governo italiano credesse formulare domande di modificazioni, queste saranno esaminate nel termine più breve.

Questa domanda è stata accolta.

L'Italia ha domandato che l'Agenzia diplomatica d'Italia a Tangeri sia sostituita da un Consolato. Il Governo italiano potrà nominare un funzionario nel ruolo diplomatico alla direzione del suo Consolato a Tangeri col grado e titolo di console generale.

Questa domanda è stata accolta.

L'Italia ha chiesto che la messa in vigore della Convenzione di Parigi del 18 dicembre 1928, per quanto riguarda i sudditi e gli interessi italiani nella zona di Tangeri, abbia luogo sei mesi dopo l'adesione del Governo italiano alla detta Convenzione.

La domanda è stata accolta, consentendosi da parte nostra che l'applicazione del regime fiscale agli italiani a Tangeri si intenderà iniziata dalla data della nostra adesione allo Statuto.

Delle domande avanzate dall'Italia e sulle quali l'Italia non ha insistito, due sole non sono state accolte: quella concernente l'Ufficio postale e l'altra concernente la partecipazione alla Commissione dei lavori doganali. I risultati ottenuti e cioè l'amministratore aggiunto, col giudice e cancelliere italiano al Tribunale, coi tre membri italiani all'Assemblea legislativa, col Vicepresidente italiano dell'Assemblea stessa, con l'assicurazione di equo trattamento al capitale e al lavoro italiani, con l'applicazione della Convenzione del 1923 (modificata) alla situazione odierna degli interessi italiani, - ben maggiore di quella del 1923 ed includente le istituzioni ospedaliere e scolastiche italiane recentemente costituite -, con la partecipazione alla sorveglianza marittima in tempi eccezionali pari all'Inghilterra, con la visita periodica dell'ufficiale italiano a Tangeri, in parità con le altre tre Potenze, ci possono soddisfare, perché in tal modo viene a realizzarsi un intervento italiano nell'Amministrazione della zona tangerina pari a quello dell'Inghilterra, superiore in tutti i casi a quello che la situazione degli interessi italiani a Tangeri nel 1923 ci avrebbe forse consentito di ottenere.

Il successo diplomatico italiano è evidente. A ciò ha giovato l'atteggiamento di perfetta amicizia degli Spagnoli e degli Inglesi, nonché la cordialità dei Francesi. Non è dunque fuor di luogo affermare che quest'accordo apre delle prospettive favorevoli.

L'importanza di un accordo generale fra Italia e Francia è così evidente che ogni parola intesa a dimostrarlo mi pare superflua. Un assetto definitivo dei nostri rapporti con la Francia è un altro elemento che si aggiunge a rendere stabile la pace e rendere più feconde le relazioni economiche - già così importanti - fra due popoli che, a prescindere dalle troppo sottili ricerche del sangue, hanno in comune molti elementi fondamentali della civiltà europea.

Una volta si diceva che la impervia catena dei Pirenei separava la Spagna dall'Europa. Oggi, non più. La Spagna è presente in Europa e nel mondo e la sua influenza politica è in aumento. È mia convinzione che la Spagna sia in un periodo di grande ripresa della sua vitalità che parve spenta, mentre era solamente sopita. Il risveglio della Spagna è evidente nel campo economico, politico, spirituale. Le voci della superba storia spagnola, le linfe della grande tradizione cattolica, dinastica, coloniale spagnola, sono presenti e operanti nell'attuale rinascita nazionale.

Uno dei problemi che più angustiavano la Spagna, quello del Marocco, è stato brillantemente risolto dal generale De Rivera, il quale da valoroso soldato ha dato l'esempio operando lo sbarco di Alhucemas, splendida pagina di storia militare coloniale. Non soltanto, come da taluni si crede, per l'affinità del Regime, ma per ragioni ancora più profonde, i rapporti fra i due Governi è i due popoli sono eccellenti. Un Trattato di commercio regola i rapporti economici, un Trattato politico di amicizia e di neutralità, stabilisce i rapporti politici per un decennio. Una collaborazione ancora più stretta delle due grandi Nazioni mediterranee è possibile, è, vorrei dire, nell'ordine. naturale delle cose: poiché assolutamente niente le divide, le relazioni tra Spagna e Italia possono diventare ancora più intime e la fraterna collaborazione fra di loro estendersi a tutte le manifestazioni salienti della vita contemporanea.

Prima di lasciare la Penisola iberica, voglio dire che anche col Portogallo le relazioni dell'Italia sono ottime. Tentativi di alterarle non sono mancati, a proposito di inesistenti pretese italiane sui possedimenti coloniali portoghesi, ma a Lisbona non si è mai dubitato della perfetta lealtà e sincera amicizia dell'Italia.

Prima di passare a un altro settore interessantissimo della politica europea, è d'uopo soffermarsi a parlare della Svizzera, quadrivio europeo. I nostri rapporti con la Repubblica svizzera sono veramente cordiali, profondamente amichevoli. Io stesso ho chiamato perpetuo un Trattato di amicizia e di arbitrato, firmato il 20 settembre del 1924, malgrado che nell'atto sia fissata la durata di 10 anni. Queste direttive della politica italiana sono permanenti: l'attività di taluni ambienti irresponsabili che poteva turbare queste direttive, è già finita da tempo e non fu mai, del resto, in alcun modo preoccupante. L'Italia ha un interesse fondamentale all'esistenza di una libera, indipendente, neutrale Svizzera e per quanto concerne il Canton Ticino, di lingua, razza, costume italiano, l'interesse fondamentale dell'Italia è ch'esso resti elemento integrante e integratore nel seno della Confederazione elvetica. Quei pochi che entro od oltre il Gottardo hanno ancora la non peregrina abitudine di dar corpo ad ombre evanescenti prendano atto di questa chiara e solenne definitiva dichiarazione.

Per quanto concerne l'Austria mi limiterò a dire che le relazioni sono diplomaticamente corrette e che dall'Austria dipende, se potranno arrivare a un grado di maggiore cordialità.

Siamo giunti, così, alle soglie dell'Europa danubiana e balcanica. Qui ci conviene procedere con circospetta attenzione, poiché vi si muovono interessi molteplici e contrastanti, e il dinamismo politico vi è straordinariamente attivo. È la plaga dove i risultati della guerra appaiono più visibili nel cambiamento della Carta politica, e la zona, dove la caduta dell'Impero d'Absburgo ha operato le più grandi trasformazioni. A difesa e conservazione dei Trattati di pace è sorta la Piccola Intesa, cioè l'unione della Cecoslovacchia, della Jugoslavia, della Romania, unione a carattere piuttosto negativo che positivo, in quanto i limiti della intesa sono chiaramente delimitati e, tolto il terreno della conservazione pura e semplice dei Trattati, gli elementi che compongono la Piccola Intesa non hanno alcun'altra identità di interessi. I rapporti dell'Italia con le Potenze componenti la Piccola Intesa furono fissati negli anni precedenti. Esiste un Trattato di commercio e un Patto di amicizia e collaborazione cordiale tra Italia e Cecoslovacchia firmato a Roma, in data 5 luglio 1924; esiste un Trattato di amicizia e di collaborazione fra Italia e Romania, firmato a Roma in data 16 settembre 1926. Poco tempo dopo la firma di questo Trattato, l'Italia ratificava la decisione degli Ambasciatori circa il possesso della Bessarabia da parte della Romania. Non sarà inopportuno ricordare che solo con la ratifica italiana, il possesso della Bessarabia da parte della Romania è diventato perfetto dal punto di vista internazionale.

Esiste infine un Patto di amicizia, collaborazione, arbitrato fra Italia e Jugoslavia, firmato a Roma il 28 gennaio del 1924. È su quest'ultima posizione politico-diplomatica che è necessario indugiare. Dall'avvento del Regime fascista in poi, le direttive della politica estera nei confronti della Jugoslavia furono lineari. È mio convincimento che fra due Stati i quali abbiano in comune le frontiere non possono esistere rapporti di indifferenza, sibbene di amicizia o di inimicizia. Scartato quest'ultimo corno del dilemma; adottato cioè il principio di una politica di amicizia, tale politica l'Italia lealmente praticò nei confronti della Jugoslavia e tale politica volle consacrata nel Trattato del 1924. Questo Trattato presupponeva una ulteriore integrazione: si venne così nel 1925 alle Convenzioni di Nettuno. Con queste Convenzioni tutta una complessa e importante materia concernente le relazioni fra i due Stati veniva sistemata con soddisfazione reciproca.

Sono quindi tre anni che l'Italia aspetta la ratifica della Jugoslavia. Ora, l'Italia non intende menomamenie di entrare nelle complicate vicende parlamentari dello Stato vicino, ma non può subordinare ad esse la sua politica estera. L'Italia è inoltre costretta a constatare che il Trattato del '24 non ha creato quell'atmosfera morale, per cui l'amicizia discende dai protocolli ufficiali dei Governi e tocca il cuore dei popoli. Inutile e pericoloso nascondersi la realtà: in molti ambienti jugoslavi la predicazione ostile all'Italia è fatta su vastissima scala, anche da uomini che hanno responsabilità politiche. È di ieri ad esempio il discorso di un deputato croato, ex e forse futuro ministro, eccitante alla guerra contro l'Italia e profetizzante l'armistizio firmato a Venezia.

Il tutto è legato a una completa ignoranza sulle reali condizioni dell'Italia fascista, e a manifestazioni di megalomania così esagerate da cadere nell'infantilismo politico. Si può sorriderne, restare assolutamente calmi come ha fatto l'Italia nei giorni scorsi, ma grave errore sarebbe non tenerne alcun conto.

In tale ambiente di auto-montatura e d'incomprensione, di cui il mondo deve finalmente prendere conoscenza, si spiegano i recenti fatti di Spalato, Sebenico, Zagabria i quali sono stati estremamente gravi e per le violenze e le distruzioni e soprattutto perché sono stati provocati non dagli inesistenti incidenti di Zara o dal contegno degli studenti italiani che è stato perfetto di disciplina, come si conviene a un grande popolo, ma dal semplice annuncio che Marinkovich si è deciso a presentare alla Scupcina le Convenzioni di Nettuno, con un atto di buona volontà e di coraggio.

Non appena sono venuto in possesso-dei rapporti dei nostri consoli e del nostro ministro a Belgrado, ho chiesto formalmente a mezzo di apposita nota quelle soddisfazioni che la gravità dei casi esigeva. Tali riparazioni sono state accordate dal Governo di Belgrado, colla nota che ognuno di voi conosce. Gl'incidenti, dal punto di vista dei rapporti diplomatici, sono dunque chiusi. Riconosco anche in questa sollecita e leale accettazione delle richieste italiane, un segno della buona volontà del doti. Marinkovich, nonché il proposito di riattivare quella politica di amicizia che l'Italia, dal canto suo, vuole sinceramente seguire, non solo nell'interesse dei due Stati, ma anche ai fini della pace europea.

Per concludere su questo delicato tema io vorrei, dalla tribuna di questa Alta Assemblea dire una schietta parola a certi elementi di Oltre Nevoso: Siate prudenti e saggi. Non date ascolto alle vacue fole dell'antifascismo che si ripromette di giocare su di voi la carta della sua disperazione; rendetevi conto della realtà: l'Italia non vi odia e non si oppone al vostro pacifico progredire, ma cercate di conoscerci e pensate che l'Italia la quale ha dato in ogni tempo un contributo formidabile alla civiltà umana è oggi col Regime fascista una Nazione della quale vi conviene coltivare l'amicizia, non accendere l'ostilità.

Esiste incastrata fra gli Stati della Piccola Intesa, una Nazione le cui relazioni coll'Italia hanno raggiunto in questi ultimi tempi un grado intenso di cordialità: parlo dell'Ungheria. Dell'Ungheria, il cui Primo ministro conte Tisza non voleva la guerra, come è ormai inoppugnabilmente dimostrato e che della guerra ha sofferto le più dure conseguenze. I rapporti di amicizia italo-magiari sono secolari in ogni campo. La guerra li interruppe. Finita la guerra non ebbe termine l'epoca dei sacrifici dell'Ungheria: ci furono nel '19-'20 i terribili 122 giorni di dittatura bolscevica e poi la catastrofe della moneta. Prima di affacciarci alla finestra per guardare nuovamente il mondo, l'Ungheria dovette provvedere al suo riassetto politico ed economico interno. Questo concluso, l'Ungheria cercò di uscire dal suo isolamento. L'Italia le offerse - con lealtà e disinteresse - la mano. Un solenne atto diplomatico, firmato a Roma nell'aprile dell'anno scorso consacrò l'amicizia dei due Stati e dei due popoli.

Questa amicizia italiana ha agito in tre circostanze: nel determinare là fine del controllo militare in Ungheria, nello smontare la tragicommedia delle mitragliatrici di San Gottardo, nella questione degli optanti e, fra l'altro, nelle facilitazioni marittime accordate all'Ungheria nel porto di Fiume. L'Ungheria può contare sull'amicizia dell'Italia. Si può riconoscere che si è tagliato troppo sul vivo, nelle determinazioni territoriali del Trattato del Trianon e si può aggiungere che nel bacino danubiano l'Ungheria assolve da un millennio a una missione storica di ordine essenziale. Il popolo ungherese, fèrvido di patriottismo, conscio della sua forza, tenace lavoratore in tempo di pace, merita migliore desiino. Non solo da un punto di vista dell'equità universale, ma anche nell'interesse dell'Italia, è bene che si realizzi questo migliore destino del popolo magiaro.

Uno Stato balcanico col quale dalla guerra in poi i rapporti dell'Italia sono stati improntati a sincera amicizia, è la Bulgaria. Le vicende drammatiche del dopo guerra bulgaro sono note. La Bulgaria è stata sull'orlo della dissoluzione politica e sociale, ma poi le forze profonde del popolo si sono levate a difesa e da tre anni la situazione politica appare stabilizzata. I Bulgari bene conoscono in quali tristi momenti politici essi hanno avuto le prove concrete, spesso decisive, dell'amicizia italiana, e quindi preferisco passare oltre. Ma i Bulgari devono sapere che anche per l'avvenire essi possono contare sull'amicizia dell'Italia.

Questa rassegna mi ha portato oramai sulle rive del Mediterraneo Orientale. Con la Grecia i rapporti sono da lungo tempo improntati a sensi di cordialità e di collaborazione. Non è da escludere che tali rapporti siano in un prossimo avvenire consacrati o suggellati in un protocollo diplomatico. Se le vertenze greco-turche fossero state appianate, la Grecia avrebbe firmato un Patto con l'Italia analogo a quello che l'Italia ha firmato con la Turchia.

L'Italia - attraverso l'azione svolta dal ministro di Atene e dall'Ambasciatore ad Angora - si è intensamente adoperata per sanare il dissidio greco-turco che verte sulle conseguenze dell'applicazione di alcune clausole del Trattato di Losanna e notevoli passi sono stati compiuti sulla via dell'accordo. L'Italia ha atteso per alcune settimane: finalmente all'indomani della crisi ministeriale greca, ha proceduto alla firma del Trattato con la Turchia che era oramai pronto da oltre un mese. Nel tempo stesso, però, l'Italia ha fatto sapere a Micalacopulos, che è pronta a firmare un analogo Patto con la Grecia, non appena la Grecia lo ritenga opportuno. Spero che tutti in Grecia riconosceranno che la condotta dell'Italia è stata lealissima e corretta. Nessuno poteva pretendere che l'Italia subordinasse, indefinitamente, la firma di un Patto già pronto con la Turchia, alla sistemazione dei rapporti fra Grecia e Turchia, rapporti che non interessano direttamente l'Italia.

Ora l'Italia si augura che la liquidazione sollecita delle vertenze greco-turche conduca alla firma da parte della Grecia, di due Patti con l'Italia e con la Turchia, il che stabilizzerebbe, attraverso questi tre Patti bilaterali, la pace in tutto il Mediterraneo orientale.

Sono così giunto a parlare delle nostre relazioni con la Turchia. Nell'ultimo biennio, cessate le macchinazioni di elementi estranei alla Turchia, ma ostili all'Italia, le relazioni italo-turche erano grandemente migliorate. Quando da parte turca mi si propose di consacrare in un Patto diplomatico questa situazione, accolsi favorevolmente la proposta. Così ebbe luogo l'incontro di Milano con Ruscdi Bey, ministro degli Esteri della Repubblica turca.

Sin da quell'incontro in data 3 aprile furono precisate le linee del protocollo che è stato firmato a Palazzo Chigi in data 30 maggio. L'importanza del protocollo che suggella l'accordo fra la Turchia e l'Italia è evidente. L'orizzonte del Mediterraneo è chiaro: sgombro da ogni nebbia. L'Italia va incontro alla Turchia con spirito sinceramente amichevole. Bisogna oramai abituarsi a vedere la nuova Turchia così com'è, una Nazione che sta audacemente creandosi una nuova anima, dopo essersi data una nuova costituzione, una Nazione forte e popolosa, guidata da un Capo il cui immenso prestigio è legato a eventi storici di importanza eccezionale racchiusi in questi nomi: Trattato di Sèvres, Trattato di Losanna.

Dirò ancora una parola sull'Albania, con che avrò finito questa prima parte del mio discorso. La natura dei nostri rapporti col piccolo ma importante e forte Stato albanese, è stata ampidinente illustrata quando furono portati dinanzi a voi e all'altro ramo del Parlamento, i due Trattati politici, conclusi con l'Albania. È quindi superfluo ripetersi. Dirò solo che dal 1925 ad oggi - ben prima quindi del Trattato di Tirana - l'Albania sa che può contare sull'amicizia dell'Italia, e sa che questa amicizia è assolutamente leale, profondamente sincera e preoccupata sino allo scrupolo di non compiere atto o pronunciare parola che anche da gente in malafede possa essere interpretata come intervento negli affari interni dello Stato albanese.

L'Italia ha un solo fondamentale interessee.e cioè che lo Stato albanese, guidato con mano ferma e saggia da un uomo di qualità eminenti come Alhmed Zogu, consolidi sempre più la sua unità all'interno e la sua autonomia di fronte all'estero. Grandi progressi sono stati realizzati in questi ultimi anni. Anche l'Albania sta rinnovandosi e trasformandosi con moto più accelerato di quanto generalmente si pensi.

Fra pochi anni l'Albania sarà uno Stato, nel senso più lato e più potente della parola. L'Italia è lieta di portare la sua collaborazione a questa grande rinnovazione della vecchia e pur giovane Albania, legata all'Italia da vincoli che possono ben dirsi secolari e tradizionali.

Onorevoli senatori!

Ho avuto talvolta occasione di dichiarare che i Trattati di pace non sono eterni. Ciò dissi una prima volta dal mio banco di Deputato e successivamente come Capo del Governo in discorsi o interviste. Trovo per lo meno strana l'emozione che sembra impadronirsi di taluni ambienti, di fronte a una dichiarazione che è così ovvia, da parere lapalissiana. Non si tratta di dottrine: si tratta di constatare una realtà storica. Nessun Trattato è mai stato eterno, poiché il mondo cammina, i popoli si costituiscono, crescono, declinano, qualche volta muoiono: l'eternità di un Trattato significherebbe che a un dato momento l'umanità, per un mostruoso prodigio, avrebbe subìto un processo di mummificazione, in altri termini, sarebbe morta.

Non c'è bisogno di ripercorrere le strade della storia più lontana, per affermare che i Trattati di pace non sono eterni: basta limitarsi al secolo diciannovesimo. Si può anche accostarsi a tempi molto più vicini a noi, per identificare un Trattato che non solo non è stato eterno, ma è stato anche brevissimo e parlo di Sèvres. Lo stesso Patto della Società delle Nazioni scarta quella che si potrebbe chiamare « l'immobilità marmorea » dei Trattati di pace, quando in apposito articolo apre il varco alle possibili revisioni. Sarebbe interessante stabilire, ad esempio, quante clausole del Trattato di Versaglia non sono state applicate e quante altre hanno avuto o avranno un'applicazione mitigata o diversa. I Trattati di pace sono sacri in quanto conclusero uno sforzo glorioso e sanguinoso, un periodo di sacrifici e di grandi dolori; ma i Trattati di pace non sono il risultato di una giustizia divina, bensì di una intelligenza umana, sottoposta, specie sul finir di una guerra gigantesca, a influenze di ordine eccezionale. C'è qualcuno che oserebbe affermare che i Trattati di pace, da Versaglia in poi, sono un'opera perfetta? Opera umana, io dico, e quindi non perfetta, ma, aggiungo, sempre più perfettibile.

Ci sono nei Trattati di pace, dei grandi fatti compiuti, corrispondenti a supreme ragioni di giustizia, fatti compiuti che tali restano e che nessuno di noi pensa a revocare e nemmeno a mettere in discussione.

Ma ci sono nei Trattati clausole territoriali, coloniali, finanziarie, sociali, che possono essere discusse, rivedute, migliorate allo scopo di prolungare la durata dei Trattati stessi e, quindi, di assicurare un più lungo periodo di pace. Quando in un mio discorso, pronunciato or è un anno nell'altro ramo del Parlamento, accennai che l'Europa si sarebbe trovata fra il 1935 e il 1940 a un punto molto interessante e delicato della sua storia, partivo dall'ordine di considerazioni che sono venuto prospettando. Tale mia affermazione o previsione - facile a farsi del resto - non deve essere necessariamente interpretata in senso pessimistico. Il fatto è che nel periodo di tempo da me individuato verranno - in seguito allo svolgimento stesso dei Trattati di pace - a maturare talune condizioni le quali determineranno una nuova fase importante nella situazione fra i diversi Stati d'Europa. Sorgeranno particolari problemi che potranno essere risolti dai Governi in linea pacifica, come io sinceramente mi auguro.

Complicazioni gravi saranno evitate se, rivedendo i Trattati di. pace laddove meritano di essere riveduti, si darà nuovo e più ampio respiro alla pace. Questa è la ipotesi che io accarezzo e alla quale è ispirata la politica veramente, sanamente, schiettamente pacifica del Governo fascista e del popolo italiano; ma poiché la contraria ipotesi va considerata, nessuno può in buona fede stupirsi se, sull'esempio di tutti gli altri Stati, anche l'Italia intende di possedere le forze armate necessarie per difendere la sua esistenza e il suo avvenire.

Un dato fondamentale del Trattato di Versaglia, che è stato in questi ultimi anni continuamente oggetto di studi, discussioni, proposte, è quello riferentesi al titolo "riparazioni". Vale la pena di parlarne un po' diffusamente.

1°) La fase attuale delle Riparazioni, che potrebbe dirsi fase « consensuale », in contrapposto di quella litigiosa, che l'ha preceduta, dura da quattro anni. Com'è noto, essa è disciplinata dal Protocollo di Londra dell'agosto 1924, e s'inizia col 1° settembre dello stesso anno. Il Protocollo di Londra si basa sul rapporto Dawes, praticamente anzi si può dire tutt'uno con esso. Nel concetto dei suoi stessi autori, esso rappresenta, non una sistemazione definitiva del problema, ma un mezzo per ristabilire la fiducia e il credito della Germania, e, col credito, la sua situazione economica, e per fornire gli elementi di giudizio necessari ad un'ulteriore e più completa sistemazione delle riparazioni e dei problemi connessi.

Il piano Dawes non si occupa della cifra totale del debito tedesco. Né fissa la durata dei pagamenti con esso stabiliti. Esso mira solo a determinare la capacità di pagamento della Germania, e a indicare la cifra dei pagamenti annuali tedeschi: un miliardo di marchi oro nel primo anno; un miliardo e duecento milioni nel secondo, e così via fino a due miliardi e mezzo nel quinto anno, che comincierà nel prossimo settembre: più negli anni successivi un eventuale aumento proporzionato a determinati indici di prosperità.

Il piano Dawes stabilisce anche la composizione delle annualità tedesche; una quota-parte è fornita da contributi di bilancio; una quota-parte dall'imposta sui trasporti; e una quota-parte infine dagli interessi e ammortamento su 16 miliardi di marchi oro, di obbligazioni industriali e ferroviarie tedesche, create dallo stesso piano Dawes.

2°) Nei quattro anni da che il piano Dawes funziona, la Germania ha fatto fronte alle obbligazioni assunte. Il bilancio dello Stato ha fornito il contributo assegnatogli, l'imposta sui trasporti è stata corrisposta. Le obbligazioni ferroviarie e industriali sono state consegnate ai competenti Trustees a norma delle disposizioni del piano, e quantunque non ancora piazzate nel mercato internazionale l'interesse e l'ammortamento stabiliti su di esse sono stati regolarmente versati. In tal modo le annualità dovute sono state regolarmente pagate, e pure regolarmente sono state trasferite all'estero. L'Agente Generale dei pagamenti ne ha dato atto nei suoi Rapporti annuali; e le Tesorerie alleate, per la prima volta dopo lo speciale periodo anteriore al 1924, hanno regolarmente incassato le somme loro dovute. Nella gestione del bilancio tedesco e della Reíchsbanck non sono mancate però, in questi quattro anni, tendenze che, se continuate, potrebbero mettere in serio. pericolo i trasferimenti e forse i versamenti futuri. Da un lato lo Stato tedesco è venuto infatti accrescendo le proprie spese; dall'altro sono venuti aumentando i prestiti sia interni che esterni. Ora, il bilancio tedesco (oltre le contribuzioni previste da altre fonti: interessi sulle obbligazioni ferroviarie e industriali; tasse sui trasporti) deve contribuire all'annualità Dawes per una cifra che quest'anno è stata di mezzo miliardo di marchi oro, e nell'anno prossimo, e di poi nell'avvenire, è fissata a un miliardo e un quarto di marchi oro. L'indebitamento all'estero, poi, se non sia opportunamente contenuto, può determinare una situazione per la quale i trasferimenti divengano successivamente più difficili, se non impossibili, e inoltre resti notevolmente diminuita la possibilità dei mercati esteri di assorbire le obbligazioni ferroviarie e le obbligazioni industriali, il cui collocamento in un tempo futuro fa parte della regolare applicazione del Piano.

L'Agente Generale dei pagamenti ha rilevato queste tendenze, dapprima nel corso dei suoi rapporti annuali, poi a mezzo di una comunicazione particolarmente redatta all'uopo, alla quale il Governo tedesco ha replicato fornendo chiarimenti e assicurazioni e insistendo nella propria determinazione a mantenere gli impegni assunti. La comunicazione dell'Agente Generale dei pagamenti è del 20 ottobre 1927; la risposta del Governo tedesco è del 5 novembre dello stesso anno.

Ultimamente poi, in occasione del suo Rapporto annuale sulla terza annualità Dawes, e riferendosi alle precedenti osservazioni da lui fatte e allo scambio di comunicazioni ora ricordate, il signor Gilbert si è soffermato su altri aspetti del problema, mettendo in rilievo altri pericoli che possono minacciare la futura applicazione del piano Dawes, inerenti alla sua stessa natura: il sistema di protezione, cioè, sui trasferimenti, stabilito dallo stesso piano con la creazione dell'apposito Comitato. Tale protezione di per se stessa tende infatti a diminuire la responsabilità delle autorità tedesche; l'incertezza del montante totale del debito di riparazione, che tende a sua volta a diminuire lo stimolo necessario a uno sviluppo economico proporzionato allo sforzo rappresentato dal pagamento delle riparazioni.

Il signor Gilbert conclude:
« Col passare del tempo, coll'accumularsi dell'esperienza pratica, diventa sempre più evidente che né il problema delle riparazioni, né gli altri problemi connessi troveranno una soluzione definitiva fino a quando la Germania non avrà trovato un peso definitivo da portare sotto la sua responsabilità, senza sorveglianza straniera e senza protezione per i trasferimenti ».
Queste conclusioni dell'Agente Generale dei pagamenti hanno avuto una larga eco: molti e abbondanti commenti di stampa e diverse dichiarazioni di uomini politici. Anche la Commissione delle riparazioni, dalla quale il signor Gilbert è nominato e formalmente dipende, si è occupata delle conclusioni del Rapporto e ha avuto, nello scorso gennaio, una riunione con l'Agente Generale dei pagamenti.

Nessun fatto concreto è tuttavia da rilevare da allora, né nel funzionamento del piano né per un avviamento ad intese circa il suo futuro assetto.

Il punto di vista italiano in questa materia è chiaro e ben noto. Esso risulta da tutta una serie di documenti: note diplomatiche, dichiarazioni pubbliche, disposizioni legislative. Si fonda sull'abbinamento, e anzi sull'interdipendenza, fra le riparazioni e i debiti, che per noi è fondamentale e assolutamente inderogabile. L'esistenza di questo abbinamento (debiti-riparazioni), costantemente mantenuto da quando i due problemi si sono affacciati, si è venuta confermando e avvalorando nello sviluppo storico dei problemi medesimi: le sistemazioni dei debiti vengono subito dopo la sistemazione, sia pure provvisoria, dei pagamenti tedeschi (piano Dawes); la cifra dei pagamenti italiani verso l'Inghilterra e verso gli Stati Uniti s'inquadra e corrisponde a quella che, secondo gli accordi vigenti, l'Italia deve ricevere dalla Germania, e tali pagamenti sono assicurati in modo autonomo dal funzionamento della Cassa d'ammortamento per il debito estero.

Volendo trarre una conclusione sullo stato attuale della questione, pare si possa ritenere in modo sicuro soltanto questo: che la seconda fase delle riparazioni si avvia al suo termine, il concetto della revisione del piano Dawes essendo ormai generalmente accettato. Quanto però al tempo e al modo in cui essa prenderà fine non sussistono tuttora elementi precisi di giudizio.

La questione è oltremodo complessa. Oltre agli elementi politici e finanziarî propri al problema delle riparazioni e a quello dei debiti, si unisce pure la considerazione del problema dell'occupazione renana per sé e per i riflessi che ha anche sull'altro della sicurezza.

Per concludere, è convinzione mia e del Governo che se si riuscisse a mettere la parola "fine" al capitolo della storia che prende il nome di « riparazioni » ne verrebbe un giovamento indubbio all'economia europea e mondiale e quindi entrerebbe in gioco un altro elemento importantissimo di stabilizzazione della pace.

Un'altra questione che ha in questi ultimi tempi vivamente appassionato i circoli politici, diplomatici, militari del mondo è quella del disarmo. È necessario rifarsi ab ovo, rievocare, cioè i precedenti storici della questione, per afferrarne lo sviluppo e prospettarne le possibilità e stabilire qual'è stato l'atteggiamento dell'Italia, che è stata sempre e molto egregiamente rappresentata dal vostro collega senatore De Marinis. Egli ha reso durante le lunghe conferenze, preziosi servigi al Paese. Permettete che io apra una parentesi per tributargli pubblicamente il mio elogio e il mio compiacimento.

L'Assemblea della lega delle Nazioni del settembre 1923 aveva raccomandato un progetto di Trattato generale di mutua assistenza, ma l'accordo non intervenne fra i Governi.

Il progetto venne ripreso dall'Assemblea del 1924, e, parzialmente modificato, diventò il progetto di Protocollo il quale si basava sul trinomio « arbitrato, sicurezza, disarmo ».

Tutto l'anno 1925 fu occupato dalle discussioni relative al « Protocollo », e poiché era stato inteso che la Conferenza per la limitazione e la riduzione degli armamenti sarebbe stata convocata soltanto dopo l'entrata in vigore del Protocollo, i lavori preparatori della Conferenza rimasero sospesi durante tutto questo periodo.

Caduto il Protocollo e venuta a mancare la base dei lavori, l'Assemblea nel 1925 fa chiamata a dare nuove dìrettive.

Ispirandosi ai « Patti di Locarno », che si stavano allora elaborando, e rinunciando alla ricerca di una soluzione generale del problema della sicurezza quale si era creduto di trovare col Protocollo, l'Assemblea definì il programma da svolgersi nell'avvenire con la formula: « Disarmo progressivo, proporzionato alle condizioni esistenti della sicurezza generale e regionale ».

Per mettere in esecuzione tale programma, il Consiglio creava nel dicembre 1925 la « Commissione preparatoria della Conferenza del disarmo ».

Questa Commissione, fiancheggiata da numerose sottocommissioni e Comitati tecnici militari, ha compiuto dapprima uno studio particolareggiato di tutte le questioni connesse al problema del disarmo, e nel marzo 1927 ha iniziato l'esame di due « progetti di Convenzione » quello inglese presentato da Lord Cecil, e quello francese presentato da Boncour.

La Commissione si è sforzata di fissare un testo unico che potesse servire di base ad una seconda lettura; senonché l'unanimità non venne raggiunta e dovette quindi contentarsi di elaborare un documento il quale, sotto forma di tavola sinottica, presenta il testo unico discusso con a fianco le numerose varianti e riserve indotte dalle singole delegazioni per la maggioranza degli articoli. Sebbene si usi dire che tale progetto è stato approvato in prima lettura, in realtà esso f a risaltare, piuttosto che l'accordo, le divergenze gravissime che sono state constatate su molti degli aspetti essenziali del problema del disarmo.

La sessione di marzo-aprile 1927 si sciolse nell'intesa che si facesse luogo alla seconda lettura solo quando fossero intervenuti fra i Governi delle Potenze maggiori degli accordi circa la proporzione dei rispettivi armamenti. L'Assemblea del settembre 1927 si riunì quindi in un momento in cui il problema del disarmo si presentava ad essa in tutta la sua complessità, messa in rilievo dalle difficoltà tecniche incontrate dalla Commissione preparatoria e dal recente fallimento della Conferenza navale. Per cercare di superare questo punto morto, l'Assemblea, constatato che la questione del disarmo è intimamente legata a quella della sicurezza, e che questa volta è in funzione dello sviluppo del principio dell'arbitrato, invitava la Commissione preparatoria a costituire un « Comitato speciale » incaricato di studiare le misure suscettibili di dare a tutti gli Stati le garanzie di arbitrato e di sicurezza necessarie per poter fissare in un contratto internazionale il livello dei propri armamenti con le cifre più basse possibili.

Alla fine di novembre 1927, la Commissione preparatoria si riunì nella sua quarta sessione per dare seguito alla risoluzione dell'Assemblea. A questa sessione parteciparono per la prima volta i delegati del Governo dei Sovièts.

Fatti salienti della sessione di novembre sono stati:

1. - La presentazione della tesi russa del disarmo generale, immediato ed integrale (il Governo dei Sovièts esclude la possibilità di un accordo per una riduzione parziale, perché ritiene che i diversi Stati non riusciranno mai a mettersi d'accordo sul grado di sicurezza sufficente per poter ridurre i propri armamenti).

2. - Il contrasto fra la tesi francese, che vuol subordinare il disarmo alla sicurezza, e quella tedesca, che chiede il disarmo come adempimento derivante dal trattato di Versailles e dal patto della Società delle nazioni.

Il 20 febbraio scorso si riunì il « comitato di sicurezza e di arbitrato », il quale elaborò diversi tipi di trattati di arbitrato e conciliazione, di non aggressione e di mutua garanzia, che esso suggerisce come modelli utili da adottarsi fra i diversi gruppi di Stati.

La maggior parte di questi modelli di convenzione non presentano che un interesse prevalentemente scientifico e dottrinale. Un certo interesse politico riveste invece il tipo di « trattato regionale di sicurezza » (che si avvicina per certi riguardi ai patti di Locarno), il quale dovrebbe - secondo le tendenze manifestatesi fra i rappresentanti della Piccola Intesa - servire da modello per dei trattati multilaterali di garanzia nella regione danubiana e nei Balcani.

L'ultima riunione della Commissione preparatoria ha avuto luogo nella seconda metà del marzo passato. Sono noti i suoi risultati, « assolutamente negativi ».

La Commissione ha discusso in primo luogo il progetto russo di disarmo integrale, immediato e generale. All'infuori del delegato tedesco, il quale, per evidenti ragioni tattiche, si era dichiarato favorevole al progetto, l'unanimità delle altre delegazioni lo ha respinto come praticamente inapplicabile.

Si è discusso poi se fosse il caso di passare subito alla seconda lettura del progetto di convenzione del 1927. Il delegato tedesco insistette in questo senso, ma la grande maggioranza si pronunciò in senso contrario e la Commissione si sciolse rinviando la seconda lettura alla prossima sessione da convocarsi dal presidente ad epoca indeterminata.

Si ricorderà che nelle ultime sedute della Commissione il conte Bernsdorff ha protestato ripetutamente contro il sistema dei continui rinvi. Egli si è espresso in termini molto vivaci, parlando del « credito » della Germania e della « cambiale » che i vincitori avevano firmato a Versailles e che non è stata fino ad ora onorata.

Il malcontento tedesco è stato espresso in termini non meno vivaci anche da Stresemann in un suo recente discorso. Il ministro tedesco degli Affari Esteri ha detto chiaramente che la Germania era stanca di aspettare e ha lasciato capire che egli intendeva portare la questione avanti all'Assemblea nel prossimo settembre.

È chiaro che i lavori della Commissione preparatoria sono arrivati una seconda volta a un punto morto. Sarebbe perfettamente inutile di affrontare la seconda lettura nella condizione attuale delle cose, e cioè prima che fra i Governi delle grandi potenze siano intervenute intese sui principali punti di divergenza.

Nel corso della recente sessione della Commissione preparatoria, il delegato francese, allo scopo di giustificare il rinvio dei lavori, ha dichiarato alla Commissione che « fra i Governi più interessati erano in corso delle conversazioni le quali lasciavano sperare un esito favorevole ».

Una analoga dichiarazione, dettata evidentemente dalla stessa preoccupazione di giustificare il rinvio, è stata fatta dal delegato inglese.

In realtà queste pretese conversazioni si riducono a poca cosa. Vi è bensì stata la recente proposta inglese per esaminare la possibilità di accordarsi su una riduzione del dislocamento ed armamento delle navi di linea e sul prolungamento dei loro limiti di età.

Tale proposta ha dato luogo a Ginevra, fra gli esperti navali delle grandi potenze, a scambi di vedute ufficiosi, che però non hanno portato a nulla di conclusivo, la proposta britannica non essendo apparsa accettabile né agli italiani, né ai francesi, né ai giapponesi, e neppure agli americani.

In materia di armamenti terrestri, il rappresentante militare francese ha avuto col delegato italiano delle conversazioni nelle quali ha insistito sulla opportunità che i due paesi si mettano d'accordo. Egli si è però tenuto molto sulle generali e non ha enunciato alcuna proposta concreta.

Con tutto ciò non può escludersi - e sembra anzi da prevedere - che, prima dell'Assemblea del prossimo settembre, da parte inglese o francese (e forse anche d'accordo fra i due paesi), venga presa la iniziativa di trattative fra le grandi potenze per tentare di fare qualche progresso in materia di limitazione o riduzione di armamenti.

Ciò per poter controbattere la tesi tedesca, che si fonda sul dilemma:
« O le altre potenze riducono i propri armamenti secondo l'impegno preso nel trattato di Versailles e nell'articolo 8 del patto, oppure la Germania deve essere autorizzata ad armarsi in proporzione ».
La posizione presa dalla delegazione italiana di fronte al problema della limitazione o riduzione degli armamenti è solidamente fondata su alcuni punti fissi:

l. - Interdipendenza di ogni genere di armamento.

2. - La proporzione degli armamenti « non » deve essere basata sullo statu quo.

3. - I limiti degli armamenti dell'Italia non possono avere carattere assoluto, ma dovranno essere relativi agli armamenti totali degli altri Stati (parità con la nazione continentale europea più armata).

4. - Il Governo italiano si dichiara a priori disposto ad assumere, come limite dei propri armamenti, cifre qualsiasi, anche le più basse, purché non sorpassate da alcun'altra potenza continentale europea.

5. - I metodi da impiegare per ottenere le limitazioni devono rivestire carattere della massima semplicità e non implicare la necessità di controllo esterno.

Ai principi suesposti, è stata costantemente ispirata l'attitudine della delegazione italiana, e la Commissione preparatoria ben conosce quindi il punto di vista del Governo in materia di disarmo.

Tale punto di vista è bene sia proclamato chiaramente e pubblicamente anche da questa tribuna, poiché troppe volte si parla di militarismo italiano, lieve pagliuzza al paragone di molte grosse travi altrui.

Quasi per connessione di idee, voglio parlare della Società delle nazioni.

Anche a questo proposito si muovono accuse al Governo fascista, di ostilità o almeno di scarsa simpatia verso la Lega delle nazioni. Accuse o insinuazioni completamente infondate. Il Governo italiano non attribuisce alla Società delle nazioni - almeno nell'attuale periodo storico - le virtù quasi mitologiche, che le attribuiscono taluni rispettabili idealisti. Ma il fatto di proporzionare l'Istituto di Ginevra alle condizioni storiche nelle quali è nato e alle sue reali possibilità, non significa ostilità o disinteresse. La verità è che l'Italia partecipa alla Lega delle nazioni col convincimento. che la Lega delle nazioni è stata utile in molte circostanze e può esserlo ancora. La verità è che la partecipazione dell'ltalia alla vita della Lega delle nazioni è attiva in ogni campo, anche per il fatto che l'Italia è rappresentata nel Consiglio della Lega dal vostro collega senatore Scialoja, del quale sarebbe superfluo esaltare le virtù, la dottrina, l'ingegno e il personale prestigio.

In tutte le questioni, specialmente in quelle più controverse, egli ha portato il suo contributo universalmente e giustamente apprezzato. Ma a dimostrare il vero atteggiamento del Governo fascista verso la Lega delle nazioni stanno tre iniziative che il Governo fascista ha proposto e posto sotto l'egida della Società delle nazioni e cioè l'Istituto internazionale per l'unificazione del diritto privato, l'Unione internazionale del soccorso, l'Istituto internazionale del cinema educativo.

L'Istituto internazionale per l'unificazione del diritto privato, che, a norma dello Statuto; approvato dal Consiglio fin dal 15 marzo 1926, è stato inaugurato il 30 maggio nella sede assegnatagli: la bella storica Villa Aldobrandini.

Esso ha per scopo principale lo studio dei mezzi più adatti per armonizzare e coordinare il diritto privato dei vari Stati e quindi preparare l'avvento di una legislazione uniforme nel campo di quel ramo del diritto.

L'adesione dei principali Stati conferisce all'Istituto una particolare importanza.

È pure dovuta ad iniziativa italiana e precisamente del vostro collega Ciraolo, la creazione dell'Unione internazionale di soccorso, con lo scopo di alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite da calamità.

Infine, il Governo, attuando i voti espressi a più riprese in occasione di congressi e riunioni internazionali, è venuto nella determinazione di creare in Roma l'Istituto internazionale del cinematografo educativo, che sarà posto, come quello del diritto internazionale privato, sotto il patronato morale della Società delle nazioni.

Il consenso incontrato a Ginevra presso i vari Governi, e negli ambienti intellettuali, dà affidamento sicuro dei risultati che saranno raggiunti nel campo della diffusione della cultura popolare per mezzo del cinematografo.

Questi sono « fatti » eloquenti più di qualsiasi discorso a caratterizzare l'atteggiamento del Governo fascista verso la Lega delle nazioni.

L'ultima parte del mio discorso è dedicata a quello che chiamerò il riordinamento e il funzionamento dell'amministrazione che io dirigo. In questo campo l'opera del ministero degli Affari Esteri nel periodo di tempo trascorso dalle mie ultime dichiarazioni dinanzi al Senato è stata intensa e fattiva.

Con ogni cura si è provveduto perché il personale fosse rinnovato in modo da rispondere alle esigenze dell'Italia fascista e perché gli uffici che lavorano all'estero fossero sistemati e attrezzati in modo da servire quali organi solerti di attuazione della politica estera determinata dal Governo.

Nell'amministrazione centrale numerosi uffici creati e soppressi; una più razionale distribuzione dei servizi dettata dall'esperienza e suggerita da nuove esigenze hanno reso il ministero più organico e più snello imprimendogli un ritmo più celere e un impulso più vivo.

La carica di segretario generale è stata abolita e le funzioni direttive del coordinamento nella trattazione degli affari, della disciplina, e del funzionamento degli uffici e servizi sono state accentrate nel sottosegretario di Stato.

Mentre la trattazione degli affari politici, commerciali e privati è rimasta affidata alle due direzioni generali dell'Europa e Levante e dell'Anierica, Asia, Africa e Australia, tutta la parte più particolarmente amministrativa del ministero, che era suddivisa in due direzioni generali, è stata raggruppata nella direzione generale degli Affari generali, ed è stato istituito uno speciale servizio per la Cifra, la Corrispondenza e gli Archivi, che hanno grande importanza dato il carattere speciale degli affari, la riservatezza degli argomenti e anche il rilevante numero delle pratiche (quattrocentomila dispacci e cinquantamila telegrammi in un anno).

È stato in pari tempo riformato e riorganizzato l'ufficio storico-diplomatico, al quale è ora affidato il còmpito di ordinare tutta la documentazione che affluisce al ministro attraverso il carteggio delle Rappresentanze e la lettura della stampa estera e italiana, di seguire con un diario sintetico il divenire dei singoli Stati, di raccogliere in appositi quaderni (in numero di 2147) gli elementi interessanti le relazioni fra gli Stati, di tenere al corrente schedari nei quali sono compresi tutti gli argomenti di principale interesse, di provvedere alla stampa dei documenti di maggiore rilievo, di curare le raccolte dei documenti diplomatici; di diramare alle Rappresentanze i telegrammi e rapporti dei quali è bene esse abbiano conoscenza, di fornire monografie e studi di carattere generale.

Sopperendo ad una lacuna preesistente, è stato di recente costituito, ad assistere il ministro degli Esteri in questo periodo di trattati, nell'èra degli esperti, un collegio di giuristi alla testa dei quali è il senatore Vittorio Scialoja. Contemporaneamente è stato creato l'ufficio trattati ed atti, al quale è affidata tutta la parte formale relativa agli atti internazionali stipulati dall'Italia, alla loro raccolta e pubblicazione. Può forse interessare il Senato il sapere che nel corso di questi due anni il Governo italiano ha proceduto alla firma di centotrentaquattro atti internazionali.

Un altro organismo di recentissima istituzione è il Comitato per la diffusione della cultura italiana all'estero. La diffusione della cultura all'estero è certamente un mezzo di penetrazione duraturo ed efficace. Ma troppe istituzioni, troppi enti, società e organismi pubblici e privati in Italia e all'estero si sono prefissi questo scopo, con mezzi quasi sempre non adeguati; troppo spesso quindi i loro sforzi si cumulano inutilmente, o peggio ancora, si elidono. Il nuovo Comitato deve studiare i mezzi per coordinare e indirizzare utilmente le varie iniziative e farà luogo ad un ufficio permanente con questo preciso incarico. Nel frattempo, è continuata attivamente l'opera della direzione generale delle scuole italiane all'estero: cento nuovi insegnanti, nuove scuole elementari in Algeria, Argentina, Bulgaria, Brasile, Cile, Egitto, Francia, Germania, Inghilterra, Marocco, Perù, Polonia, Romania, Svizzera, Uruguay; nuovi istituti medi o corsi superiori in Atene, Beirut, Corfù, Filippopoli, Porto Said; Rosario e Tangeri, con un aumento di circa seimila alunni, di cui gran parte di nazionalità straniera, nella popolazione scolastica delle nostre scuole all'estero; nuove cattedre e lettorati di lingua e letteratura italiana presso le Università di Praga, Bucarest, Cluj, Varsavia, Cracovia, Budapest, Marsiglia e Coimbra sono il confortante bilancio di queste attività.

Un'altra novità è il Bollettino del ministero degli Affari Esteri, richiamato a nuova vita e che viene ad aggiungersi alle altre pubblicazioni edite dal ministero degli Affari Esteri: la Rassegna della Stampa Estera e la Rassegna delle Riviste Estere, ormai largamente diffuse e di grande utilità per chi vuoi conoscere l'opinione della stampa mondiale sull'Italia e sui grandi problemi internazionali.

Il Bollettino del ministero degli Affari Esteri, nel quale è stato fuso il soppresso Bollettino dell'Emigrazione, consta di cinque parti. Le parti seconda, terza, quarta e quinta contengono le leggi e i decreti, i trattati, le convenzioni e gli accordi internazionali; le circolari, istruzioni, disposizioni varie, il massimario e la giurisprudenza. Nella prima parte sono mensilmente riprodotti gli avvenimenti e gli atti più importanti del Governo e del regime, che il console esporrà e commenterà alle più lontane collettività italiane in tutti i punti del mondo.

Ma la riforma organica di maggior momento è stata la soppressione del commissariato generale dell'Emigrazione, che costituiva per numero di personale e di uffici un vero e proprio ministero. La Direzione generale degli italiani all'estero subentrata al commissariato generale ha già condotto a termine il suo lavoro di trasformazione e di assestamento interno e consterà in tutto di soli sette uffici, ivi compresi quelli che già esistevano al ministero Affari Esteri e che le sono stati attribuiti.

Né la Direzione generale degli italiani all'estero limita il suo compito all'assistenza burocratica ed amministrativa dell'emigrante. Anzitutto è questa una figura che tende a scomparire dalla terminologia italiana. Non vi è più l'emigrante da un lato e il cittadino dall'altro. Vi è sempre e dovunque, ricco o povero, lavoratore manuale o intellettuale o turista, il cittadino italiano. Uguali diritti, uguali doveri. Ho dato ordine che sia abolito il passaporto per gli emigranti, che accompagnava, quasi un marchio di minorazione, il lavoratore sprovvisto di mezzi di fortuna, disponendo che sia istituito per tutti i cittadini indistintamente, un nuovo tipo unico di passaporto.

L'italiano onesto e fedele al regime ha diritto di tenere orgogliosa mente alta la testa, in patria e all'estero, qualunque sia la sua condizione sociale.

Il compito della nuova Direzione generale è stato tracciato in una circolare da me diramata in occasione della ·sua istituzione e che diceva:
« Il Governo fascista non considera il problema emigratorio solamente come un fatto d'ordine tecnico-amministrativo, ma essenzialmente come un problema d'ordine politico.
E la tutela delle collettività italiane all'estero deve essere esercitata secondo un concetto unico ed inscindibile.
Non vi può essere una tutela tecnica ed assistenziale disgiunta dalla tutela politica. E viceversa.
Uniche direttive, in un solo organo, al centro: il ministero degli Affari Esteri.
Unici ed inscindibili i compiti e le responsabilità di chi rappresenta, in seno alle collettività italiane all'estero, la sovranità dello Stato: il console.
Dalla pratica burocratica che interessa il singolo alla grande manifestazione della collettività, è tutta una vasta opera che deve essere meditata ed organica, appassionata e tenace, di protezione e di difesa dell' Italianità.
È mio intendimento che, attraverso la Direzione generale degli italiani all'estero, sia tutelata la vita, coordinate ed incoraggiate le attività, eccitate le iniziative della nostra gente nei paesi stranieri ».
Secondo queste direttive, la nuova Direzione generale, in stretta, continua collaborazione con la segreteria dei Fasci all'estero, segue ed assiste tutti i nuclei d'italiani all'estero, raccOlti intorno al console e al Fascio, favorendone attivamente le istituzioni assistenziali e dopolavoristiche, le iniziative d'ordine sportivo e culturale.

In pari passo col riordinamento dell'amministrazione centrale sono state portate alla massima efficenza le rappresentanze all'estero.

Il Governo fascista ha dotato le ambasciate e le legazioni di sedi degne di una grande nazione.

I palazzi demaniali ove risiedono le nostre Rappresentanze diplomatiche costituiscono fra l'altro un'affermazione dell'arte e dell'industria italiana.

La rete consolare è stata tutta riordinata secondo le nuove esigenze. L'Italia ormai direttamente o indirettamente partecipa in tutti i problemi che economicamente o politicamente interessano il mondo moderno. È necessario quindi che in ogni zona più o meno interessante o sensibile del globo, l'Italia sia rappresentata, e degnamente e proficuamente rappresentata. Dalla fondazione del Regno il problema non era mai stato organicamente affrontato. Centocinquanta consolati di prima categoria non potevano essere sufficenti per un paese come l'Italia, che ha dieci milioni dei suoi figli sparsi per il mondo, che ha una Marina mercantile che occupa il quarto posto nelle Marine del mondo e le cui navi solcano le vie di tutti i mari, che ha un'industria florida che attinge le sue materie prime in tutti i mercati, che ha bisogno di procurare ai suoi prodotti sbocchi sempre più numerosi. Il Governo fascista ha quindi provveduto alla revisione organica di tutte le circoscrizioni consolari ed alla creazione di quaranta nuovi consolati.

Altri trenta uffici si sono manifestati necessari e saranno istituiti a mano a mano che le condizioni del bilancio lo permetteranno. Ma i mezzi non sono tutto. Condizione essenziale di una politica estera attiva e vigilante è la capacità degli uomini che debbono eseguirla. Il problema del personale assume perciò presso l'amministrazione degli Esteri eccezionale importanza. In questi due anni l'amministrazione è stata lavorata giorno per giorno per infondere l'anima nuova, il ritmo più . sollecito nel tronco della tradizione di cultura, di assoluta probità e di fermo patriottismo che è retaggio antico dei diplomatici e dei consoli italiani. Per ciò fare si sono dovuti allontanare uomini che erano rispettabili e coscienziosi servitori del paese, ma rispecchiavano altri metodi e risentivano di altra mentalità. Durante questi due anni l'amministrazione ha dovuto provvedere, non di rado a malincuore, al collocamento a riposo di quarantaquattro funzionari. Sono stati nominati nel corso di questi ultimi due anni undici ambasciatori d'Italia su tredici; trenta ministri plenipotenziari; i titolari di centodieci consolati generali e consolati; tutti i direttori generali del ministero tranne uno.

Il Senato, che di recente l'ha approvata, conosce lo spirito informatore della legge 2 giugno 1927 che regola - oggetto di meditata riforma - l'ordinamento della carriera diplomatico-consolare.

In seguito alla fusione dei ruoli nei primi gradi, tutti i diplomatici, prima di essere chiamati un giorno a rappresentare il nostro paese, dovranno aver servito qualche anno nei consolati a contatto con le collettività italiane, con le loro sofferenze, e i loro bisogni; a contatto con la quotidiana realtà della vita. In pari tempo la specializzazione al grado settimo della carriera permetterà di assegnare rispettivamente ai gradi superiori del ruolo consolare e ai gradi del ruolo diplomatico gli elementi che durante il corso di parecchi anni avranno dimostrato o per l'uno o per l'altro maggiori attitudini e maggiori capacità. Dalla riforma trae poi nuovo prestigio e maggiori vantaggi di carriera il ruolo consolare i cui funzionari possono giungere ora fino al terzo grado. La riforma è stata integralmente attuata ed i pÌimi risultati sono soddisfacenti.

Per coprire i nuovi uffici consolari creati e per sopperire alle nuove esigenze della politica estera italiana, la legge 2 giugno 1927 porta un aumento di centoquattro posti nel ruolo consolare.

Per provvedere alle vacanze, il Governo ha avuto facoltà per la durata dì un anno dì nominare in ruolo in qualsiasi grado persone estranee all'amministrazione. Questa facoltà è scaduta precisamente il 2 giugno. A coprire questi posti il capo del Governo ha chiesto al Partito uomini già pronti per i posti difficili a cui li destinava: uomini che all'esperienza della guerra e del fascismo unissero i requisiti culturali e tecnici indispensabili. Era una prova difficile per la quale molti dubbi erano stati affacciati dai soliti vociferatori. La prova ha dato esito pienamente soddisfacente. L'amministrazione ha accolto con fraterno cameratismo i nuovi colleghi; essi hanno risposto gareggiando in operosità e in capacità.

Accanto ai funzionari entrati prima della guerra che, passati più volte in questi quattro anni attraverso una dura selezione, hanno dimostrato di possedere oltre. ai requisiti morali, intellettuali e tecnici e alla lunga esperienza, sicura comprensione dei tempi e fedeltà al regime, accanto ai giovani entrati dopo la guerra attraverso i concorsi per esami, che costituiscono oltre metà dei funzionari diplomatico-consolari, e sono in gran parte combattenti, moltissimi decorati al valore, tutti o quasi fascisti, i nuovi consoli e viceconsoli tratti dal Partito si sono mostrati degni del loro compito ed hanno portato alla nuova carriera il contributo inestimabile della loro passione e della loro fede.

Quattordici deputati sono stati nominati consoli generali e destinati a posti di alta responsabilità e di proficuo lavoro. Altri settantatre fra consoli e viceconsoli di nomina recente sono già alla testa dei loro uffici all'estero o stanno per raggiungerli. Sono terminati in questi giorni due concorsi, che hanno dato cinquantadue tra consoli, viceconsoli, addetti e volontari. Complessivamente in questi due ultimi anni sono stati nominati centoventotto nuovi funzionari fascisti.

Piace qui di ricordare che su quattrocentosettanta funzionari consolari e diplomatici attualmente in servizio vi sono duecentoventidue combattenti, tre medaglie d'oro, cinquantasei di argento, cinquantotto di bronzo, centottantaquattro croci di guerra.

Il reclutamento dei funzionari diplomatico-consolari continuerà in seguito normalmente dal basso mediante esame di concorso attraverso il quale i giovani intellettualmente e moralmente migliori avranno il modo di nobilmente servire il loro paese.

Un sintomatico esempio della passione che la politica estera e il servizio dello Stato nei consolati e nelle legazioni inspira alla gioventù fascista e combattente italiana può aversi nel fatto che mentre al concorso per titoli riservato ai maggiori di trenta anni hanno partecipato trecentosettantadue fascisti ex combattenti, contemporaneamente novanta giovani fascisti hanno fatto domanda di sostenere gli esami di concorso per la nomina a venti posti di volontario e ciò malgrado che le condizioni per l'ammissione siano state questa volta rese assai più difficili anche per i requisiti fisici e militari richiesti. Un'opportuna selezione ha ridotto a sessantasette gli ammessi al concorso, a trentatre gli idonei.

Un'altra innovazione è stata quella del regio assenso per il matrimonio dei funzionari delle carriere all'estero.

È un provvedimento che si appalesa necessario appena si consideri quanto la moglie del diplomatico o del console sia partecipe· della vita e delle funzioni del marito. Saranno così garantite nelle famiglie dei funzionari quelle doti di decoro e di signorilità che sono indispensabili per un funzionario destinato a rappresentare all'estero il proprio paese.

Si è provveduto infine anche ai ruoli meno elevati ma pur tuttavia di sensibile importanza per le delicate mansioni che esplicano. La legge 2 giugno 1927 istituisce infatti centodieci cancellieri all'estero appartenenti al gruppo B, ai quali saranno destinate le funzioni che finora venivano disimpegnate o da funzionari diplomatico-consolari o da personale locale avventizio col palese inconveniente o di distogliere funzionari superiori dalle loro mansioni per adibirli a lavoro per il quale è sufficente un grado di cultura media o di affidare ad elementi avventizi - talora di discussa sicurezza - un ramo del servizio fra i più delicati, quale è quello della conservazione, del riordinamento e della copia di incartamenti riservati.

Rinsanguate così le sue forze, fusi in una sola ordinata gerarchia i suoi gregari, temprati in un solo orgoglio e in una sola fede, l'amministrazione degli Esteri, chiuso quest'anno di riforme essenziali, continua nella sua vita, rinnovata, fortificata, a somiglianza e immagine del paese e del fascismo, che essa è chiamata all'estero a rappresentare, a difendere, ad affermare.

I funzionari di questa amministrazione meritano che io li elogi in questa Assemblea. Tale elogio io rivolgo in primo luogo al mio più vicino e diretto collaboratore, l'on. Grandi, il quale congiunge ad una solida preparazione, un oramai lungo tirocinio, che lo ha portato in questi ultimi anni a conoscere da vicino uomini e problemi politici internazionali. Egli si è anche dedicato con particolare diligenza al rin· novamento e inquadramento del personale, che oggi, dal più elevato in grado al più basso, risponde sempre meglio alle crescenti esigenze della nostra azione politica nel mondo.

Onorevoli senatori!

La stessa mole di questo discorso, per il quale ho forse abusato della vostra attenzione, mi dispensa da ogni perorazione specialmente retorica. Avete certamente notato che i miei discorsi sono sempre più rari e posibilmente sempre più brevi. Ma quello d'oggi è stato un vero e proprio rendiconto dettagliato e documentato - una specie di consuntivo - di sei anni di politica estera del Governo fascista. Sei anni pieni di avvenimenti e di responsabilità. Sei anni di lavoro delicato e paziente. La politica estera di un grande popolo richiede uno sforzo continuativo, una vigilanza pronta, una sicura conoscenza degli ambienti e delle questioni. Quando si parla di politica estera si deve considerare che ogni partita è giocata in due o in parecchi; che le situazioni non sono statiche, ma mutevoli; e che spesso bisogna sapere attendere tranquillamente senza esaltazioni per il successo o depressioni per il viceversa poiché, ad esempio, quello che non si è ottenuto nel 1923 si può avere nel 1928. La politica estera in tempo di pace è la sagace preparazione di situazioni che possono maturare assai lentamente, è la onnipresente difesa degli interessi materiali e morali della nazione.

La nuova costituzione politica dello Stato italiano e la politica estera del Governo fascista, hanno, si può affermare senza peccare di superbia, posto l'Italia all'ordine del giorno del mondo. Molte calunnie cadono o sono cadute: per quanto nessuno possa giurare che la guerra sia definitivamente scomparsa dalla scena della storia, l'Italia vuole la pace, ma non può, non deve trascurare i necessari presidi armati della sua unità, della sua indipendenza, della sua sicurezza, né può né deve rinunciare alla educazione morale e militare delle nuove generazioni. Con queste direttive l'Italia ha non soltanto - come risulta dal mio consuntivo - risolto molti problemi che la riguardano, ma ha un « peso » nella politica internazionale, quale non ebbe mai. Il suo astro sale lentamente all'orizzonte. Questa è - pur fra molte difficoltà - indiscutibilmente opera del regime fascista.

Onorevoli senatori!

Ricordate e, nella vostra sicura coscienza, giudicate!