Saturday, 3 March 2012

Discorso di Bologna, 3 aprile 1921


di Benito Mussolini

Fascisti dell'Emilia e della Romagna! Cittadini bolognesi! Tutte le circostanze, a cominciare dalle accoglienze di ieri sera, dai canti di questa notte, a questo magnifico mareggiare di teste, al saluto che io accettai con trepida venerazione, dalla vedova del nostro indimenticabile Giulio Giordani, (applausi) alla presenza in un palco di due donne eroiche, vedove di eroi grandissimi: parlo di Battisti e di Venezian (applausi) ; tutto ciò potrebbe trascinarmi sopra un terreno dell'eloquenza che non è la mia. Ma io credo, io sono quasi certo che voi non vi attendete da me un discorso retorico, ma vi attendete da me un discorso duro ed aspro, come è nel mio costume. Ed allora noi ci parleremo schiettamente, fascisticamente.

Io ringrazio l'avv. Grandi che mi ha presentato a voi con parole troppo lusinghiere: io le accetto e credo di non commettere un peccato di orgoglio. Potrei dirvi socraticamente che se ognuno deve conoscere se stesso, anche io conosco e devo conoscere me stesso (applausi). Come è nato questo fascismo, attorno al quale è così vasto strepito di passioni, di simpatie, di odi, di rancori e di incomprensione? Non è nato soltanto dalla mia mente o dal mio cuore: non è nato soltanto da quella riunione che nel 1919 noi tenemmo in una piccola sala di Milano. È nato da un profondo, perenne bisogno di questa nostra stirpe ariana e mediterranea che ad un dato momento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali della esistenza da una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata (applausi).

Noi sentimmo allora, noi che non eravamo i maddaleni pentiti; noi che avevamo il coraggio di esaltare sempre l'intervento e le ragioni delle giornate del 1915; noi che non ci vergognavamo di avere sbaragliato l'Austria sul Piave e di averla poi mandata in frantumi a Vittorio Veneto; noi che volemmo una pace vittoriosa, noi sentimmo subito, appena cessata l'esaltazione della vittoria, che il nostro compito non era finito, ed io stesso sentii che il mio compito non era finito. Difatti ad ogni volgere di stagione si dice che il mio compito e il compito delle forze che mi seguono, sia finito. Nel Maggio 1915, quando i fasci di azione rivoluzionaria avevano spazzato da tutte le strade, da tutte le piazze e le vie d'Italia, perfino nei più piccoli borghi d'Italia il neutralismo parecchista, si disse: Mussolini non ha più niente da dire alla nazione. Ma quando vennero le tragiche e tristi giornate di Caporetto, quando Milano era grigia e terrea perché sentiva che se gli austriaci passavano e venivano nella città delle cinque giornate sarebbe stata la fine dell'Italia tutta, allora noi sentimmo di avere ancora una parola di dire. E dopo la vittoria, quando sorse la scuola della rinunzia più o meno democratica, che intendeva amputare la vittoria, noi fascisti avemmo il supremo spregiudicato coraggio di dirci imperialisti ed antirinunciatari.

Fu quella la prima battaglia che demmo nel Teatro della Scala nel Gennaio 1919. Ma come? Avevamo vinto, avevamo vinto noi per tutti, avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù, e poi si veniva a noi coi conti degli usurai, degli strozzini. Ci si contendevano i termini sacri della patria, e c'erano in Italia dei democratici, la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi), che ci lanciavano questa stolta accusa, semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero, dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso, perché là sono i naturali, giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo del fratelli della Dalmazia, perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro, ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo, a quelli di Corsica, a quelli che sono al di la' dell'Oceano, a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). Si notavano già le prime avvisaglie della offensiva pussista. Milano il 16 Febbraio assistette, fra lo sgomento e il terrore di una borghesia infiacchita e trepidante, ad una sfilata di 20 mila bolscevichi i quali, dopo aver inneggiato a Lenin dall'alto dei torrioni del castello, dissero che la rivoluzione bolscevica era imminente.

Allora io uscii all'indomani con un articolo che fece una certa impressione anche ad alcuni amici. Era intitolato: « Contro il ritorno della bestia trionfante ». Era un articolo in cui si diceva: noi siamo disposti a convertire le piazze delle città d'Italia in tante trincee munite di reticolati per vincere la nostra battaglia, per dare l'ultima battaglia contro questo nemico interno. E la battaglia disfattista iniziatasi con quella parata continuò per tutta l'estate quando fu rimestata fino alla nausea quella inchiesta sul disastro di Caporetto che un ministro infame, infamabile, da infamarsi (grida di « Morte a Nitti! Morte a Cagoia! Viva d'Annunzio! » ; applausi) aveva dato in pasto alla esasperazione ed ai giusti dolori di gran parte del popolo italiano.

Anche allora noi Fascisti avemmo il coraggio di difendere certe azioni che col misurino della morale corrente non sono forse difendibili. Ma, o signori, la guerra è come la rivoluzione: si accetta in blocco: non si può scendere al dettaglio: non si può e non si deve.

Ma intanto questa campagna aveva le sue risultanze elettorali. Un milione e 850.000 elettori misero nell'urna la scheda con la falce e il martello: 156 deputati alla Camera. Pareva imminente la catastrofe. Io fui ripescato suicida nelle acque niente affatto limpide del vecchio Naviglio. Ma si dimenticava una cosa: si dimenticava il mio spirito tenacissimo e la mia volontà qualche volta indomabile. Io, tutto orgoglioso del miei quattromila voti, e chi mi ha visto in quei giorni sa con quanta disinvoltura accettassi questo responso elettorale, dissi: la battaglia continua! Perché io credevo fermamente che giorno sarebbe venuto in cui gli italiani si sarebbero vergognati delle elezioni del 16 Novembre, giorno sarebbe venuto in cui gli italiani non avrebbero più eletto in due città quell'ignobile disertore che io in questo momento non voglio nominare. (Applausi; grida di « Morte a Misiano!). Tanto è vero che costui oggi essendo incapace di vivere nel dramma scende nella farsa e dopo avere disprezzato la guardia regia chiede a quella divisa la impunità e la salvezza.

Ma ancora non è finito l'avvento di questo Fascismo, di questo movimento straripante, di questo movimento giovane, ardimentoso ed eroico. Io solo qualche volta, io che rivendico la paternità di questa mia creatura così traboccante di vita, io posso qualche volta sentire che il movimento ha già straripato dai modesti confini che gli aveva assegnato. Infine noi Fascisti abbiamo un programma ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna di fuoco, perché ci si calunniava e non ci si voleva comprendere. E per quanto si possa deplorare la violenza, è evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari.

Ma noi non facciamo della violenza una scuola, un sistema o peggio ancora una estetica. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria del Fascismo una linea, uno stile nettamente aristocratico o se meglio vi piace nettamente chirurgico.

Le nostre spedizioni punitive, tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali, devono avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima rappresaglia. Perché noi siamo i primi a riconoscere che è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori combattere ora contro i nemici di dentro che vogliono o non vogliono sono italiani anch'essi. Ma è necessario, e fin che sarà necessario assolveremo al nostro compito in questa dura ingrata fatica.

Ora i democratici, i repubblicani, i socialisti ci muovono accuse di diverso genere. I socialisti fino a ieri hanno detto che siamo venduti ai pescicani o all'agraria. Non ci sarebbero pescicani sufficienti in Italia per sovvenzionare un movimento come il nostro e d'altra parte vi devo dire che sarebbero pescicani piuttosto stupidi perché fin dal Marzo 1919 noi nei postulati fascisti abbiamo messo dei provvedimenti fiscali assai gravi e che sono in ogni caso antipescecaneschi.

Le altre accuse che ci da la democrazia sono ridicole, le accuse che ci fanno i repubblicani altrettanto. Io non mi spiego come dei repubblicani possano essere contrari ad un movimento che è tendenzialmente repubblicano. Io comprenderei che fossero contrari ad un movimento tendenzialmente monarchico. Ci si dice: voi non avete pregiudiziali. Non ne abbiamo ed è nostro vanto non averne. Ma voi dovete spiegarvi il fenomeno dell'ira e della incomprensione dei socialisti. I socialisti avevano in Italia costituito uno stato nello Stato. Se questo nuovo stato fosse stato più liberale, più moderno, più vicino all'antico, niente in contrario. Ma questo stato, e voi lo sapete per esperienza diretta, era uno stato più tirannico, più illiberale, più camorrista del vecchio, per cui questa che noi compiamo oggi è una rivoluzione che spezza lo stato bolscevico nell'attesa di fare conti con lo stato liberale che rimane. (Applausi).

C'è chi pensa che la crisi socialista sia soltanto una crisi di uomini, di questi piccoli uomini che voi conoscete, i Bucco, i Zanardi, i Bentini (urla di « abbasso! ») e simile tritume umano; ma la crisi è più profonda, cari amici, è un tracollo di tutti i valori. Non è soltanto una fuga più o meno ignobile di uomini perché fra tutte le cose assurde c'è stata questa: di battezzare il socialismo come scientifico. Ora di scientifico non c'è niente al mondo. La scienza ci spiega il come dei fenomeni, ma non ci spiega anche il perché di essi. Ora se non c'è niente di scientifico in quelle che si chiamano le scienze esatte, pensate se non era assurdo, se non era grottesco gabellare per scientifico un movimento vasto, incerto, oscuro, sotterraneo come è stato il movimento socialista il quale ha avuto una funzione utile in un primo tempo, quando si è diretto a queste plebi oppresse e le ha fatte scattare verso nuove forme di vita. Voi converrete con me che non si torna indietro. Non si deve fare del contrabbando stolto, reazionario o conservatore sotto il gagliardetto del fascismo. Non si può pensare a strappare alle masse operaie le conquiste che hanno ottenuto con sacrifici. Noi siamo i primi a riconoscere che una legge dello Stato deve dare le otto ore di lavoro e che ci deve essere una legislazione sociale rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. E ciò non perché riconosciamo la maestà di S.M. il proletariato. Noi partiamo da un altro punto di vista. Ed è questo: che non ci può essere una grande nazione capace di grandezza attuale e potenziale se le masse lavoratrici sono costrette ad un regime di abbrutimento. (Applausi). È necessario quindi che attraverso ad una predicazione e ad una pratica che io chiamerei mazziniana, la quale concilii e debba conciliare il diritto col dovere, è necessario che questa massa enorme di diecine di milioni di gente che lavora, che questa enorme massa sia portata sempre più ad un livello superiore di vita.

È stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in spirito con coloro che lavorano: Ma non facciamo distinzioni assurde, ma non mettiamo al primo piano il callo, specie se è al cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoratore manuale. Per noi tutti lavorano: anche l'astronomo che sta nella sua specula a consultare la traiettoria delle stelle lavora, anche il giurista, l'archeologo, lo studioso di religioni, anche l'artista lavora, quando accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del genere umano: lavora anche il minatore, il marinaio, il contadino. Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo che tra spirito e materia, fra cervello e braccio si realizzi la comunione, la solidarietà della stirpe. Ed allora questo fascismo è la ventata di tutte le eresie che batte alle porte di tutte le chiese. E dice ai vecchi sacerdoti più o meno piagnoni: Andatevene da questi tempi che minacciano rovina, perché la nostra eresia trionfante è destinata a portare la luce in tutti i cervelli, a tutti gli animi. E diciamo a tutti: piccoli e grandi uomini della scena politica nazionale, diciamo fate largo che passa la giovinezza d'Italia che vuole imporre la sua fede e la sua passione. E se voi non farete spontaneamente largo, voi sarete travolti dalla nostra universale spedizione punitiva che raccoglierà in un fascio gli spiriti liberi della nazione italiana. (Applausi).

Siamo dinanzi ad un fatto che è il fatto elettorale. Essendo la camera vecchia e peggio che vecchia, fradicia ed imputridita, essendo tutti i protagonisti di questa semitragedia degli uomini usati ed abusati, stanchi e peggio ancora stracchi, si impone la nuova consultazione elettorale. Ebbene, non sentite voi che se le elezioni del 1919 furono disfattiste e misianesche, le elezioni del 1921 saranno nettamente fasciste? Non sentite voi che il timone dello Stato non ritornerà più ai vecchi uomini della vecchia Italia: né a Salandra, né a Sonnino, né al lacrimoso Orlando, né al porcino Nitti? Non sentite voi che il timone passa per un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti, l'uomo del parecchio neutralista, del 1915 a Gabriele d'Annunzio che è un uomo nuovo? (Applausi; ovazioni prolungale; grida di « Viva D'Annunzio! »).

Questi vostri applausi dicono molte cose: e disperdono equivoci che sono già dispersi. Ho ricevuto oggi un messaggio in base al quale posso affermare sinceramente che il dissidio creato più o meno ad arte fra quelli che hanno difeso Fiume — e noi tributeremo sempre loro l'omaggio della nostra riconoscenza — e noi che la difendemmo all'interno, non ha ragione di essere. E Gabriele D'Annunzio porrà fine a questo dissidio che più che da legionari partiva da certi politicanti che forse non erano neppure a Fiume quando a Fiume ci si batteva sul serio. E credo di aver detto a sufficienza perché tutti mi comprendano. (Applausi)

Altro elemento di vita del fascismo è l'orgoglio della nostra italianità. A questo proposito sono lieto di annunziarvi che abbiamo già pensato alla giornata fascista: se i socialisti hanno il 1° Maggio, se i popolari hanno il 15 Maggio, se altri partiti di altro colore hanno altre giornate, noi fascisti ne avremo una: ed è il Natale di Roma. il 21 Aprile. In quel giorno noi, nel segno di Roma Eterna, nel segno di quella città che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza, noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro ordine che non è militaresco e nemmeno tedesco, ma semplicemente romano. Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire il gregge, la processione: noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo a queste forme di manifestazione passatiste la nostra marcia che impone un controllo individuale ad ognuno, che impone a tutti un ordine ed una disciplina. Perché noi vogliamo appunto instaurare una solida disciplina nazionale, perché pensiamo che senza questa disciplina l'Italia non può divenire la nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni. E quelli che ci rimproverano di marciare alla tedesca, devono pensare che non siamo noi che copiamo i tedeschi, ma sono questi che copiavano e copiano i romani, per cui siamo noi che ritorniamo alle origini, che ritorniamo al nostro stile romano, latino e mediterraneo. E non abbiamo pregiudiziali: non le abbiamo perché non siamo una chiesa: siamo un movimento. Non siamo un partito: siamo una palestra di uomini liberi. Quando uno è stufo di essere fascista ha venti botteghe e venti chiese cui battere alla porta, per domandare ospitalità. Non abbiamo nemmeno istituti: li riteniamo superflui. Il nostro è un esercito che si riconosce dalla sua passione e dalla disciplina volontaria: che si riconosce soprattutto per ritenersi non guardia di un partito o di una fazione, ma soltanto guardia della nazione. Ci riconosciamo soprattutto dall'amore che sentiamo per l'Italia, per l'Italia resa e raffigurata nella sua storia, nella sua civiltà e raffigurata anche nella sua struttura geografica ed umana.

Ieri mentre il treno mi portava a Bologna, io mi sentivo veramente legato con le cose e con gli uomini, mi sentivo legato a questa terra, mi sentivo parte infinitesimale di quel magnifico fiume che corre dalle Alpi all'Adriatico, mi riconoscevo fratello nei contadini, che avevano il gesto sacro e grave di colui che lavora la terra; mi riconoscevo nel cielo azzurro che suscitava la mia inestinguibile passione del volo, mi riconoscevo in tutti gli aspetti della natura e degli uomini. Ed allora una preghiera profonda saliva dal mio cuore. È la preghiera che tutti gli italiani dovrebbero recitare quando le aurore incendiano il cielo o quando i crepuscoli obnubilano la terra. Noi italiani del secolo XX, noi che abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale, noi che portiamo nel profondo nel nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti, che sono la nostra religione, noi, o cittadini d'Italia, facciamo un solo giuramento, un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti, ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire. (Applausi ed ovazioni).