Saturday 3 March 2012

Discorso di Cremona, 7 settembre 1920


di Benito Mussolini

Ora che mi avete applaudito con tanto vigore, vi prego di ascoltarmi con attenzione e di non interrompermi più fino alla fine. Uguale preghiera rivolgo agli avversari e, se ce ne sono in teatro, ai nemici. (Grida: «No! No! Sono fuori!»).

Una proposizione della filosofia insegna che è assai difficile persuadere gli uomini con le parole; per persuaderli bisogna far operare gli avvenimenti. Tuttavia io mi reputerei fiero se riuscissi ad insinuare, sia pure l'ombra di un dubbio, in coloro che, senza conoscermi, sono vittime dei più idioti luoghi comuni. E sono tanti costoro che io ho adottato il sistema polemico curiosissimo di dare per accettato nei loro riguardi ciò che di peggio si può dire. Il che vuoi dire che io ho fatto mio il motto delle autoblindate di Ronchi.

Tutti ci accusano di qualche cosa: i repubblicani di difendere la borghesia; i pacifisti ci accusano di imperialismo e di volere sempre nuove guerre; gli amanti del quieto vivere ci dipingono come gli artefici di ogni violenza. Si ha, insomma, di noi un concetto falso e incompleto.

Il fascismo nostro, il programma dei Fasci di Combattimento, non hanno niente a che fare con il fascio interventista creato da Salandra durante la guerra. Infatti il nostro fascio è stato fondato il 23 marzo 1919, e non ha avuto subito un programma ben definito. Questa proposizione può sembrare paradossale, ma io vi potrei citare questa frase di Carlo Marx: « Chi propone un programma è un reazionario ». Ed effettivamente chi vuole ingabbiare in precedenza un'attività futura in un sistema rigido di dettami è tm reazionario, la cui opera sarà, quanto più si avanzi nel tempo, tanto più estranea al progresso e alla vita vissuta.

I nostri postulati furono e rimangono questi: difendere la guerra nazionale, esaltare la vittoria italiana, opporci strenuamente all'imitazione russa del socialismo nostrano.

Noi fascisti non apparteniamo alla specie antipatica dei maddaleni pentiti. E siamo forse brutali in questa affermazione. Se oggi si ripetesse la situazione del maggio 1915, noi, senza esitazione, ripeteremmo il nostro gesto.

E del resto i socialisti, che ci avversano tanto per questo nostro fermo interventismo ad una guerra nazionale, ci siano grati! Senza di noi essi non sarebbero quello che sono! Questi pescicani spirituali della guerra, i socialisti, maledicono quel fatto falsamente, perché senza di esso, sfruttato abilmente e perfidamente, non avrebbero al Parlamento le loro 156 scimmie urlatrici, non avrebbero i loro 1.800.000 voti.

La nostra azione non fu improntata alla difesa della guerra in sé e per sé, ma alla nostra guerra. Del resto anche i socialisti ora non gridano più abbasso a tutte le guerre e distinguono le guerre che si possono fare da quelle che non si debbono fare. Distinguono, sta bene, ma per le loro teorie tutte le guerre non dovrebbero essere uguali. E che forse le truppe rosse hanno avanzato con manifestini invece che con cannoni e mitragliatrici urlanti? Che forse anche in Russia non vi è stato il pianto delle vedove e delle madri?

Noi siamo stati degli anticipatori, ecco tutto; non abbiamo difeso la guerra, ma la nostra guerra, che ci fu imposta, la guerra nazionale. E se per diplomazia insufficente e deficente, per incoscienza di popolo non ha potuto dare tutti i suoi risultati, logici dopo una vittoria, ciò non è da imputarsi alla guerra, né a quegli eroi che l'hanno combattuta.

Il nostro programma? Siamo una minoranza e non ci teniamo ad essere molti. Alla quantità bruta preferiamo la quantità eccellente. Un milione di pecore - lo ricordino i nostri avversari che se ne intendono - sarà sempre disperso dal ruggito di un leone. (Applausi). Noi non competiamo con essi in vendite di marchette e di tessere. Siamo una formazione di combattimento e siamo anche gli zingari della politica italiana. Zingari, perché abbiamo una lunga via da percorrere, e, pur avendo una mèta, essa non è dogmatica; zingari, perché nel nostro accampamento vi è posto per tutte le fedi, perché abbiamo un fondo comune di amore per la nazione.

La nostra azione poteva contare solo sopra le qualità individuali del nostro spirito.

Il 15 aprile 1919, a Milano, regnava il terrore. Ci doveva essere un grande corteo, una manifestazione socialista, che doveva essere la fine del mondo. In un pugno di uomini lo abbiamo disperso e abbiamo dato fuoco al loro covo. In tempi normali io avrei disapprovato tutto ciò; ma in tempi di guerra a me fa piacere tutto ciò che può dar noia ai miei nemici.

Abbiamo combattuto lo scioperissimo del 20-21 luglio, ridottosi ad una bolla di sapone; abbiamo sostenuto rabbiosamente la polemica per l'inchiesta di Caporetto; fummo antinittiani ferocissimi e il più bel giorno della mia vita fu quando Nitti abbandonò il potere. È vero che la nostra gioia fu naturalmente scemata dal fatto che il successore non era proprio l'uomo più 'raccomandabile. Ma nella vita è spesso così: si accetta il male con sollievo, dopo avere avuto il peggio.

Sopra una piattaforma d'intransigenza, sostenemmo le nostre rivendìcazìoni territoriali in Fiume, più la Dalmazia del patto di Londra. E sìaino scesi nel campo della lotta elettorale. Quando non si può far altro che votare, bisogna anche votare. I nostri comizi non furono disturbati, perché si sapeva che chi l'avesse osato avrebbe passato un ben brutto quarto d'ora. A Milano, ove la sopraffazione socialista era continua, si poté far questo dopo la lezione data a piazza Belgioioso.

Il risultato delle elezioni fu per noi tutt'altro che lusinghiero, ma noi non ne abbiamo pianto. Chi mi ha visto in quella sera, in cui i telefoni mi annunzivano, per la nostra lista, la cifra non esagerata di quattromila voti, si ricorda che io ero tranquillissimo. (A questo punto, si sente al di fuori il rumore del corteo socialista che passa. Si sentono le note dell'Internazionale, urla e fischi insistenti, che sono evidentemente indirizzati al Politeama, in cui Mussolini continua tranquillamente il suo discorso).

Dopo ci siamo completamente dedicati a Fiume; non solo perché città italianissima, ma anche perché dopo il trattato di Versailles, in cui la plutocrazia europea diede di sé un odioso spettacolo, il gesto di D'Annunzio fu il solo veramente bello ed efficace. Noi ne abbiamo fatto la nostra causa. D'Annunzio può contare su di noi fino all'ultimo. Io per primo mi ritengo un soldato disciplinato alla sua causa. (Vivissimi applausi; grida di: «Viva Fiume! Viva D'Annunzio!»).

Nel 1920 abbiamo continuato la nostra opera. La propaganda nelle terre redente ha dato ottimi risultati: a Trieste abbiamo diecimila fascisti, fra cui mille donne. C'era anche in Trieste un nido nemico: il Balkan. È andato in fiamme e si è visto che veramente era un fortilizio nemico in terra italiana.

Siamo imperialisti? Ogni individuo che non sia un agonizzante o un impotente è imperialista; cosi pure un popolo che sia giovane e che sia forte è imperialista. Tuttavia v'è una differenza fra imperialismo e imperialismo, ed è tutta nel metodo. Noi non siamo imperialisti alla prussiana, colla mania dell'eterna conquista militare; noi siamo imperialisti alla romana, perché vogliamo suffragare, colle leggi immortali di Roma, una legittima conquista compiuta colle armi.

Ma, dunque, il popolo italiano vuoi proprio morire? Si sa o non si sa che più di quaranta milioni di uomini, sopra un territorio di 286.628 chilometri quadrati, per la più parte montuosi, non possono tutti trovare nella loro terra il sostentamento necessario alla vita? La Francia, con una popolazione pari alla nostra, ha quasi seicentomila chilometri quadrati di superficie, pressoché tutta coltivabile; e perfino piccoli paesi, come il Belgio, l'Olanda e il Portogallo, hanno vastissimi domini coloniali, da cui possono trarre una ricchezza inesauribile. E l'Inghilterra, signori, che dire dell'Inghilterra e di quel suo formidabile banchetto coloniale?

Via da Valona ieri; a poco a poco via dalla Libia domani; e se qualche jugoslavo estero o nostrale lo vorrà, anche via da Trieste! Ma i francesi tengono pure la Siria e la Cilicia e la tengono combattendo; ma gli inglesi non abbandonano la Mesopotamia, in cui debbono combattere, e non ci danno Malta, e non restituiscono Gibilterra alla Spagna, né l'Egitto agli egiziani, né l'Irlanda agli irlandesi!

Quando gli altri rinunzieranno al loro imperialismo, anche noi rinunceremo al nostro. Ma fino a che gli altri lo continuano, e con la cosciente approvazione di tutto il proletariato - poiché in Inghilterra non v'è operaio che non si sdegni al pensiero dell'abbandono del dominio coloniale - crediamo che l'Italia abbia diritto almeno alla sua legittima espansione mediterranea.

Il Mediterraneo ai mediterranei! E poiché su questo mare l'Italia occupa veramente il primo posto, poiché il diritto della Spagna è ben inferiore al suo e la Francia è una nazione prevalentemente atlantica, l'Italia ha il diritto di non essere sacrificata. E vogliamo intanto l'Adriatico come un nostro catino d'acqua, come il golfo chiuso di Venezia, in cui non vogliamo più essere tediati da nessuno.

E tutto questò è imperialismo? Ma no; è semplicemente una visione esatta delle necessità e della realtà! (Vivissimi, generali applausi).

Siamo monarchici? Io parto anzituto da questo aforisma: un popolo deve sempre avere quelle istituzioni che sono adatte alla sua indole. Vi sono state delle repubbliche aristocratiche e oligarchiche; e vi sono delle monarchie popolari, come quella inglese, in cui il re non è che un simbolo di rappresentanza. Se domani la monarchia fosse per il progresso italiano un ostacolo, noi, che non siamo legati da pregiudiziali circa la forma di governo, l'abbandoneremmo. E oggi, 1920, non crediamo utile di accettare una pregiudiziale repubblicana.

E passo a parlare del movimento operaio.

Dire che noi siamo contrari agli operai, è dire una stupidità. La classe operaia è un elemento troppo essenziale nella vita della nazione, qualunque sia il suo numero. Io sono pieno di ammirazione per gli operai e i contadini. Sarebbe assurdo che io non amassi chi stampa i miei articoli .ed il contadino che lavora la terra per dodici e anche quattordici ore al giorno. Io combatto solamente la degenerazione del movimento operaio mistificato dai nuovi preti. E credo che l'allusione sia abbastanza chiara. (Applausi vivissimi).

Noi non abbiamo neppure i pregiudizi sulla proprietà. I padreterni del nostro socialismo riconoscono ora anch'essi, per reggersi, la necessità della piccola proprietà privata. Vi è stato un convinto comunista, il quale ha detto che i vasi da fiori sulle finestre delle case non potranno mai essere tenuti in regime collettivista. (Ilarità). Noi guardiamo il problema dal solo punto di vista della produzione e del benessere. Ci dimostrino che è più benefica e produttiva la proprietà collettiva, e noi ci dichiareremo per essa; ci dimostrino invece che è più utile all'economia nazionale la proprietà privata, e noi la sosterremo. Ma che cosa deve importare a noi, per esempio, di difendere gli azionisti della Breda! Io dico: sono capaci gli operai di fare, sotto una loro amministrazione collettiva, un maggior numero di locomotive? Capaci veramente, e non solo a parole, intendiamoci. Ebbene, in tal caso io accetto la proprietà collettiva.

Però siamo contrari a certe esagerazioni. La massa operaia, nella sua totalità, è insufficente a reggere una economia nazionale legata strettamente all'economia mondiale. E poi, in Italia, su una totalità di lavoratori urbani ed agricoli di quattordici o quindici milioni, abbiamo solo due milioni di operai organizzati e questi divisi ancora tra cinque organizzazioni. C'è ancora dunque troppa gente autonoma e perciò individualista. Riassumendo, circa gli operai, il nostro programma è il seguente: massimo di libertà e massimo di benessere. Ma noi ci ribelliamo quando gli operai diventano un cieco strumento in mano di un partito politico. Allora dobbiamo colpire senza pietà; e se, per colpire i pastori, dovremo danneggiare anche le pecore, peggio per loro.

Io debbo ora stabilire nettamente la posizione del Fascio di fronte agli altri partiti : quelli storici e quelli moderni.

Tra quelli storici, voglio parlare intanto del Partito Repubblicano. Io ammiro sconfinatamente questo partito; mi dispiace solamente che i suoi componenti siano malinconici ed io detesto la gente malinconica. Non posso concepiJe questi seguaci di Simone stilita, che si fermano in un punto e si fermano dicendo che la storia deve passare là dove sono loro. Noi invece ci immergiamo nella storia; ci facciamo guidare dagli avvenimenti; potendo, cerchiamo di guidarli.

Il Partito Repubblicano ha avuto dei grandi uomini e dei grandi nomi. Mazzini dovrebbe essere il vangelo delle nuove generazioni. Ha avuto anche un simpatico atteggiamento al principio della guerra: « O sui campi di Borgogna o verso Trento e Trieste! ». E dai casolari di Romagna, fiera terra repubblicana, i volontari sono partiti e sono morti a decine. Purtroppo la nostra simpatia verso il partito non è ricambiata.

Infatti vi sono degli spiriti delle minoranze che hanno sempre paura di essere indietro. Io credo che se dovessero giungere ad assumere un atteggiamento bolscevico, temerebbero forse di essere ancora alla retroguardia. Forse per questo ci credono indietro.

Io sono reazionario e rivoluzionario, a seconda delle circostanze. (Applausi). Farei meglio a dire - se mi permettete questo termine chimico - che sono un reagente. Se il carro precipita, credo di far bene se cerco di fermarlo; se il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche colla violenza. Ma sono certamente rivoluzionario quando vado contro ad ogni superata rigidezza conservatrice o contro ogni sopraffazione libertaria. (Vivissimi, prolungati applausi).

Riguardo al Partito Popolare Italiano, dichiaro subito che non sono un anticlericale di professione. L'anticlericalismo di chi parla di tresche fra parroci e perpetue, è oramai una cosa rancida e superata. Ma meno ancora io voglio che siamo anticattolici. Abbiamo in Italia una grande forza riconosciuta; da Roma si parla a quattrocento milioni di uomini. Roma, oltreché come capitale d'Italia, va riguardata come capitale dì un immenso impero spirituale. Se il nazionalismo utilizzasse, ai fini dell'espansione nazionale, la forza del cattolicesimo, io credo che potrebbe trame molta utilità. E questa forza di cattolicesimo esiste; lo dimostra la Francia, che; dopo un allontanamento durato tanti anni, si riavvicina ora alla Chiesa.

Il Partito Popolare Italiano rappresenta anch'esso una forza, non scevra però di gravi pericoli. È una forza perché, giovanissimo ancora, conta già duecentocinquantamila voti, cento deputati e tre rappresentanti al Governo. Ma la sua opera politica non è, infine, che un'opera di concorrenza al Partito Socialista. Gli ha aperto proprio in faccia un'altra bottega, è la réclame alla propria merce. Ebbene, può darsi che il lavoratore, dopo avere bevuto il vinello della bottega popolare, senta la vaghezza di inebbriarsi col forte trani dell'osteria di fronte. Badino i popolari: può darsi che essi seminino per altri! Inoltre, da parecchio tempo, questo partito continua un'opera di bassa demagogia; e ne sapete qualche cosa voi del Cremonese, nelle cui campagne si sta svolgendo una propaganda a base di menzogne.

E parliamo un po' del Partito Socialista.

Noi facciamo opposizione non al socialismo, ma alla sua odierna mascheratura bolscevica. La Russia è ancora oggi un enorme carcere e un enorme convento. Noi non li vogliamo. Noi abbiamo accettato la prima rivoluzione russa, quella che uccise lo czarismo; non accettiamo la odierna dittatura cosiddetta proletaria. In Russia tutte le frazioni del socialismo sono contrarie al regime attuale. E, nonostante tante grosse parole di uguaglianza, vi è ancora la piccola proprietà; e si sono fatte ventisette categorie di salari, categorie che si differenziano non secondo le bocche da sfamare nella famiglia del lavoratore, ma secondo i suoi meriti individuali; e hanno una polizia in Russia, una polizia rossa, capace di sgominare la nostra; e hanno un esercito potente. Non si può infliggere a noi mediterranei, abituati al sole e alla lotta aperta, una tale situazione; e se ci fosse chi ce la vuole regalare, siamo pronti, pur di difenderci, anche alla guerra civile. (Applausi vivissimi).

I caporioni socialisti ci debbono ringraziare perché li abbiamo salvati. Se noi non ci fossimo opposti, a quest'ora l'esperimento si sarebbe compiuto.

In Russia, l'esperimento dura da anni, ma è sul finire; certo non segue più il movimento originale. In Ungheria, il comunismo è durato 133 giorni. In Italia, per le nostre speciali condizioni, non avrebbe durato più di due o tre settimane; e poi la fame, poi la desolazione, poi, forse, lo smembramento nazionale. E per rimedio, la reazione feroce, che passa col cannone e la mitragliatrice, e le classi operaie avvilite e ricacciate in basso.

Oggi i socialisti tentano quella stessa opera che, esercitata da noi, è stata chiamata « reazione ». Debbono gratitudine a noi di averli smascherati commedianti. La realtà storica non si cambia in ventiquattr'ore: in un giorno si può cambiare lo stemma « sale e tabacchi » e si depone un re. Ma non si può del pari cambiare una economia nazionale, che è travaglio di secoli.

Oggi l'economia nazionale ha un'attività assai complessa: vicino al grande proprietario, troviamo le cooperative, Ma chi voglia spezzare le molle principali che la reggono, porterà l'economia ad un irreparabile disastro.

Oggi Baldesi e pochi altri dicono finalmente di preferire i fischi agli applausi che la folla tributa a troppe grossolane menzogne. Molto tardi viene la resipiscenza; e debbono finalmente confessare che essi ·non sono più i duci, ma i rimorchiati della folla.

Queste che vi ho esposto sono le linee fondamentali dell'azione dei Fasci di Combattimento. Concludendo, noi non siamo imperialisti, ma vogliamo effettuare le giuste rivendicazioni italiane; noi non siamo monarchici, ma non poniamo alcuna pregiudiziale repubblicana; noi non siamo contrari alla gestione collettivista operaia, purché essa dia sicura garanzia di maggiore benessere per la nazione.

Non vi dico ora, come fanno i preti agitando la borsa della questua, non vi dico « iscrivetevi ai Fasci di Combattimento ». Io non sono qui per fare dei proseliti. Noi non siamo dei propagandisti, siamo soltanto dei sommovitori, dei disorientatoci di idee. (Applausi).

Sono stato esplicito, chiaro e leale. Noi non siamo per la guerra, ma, a chi ci aggredisce, spareremo sempre sul grugno. Poiché non siamo seguaci di San Filippo Neri, che insegnava di tendere, dopo la prima percossa, l'altra guancia ad un nuovo schiaffo. Non imperialismo ci fa parlare, ma la sicura sensazione di necessarie espansioni nazionali. Io credo che i partiti intermedi si stiano sfasciando per mancanza di uomini. Se ne hanno, ne hanno troppi di uguale valore, che pensano solo a strapparsi l'uno contro l'altro lo scettro del potere. Anche i combattenti hanno dimostrato di non saper trovare l'unità politica.

Questa è l'ora del fascismo antidemagogico; l'ora di una sana attività politica, non avvilita da tessere o da statuti, che riporti la vita nazionale nel suo giusto ritmo. Poiché l'unico nostro ideale è la massima grandezza dell'Italia.

(La chiusa del discorso è salutata da una grande ovazione. Mentre sul palcoscenico, intorno a Mussolini, si agitano le bandiere, in tutto il teatro scrosciano frenetici applausi, misti a grida di evviva, all'Italia, a Mussolini ed a Fiume. La dimostrazione si rinnova alla bandiera di Fiume, che è davanti a tutte le altre. Gli applausi durano parecchi minuti; poi, a poco a poco, la gente sfolla, e va fuori per prendere parte alla formazione del corteo.)