Nel ricordo di Niccolò Giani, discepolo di Arnaldo Mussolini
di Fernando Mezzasoma
Niccolò Giani apparteneva alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere se la vita è nobilmente spesa ma è più belìo morire se la vita è donata all'Idea. Arnaldo Mussolini fu il suo maestro: da Arnaldo imparò che prima di agire e costruire è necessario elevarsi, purificare il proprio spirito, affinare il proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e guidare gli altri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire inesorabilmente i propri difetti, affinare incessantemente le proprie virtù: allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose piccole e vili. Ciò che non costa non vale; ciò che non procura fatica e sofferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le cariche, le ricchezze sono effimere e caduche cose. Quello che importa è quanto è dentro di noi, perché è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via, neanche a strapparci la carne viva di dosso. Essere se stessi in ogni momento, rimanere se stessi sempre, ecco la più alta conquista degli uomini.
Uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sue fede era di quelle che non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alle cui fonti cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli uomini puri i quali sanno che, se si vuole raggiungere l'ultima cima, molte vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su altre vette più alte ancora. In Giani la fede nasceva da un inesausto tormento spirituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista per divenire, come dice il Poeta, « cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda ».
Egli credeva in Dio, nel Dio di noi italiani fascisti e cattolici a cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e giustizia che la nostra gente svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella dottrina politica annunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata dalla fede, consacrata dal sacrificio e nella sua possibilità di instaurare un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta e umana delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana ed europea. Credeva in Mussolini perché lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'esponente di una razza eletta, il fondatore di una civiltà universale, il protagonista e l'artefice di una nuova storia, il condottiero di giovani generazioni, il duce, a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando si arriverà perché dal giorno in cui un destino fortunato lo pose alla testa del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel suo pugno.
Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del fascismo, educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito e nel sangue, generosi e audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sognava una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel sacrificio, di essere degna del nostro grande popolo e del nostro grande capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro indipendenza morale - la sola ricchezza umana che non abbia un valore misurabile in denaro - e dotati di tutte le virtù spirituali, intellettuali e fisiche che sono indispensabili per potere esercitare con dignità e con efficacia la missione del comando. Concepiva la famiglia nel senso più tradizionalmente nostro; amava cioè la sana numerosa famiglia italiana, ricca di onestà e prodiga di figli, sbocciata dall'amore tra l'uomo che vive lavorando o combattendo per la Patria e la donna che nel piccolo grande regno della casa vive nella serena e operosa attesa del ritorno di lui e se l'uomo non tornerà la donna lo piangerà senza lacrime perché egli sopravviva nella fierezza dei figli, i quali continueranno, nella luce del suo esempio l'opera sua.
Credeva nella Patria come « la più dura, la più grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria anima ». Tutto per la Patria: fu la consegna. Niente per lui valeva qualche cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli altri; le generazioni che furono, che sono e saranno: la storia di ieri, di oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni. Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera, per essa si combatte, si vince o si muore.
Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il giornalismo come una Scuola di vita, come uno strumento di educaziome e di formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, « La Cronaca Prealpina », e da quelle della sua rivista « Dottrina fascista » si battè accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario, dinamico, coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una funzione costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un giornalismo che fosse degno di essere considerato un'arma affilata della Rivoluzione.
Ma soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'insegnamento si era consacrato con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte le attività rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di preparazione politica, alla Scuola di Mistica fascista egli portò il contributo della sua bella cultura fatta di conoscenza e di azione, illuminata dalla fede, riscaldata dal sentimento. Alla Scuola di Mistica diede la parte migliore di se stesso.
« Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla Scuola – ha detto Vito Mussolini, nostro presidente – proviene unicamente da lui. Bisognerà ricordarlo sempre e presentarlo come un mirabile esempio ai giovani che in lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai comandamenti del Duce ».
Era il migliore tra noi: il più limpido, il più generoso, il più puro. Della nostra mistica fede fu l'alfiere più ardito e l'apostolo più acceso. Egli voleva che dalla nostra scuola uscissero i missiomari, i portatori del nostro credo politico e fu egli stesso il più tenace e il più convinto assertore dei principii che sono a fondamento della nostra dottrina.
La Scuola sorse con lui per la volontà di un manipolo di credenti che egli chiamava i « disperati del Fascismo » così come gli squadristi un tempo amavano chiamarsi « fascisti arrabbiati ». All'inizio, la scuola fu un'attività del G.U.F. milanese, divenne quindi un'attività di tutti i Gruppi Fascisti Universitari. Oggi si è imposta al rispetto e all'attenzione di tutti i fascisti. La sua opera è rivolta ai giovani, ma la sua azione è seguita ed amata anche dai camerati della vecchia guardia che vedono con intima gioia esaltate e rinnovate ogni giorno, dagli allievi della Scuola, le due più preziose virtù dello squadrismo: la fedeltà e la intransigenza.
I camerati della vecchia guardia milanese sanno che il nome di Niccolò Giani è legato alla riapertura del « Covo » di via Paolo da Cannobio prima sede del Popolo d'Italia, prima trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai giovani della Scuola di Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi alle Sorgenti genuine della nostra Rivoluzione, cogliessero dall'umile grandezza delle origini la poesia ed il fermento della vigilia.
Niccolò Giani fu soprattutto un credente ed un intransigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico, ma solo i fanatici sanno dare movimento col sangue « alla ruota sonante della Storia ».
Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di compromesso, sul terreno della fede non ammetteva patteggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della barricata; dall'altra parte c'è il brutto, il male, la meschinità.
Mi piace di ricordarlo al convegno di mistica del febbraio 1940: eravamo alla vigilia della nostra guerra di liberazione e c'era in tutti noi una febbrile impazienza di decisione. Il tema del convegno era bruciante: « Perchè siamo dei mistici? ». I problemi dell'intelligenza e della cultura furono esaminati al lume della fede, i poveri di fede furono sbaragliati e Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo raziocinanti, agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento calcolatore.
La dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non quella che discende dalla indagine arida ed oziosa, la cultura che costruisce è quella che penetra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte.
Il convegno si svolse in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: « Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a vittoria ». Perchè credere non si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, e vincere non si può se non si combatte.
Fu in quel convegno, o giovani camerati della Scuola di Mistica, che i giovani della generazione del Littorio affermarono solennemente il loro diritto al combattimento.
Niccolò Giani fu tra i primi a partire. C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coerenza perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipato come volontario alla guerra per la conquista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire per la Spagna e non gli era stato concesso, finalmente sopraggiungeva la nuova prova lungamente attesa.
Chi lo vide tenente degli alpini al fronte occidentale lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardimento. Ma la parentesi fu troppo breve: tornò insoddisfatto. Andò in Africa settentrionale come corrispondente di guerra del « Popolo d'Italia »; ma quando seppe che il suo reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento.
Partì per non tornare. Tre volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu l'ultima. I suoi uomini lo adoravano, con lui sarebbero andati dovunque: potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle posizioni del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per un'impresa della quale si sarebbe dovuto parlare. Mantenne la promessa. Alla testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circondato, lottò eroicamente, fino a quando una pallottola gli recise la gola, gli spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza.
Così cadde Niccolò Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri. È triste non potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alla polla purissima della sua fede; ma egli ha chiuso la sua vita terrena in modo degno di lui. Arnaldo gli aveva insegnato che il segreto della vita è tutto qui: saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani ha voluto insegnare ai giovani della sua generazione come deve vivere e come sa morire un italiano di Mussolini.
La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non lo onora col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto anche se il cuore in questo momento accelera il ritmo dei suoi palpiti. Ma noi sentiamo che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file; il suo spirito inquieto è con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la strada che conduce alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere anche il nostro tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore anche il nostro amore, oggi, domani, sempre.
E noi sentiamo che Arnaldo, il suo ed il nostro Maestro, lo ha accolto nell'altra esistenza accanto al suo figlio prediletto ed agli altri Martiri della nostra Scuola, come il migliore dei suoi discepoli.