di Giovanni Gentile
I.
Il discorso che intendo fare è molto delicato, perché facilmente si presta a equivoci mentre tocca tutti gli interessi della vita umana.
E io perciò mi sforzerò di essere franco ed esplicito, usando la massima schiettezza, sgombrando risolutamente dall'animo ogni considerazione estranea all'argomento, nella speranza che chi mi ascolta creda alla mia schiettezza e sia disposto a prendere le mie parole per quel che esse suonano, senza cercare se dietro di esse possa esserci altro ch'io non dica.
Voglio anche avvertire che il mio modo di filosofare mi ha abituato all'assoluta sincerità di chi si confessa con se stesso e mi ha piantato nell'animo questa convinzione, che il filosofo, il vero filosofo, non può parlare a' suoi simili se non appunto quello stesso linguaggio che egli usa nel segreto della sua più gelosa coscienza.
E aggiungere, che oggi più che mai, nel presente momento in cui ogni Italiano degno di questo nome sente nel cuore la tremenda responsabilità della sua vita passata e presente e deve, rientrando in se stesso, sentirsi al cospetto di Dio, oggi mi vergognerei più che mai di intrattenere il mio uditorio con la retorica di una qualunque discettazione accademica, o con la virtuosità degli arzigogoli suggeriti dalla stantia perizia di teologi e filosofanti.
Oggi più che mai è tempo di far seriamente.
Così, per cominciare, fo la mia aperta professione di fede, che, per chi conosce i miei scritti, non riuscirà forse nuova.
L'ho fatta, per lo meno, nel 1926; ma da allora ha giovato molto poco, perché molti l'accolsero con quel fare diffidente di chi teme “Danaos et dona ferentes”, nulla sospettando che la mia natura, se cede qualche volta al bizzarro gusto di dire, piuttosto crudamente, quel che può fare più o meno dispiacere a chi ascolta ma che io mi sento in dovere di manifestare in omaggio alla verità e all'azione salutare che essa esercita sempre, rifugge a tutto potere da ogni parola che possa riuscir gradita altrui ma contrasti col mio modo di sentire e di pensare.
Ripeto dunque la mia professione di fede, piaccia o dispiaccia a chi mi sta a sentire: io sono cristiano. Sono cristiano perché credo nella religione dello spirito. Ma voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci: io sono cattolico. E non da oggi; sia anche questo ben chiaro.
Cattolico a rigore, sono dal giugno del 1875, ossia da quando sono al mondo. E sono perciò desolato di non potervi annunziare anch'io una crisi, una tempesta dell'anima, una subita conversione, un colpo di fulmine. Sto, prosaicamente, percorrendo fin dal giorno della mia nascita la via di Damasco. Vengo, da allora, pensando e approfondendo ogni giorno le mie idee (“nulla dies sine linea”); e se si vuol parlare di conversioni, posso dire che la mia conversione è la storia d'ogni giorno, di sempre.
"Ma - mi sento interrompere - avevate protestato di non volere equivoci; ed ecco ci date dentro, e vi ci siete ficcato fino agli occhi. Cattolico voi non potete dirvi se non dando alla parola un significato diverso da quello che essa ha per la stessa Chiesa cattolica, che sola ha l'autorità di definirne il significato. Tant'è vero che la Chiesa condanna i vostri scritti; e voi avete polemizzato tante volte contro dottrine e detti e manifestazioni varie della Chiesa. È dunque questa la maniera di evitare sul serio gli equivoci?"
Mi permetto di ricordare che ci fu qualche anno che parroci e predicatori implorarono tutte le grazie divine sul mio capo.
Avevo rimesso il Crocefisso nelle scuole, e furono tanti i plausi e gli encomi che, francamente, mi parve di essermi avviato a una solenne canonizzazione. Era stata politica da parte mia, ossia opportunismo o arte di governo?
Ma la stessa opinione era stata da me proclamata tra avversi clamori in un congresso d'insegnanti che si tenne a Napoli nel 1907: e ribadita più tardi nettamente quando la politica scolastica del Regime fascista, esagerando e però sostanzialmente alterando il pensiero del 1923, volle esteso l'insegnamento religioso alle scuole medie affidandolo a ecclesiastici: che era un contraddire alla mia tesi del 1907, alla quale io rimasi fermo. E se io fossi nel vero, l'effetto, cioè la prova che questo insegnamento fa nelle scuole medie, “nol nasconde”.
Da allora gli osanna si sono voltati in “crucifige”. E il mio nome, anche per questa parte, è passato alla leggenda. Di che, se debbo dir tutta la verità, non mi rammarico; perché le leggende, con quel che contengono di misterioso, sono problemi che fanno pensare, discutere e cercare, e insomma muovono gli spiriti. Che è ciò che interessa a chi scrive per esercitare una sua azione, anche piccola, sugli altri.
Questo non vuol dire per altro che io mi compiaccia tanto della leggenda da volerla artificialmente mantenere nel chiaroscuro dell'essere e non essere. Mettiamo dunque da parte la leggenda; e vediamo di spiegarci con la maggiore chiarezza possibile. Se domandate a me quale sia la mia religione, io vi dico in tutta sincerità che io mi sento, e perciò credo di essere non solo cristiano, ma cattolico.
II.
Perché cristiano, l'ho detto. La religione cristiana è la religione dello spirito, per la quale Dio è spirito; ma è spirito in quanto l'uomo è spirito; e Dio e uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno: sicché l'uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio: pensiero divino e divina volontà. E Dio da parte sua è il vero Dio in quanto è tutt'uno con l'uomo, che lo compie nella sua essenza: Dio incarnato, fatto uomo e crocefisso.
Perché cattolico? Perché religione è chiesa; come ogni attività spirituale (scientifica, filosofica, artistica, pratica) è universale, propria di un soggetto che si espande all'infinito: comunità illimitata, nella quale il mio Dio è Dio se è Dio di tutti.
L'errore della Riforma, come videro bene i nostri pensatori del Rinascimento, fu quello di aver voluto fare della religione un affare privato di quel fantastico individuo, che non è uomo, spirito, ma un semplice fantoccio d'uomo collocato nella spazialità e temporalità della natura.
Tant'è vero che ogni cristiano, che voglia essere puro cristiano, è portato per la natura stessa dello spirito a fare proseliti, a far setta, a creare una chiesa: e cioè ognuno è cattolico a modo suo. Cattolico, s'intende, di una chiesa che come ogni società abbia un ordinamento e un'autorità che lo faccia valere: diciamo pure un papa. Un papa, un'autorità che approvi o condanni; e un sistema da cui il suo operare tragga norma e valore.
"Ma questo così definito puramente e semplicemente - si dirà - non è il cattolicismo storico; il cattolicismo della Chiesa cattolica: sarà il cattolicismo vostro".
Vecchia obbiezione, con cui han dovuto in ogni tempo fare i conti tutti i grandi cattolici, i quali, per esser grandi con l'originalità che è l'impronta della grandezza, sono stati sempre, volenti ma anche nolenti, riformatori; e nei loro tentativi di riforma hanno urtato nella struttura disciplinare e ideale della Chiesa, nel positivo dell'elemento in cui operavano e nelle forze conservative che dal positivo non potevano non sprigionarsi e reagire. Storia di tutti i tempi; la storia di tutto ciò che è il vivo della Chiesa cattolica.
E quale è stata sempre la riposta dei riformatori? Quella che più efficacemente di tutti diede uno dei più grandi riformatori che la Chiesa abbia avuto in Italia: il Gioberti. Il quale nella sua Riforma Cattolica (§ 101) ragionando della « poligonia del Cattolicismo » che « deve avere un lato obbiettivo che risponda a ogni qualità subbiettiva », per cui « vi sono tanti cattolicismi quanti gli spiriti umani » formanti una Chiesa sola: la “Chiesa non solo presente e passata, ma futura, abbracciante non solo tutti i cervelli reali”, ma i possibili, prevede infatti l'obbiezione che il papa, i vescovi, ecc. non intendono il Cattolicismo a questo modo. E risponde con queste parole che giovane io lessi come parole illuminatrici, e mi sono rimaste poi sempre nella memoria: « Coloro [dice Gioberti] che mi fanno questa obbiezione, non m'intendono. Rispondo che, se [Papa e vescovi] lo intendessero a mio modo, non avrei ragione, ma torto ».
Scetticismo? Protagorismo? No. Gioberti non era un sofista; e se peccò forse in qualche parte del suo filosofare, il suo peccato non fu certo quello dello scetticismo. La sua poligonia del vero non è un lato solo del poligono: è verità, che sta al di sopra di ogni verità particolare, e così di ogni cattolicismo e ne garantisce il valore assoluto.
Come nessuno mi contesterà il diritto di professarmi idealista perché il mio idealismo è il mio idealismo, e non l'idealismo di tutti (che non è mai esistito e non esisterà mai), così avrò pure il diritto di professarmi cattolico, di un cattolicismo che sarà bensì e non potrà non essere altro che il mio cattolicismo.
E come, poniamo, a chi s'impuntasse a sostenere che bisogna distinguere tra idealismo vero e preteso idealismo, arbitrario e falso, e pretendesse, a esempio, che il vero idealismo è quello classico di Platone e propriamente contenuto ne' suoi Dialoghi, si avrebbe buon diritto di osservare che anche in questo idealismo autentico c'è un'infinita poligonia, perché i Dialoghi platonici vanno pur letti per saperne il contenuto, interpretati, e quindi discussi all'infinito; così potrà dirsi che il vero cattolicismo è quello che storicamente si configura in un sistema di istituti e di dommi, ma è anche vero che istituti e dommi non sono obbiettivamente esistenti e operanti fuori della mente e dell'animo del credente; essi in interiore homine sono accettati e intesi com'è possibile a ciascuno intenderli, colla propria testa, liberamente.
Si distingua all'infinito tra natura e grazia: ma resterà sempre nell'umana natura un margine che è libertà; un margine per cui l'uomo potrà essere redento dalla grazia e un asino no; e tanto meno un sasso. Perciò poi istituti e dommi e tutta la Chiesa effettiva hanno una storia, che sarà sempre umana, quantunque assistita da una superiore ispirazione divina; anzi appunto perché mossa da una siffatta ispirazione.
I dommi della Chiesa sono e non possono essere altro che i miei dommi; e, in generale, la Chiesa alla quale mi ascrivo non può essere altro che la mia Chiesa: e ubbidienza o ribellione, conformismo o non conformismo, hanno un significato soltanto in rapporto, non alla mia Chiesa, ma a una Chiesa che non è la vera Chiesa (almeno per me, a cui si chiede ubbidienza e conformismo); in rapporto cioè a una Chiesa dalla quale è impossibile che sia vietato ogni appello a quella Chiesa ideale. Poiché a questa Chiesa ideale si guarda sempre anche quando crediamo di sottometterci alla Chiesa positiva come a quella che della ideale ci sembra legittima rappresentante.
La Chiesa storicamente con i suoi organi centrali per difendere la sua disciplina e la sua unità e quindi la sua esistenza, s'è sforzata in ogni tempo di reprimere e annientare questo soggettivismo ripullulante in eterno dal profondo degli spiriti che essa voleva contenere nel suo ambito. E non poteva fare diversamente. Ciò che vuol dire che ha fatto bene, poiché la Chiesa è necessaria - è, si dice, istituzione divina -; e non può esistere se non a patto di restare una Chiesa, unica.
Ma ciò non vuol dire che non siano stati pur necessari i dissensi, e le ribellioni e le lotte, senza di che la Chiesa sarebbe stagnata in una morta gora, privata di quello spirito che le dà vita, e perciò svolgimento, e quindi effettiva potenza, che è vitalità.
E il divino afflato dello spirito religioso è appunto quello che finisce col farci scorgere l'anima a noi fraternamente stretta nell'aspirazione sublime alla verità anche attraverso quello sguardo torvo con cui pare il nemico ci fissi. Donde il perdono e l'amore del prossimo, che ci fa sentire davvero, che “siam fratelli, siam stretti a un patto”. Che è il più grande insegnamento del cristianesimo.
Il quale, bisogna riconoscerlo, non si è mai spento né inaridito attraverso le vicende della Chiesa romana; anzi con le grandi correnti teologiche in cui ha cercato di esprimersi per acquistare la piena coscienza di sé e con cui ha promosso la creazione di tutto il sistema cattolico, ha consentito una formulazione dommatica che solo alle menti superficiali e ignare della vita dello spirito, dotte magari d'ogni scienza terrena e cioè naturale o naturalistica, ma ignare e digiune d'ogni senso di quella umanità che spazia nel divino, può esser sembrata ostile alla ragione e alla scienza e inconciliabile perciò con le esigenze critiche del pensiero umano, quasi superstizione destinata a esser fugata dalla luce del sapere.
Ciò che la Chiesa cattolica vuole insegnare è degno, in tutti i suoi dommi, di essere accolto da ogni alto spirito cristiano, consapevole della rivoluzione operata nel pensiero e nella vita dell'uomo dall'Evangelo come scoperta della vita dello spirito.
Purché ogni parola che vuol essere parola di verità si lasci discendere nel cuore d'ogni uomo con quella divina virtù che la fa intendere a ciascuno nel suo proprio linguaggio, che è il suo modo di sentire e di pensare:
Come la luce rapidaConfido pertanto mi si voglia consentire che anche io oda lo spirito in mio sermone: quello stesso sermone che appresi infante da' miei genitori, e che da' più teneri anni ho continuato a parlare ancorché venisse maturando - come è proprio di tutto ciò che è vivo nell'anima nostra - col proceder dell'età e l'insistere assiduo della riflessione. Non si sa che le stesse parole hanno un suono sempre diverso sulle labbra dello stesso uomo dall'infanzia alla vecchiezza? e sono cioè parole diverse, con diverso significato?
piove di cosa in cosa,
e i color vari suscita
dovunque si riposa;
tal risonò moltiplice
la voce dello Spiro:
l'Arabo, il Parto, il Siro
in suo sermon l'udì.
Così ora rileggo quelle pagine che via via sono venuto scrivendo (ahimè quante!); e non trovo sillaba da cancellare, quantunque talune forme polemiche non riescano più di mio gusto e maggiormente senta la convenienza di smorzare certi toni dommatizzanti.
Oh certo, non credo di aver tradito il primo insegnamento religioso che mi venne impartito da mia madre (la cui voce ancora e sempre dentro mi suona) sebbene Ella forse ora mi troverebbe molto cambiato. Cambiato, s'intende, di dentro, come son cambiato di fuori. Ché tanti anni non potevano passare senza lasciar traccia.
III.
Al principio di questo secolo quando io insegnavo a Palermo c'era colà un eccellente seminario, molto curato da quell'arcivescovo, il cardinale Lualdi, persona di fine intelligenza e di animo elevato; e c'era all'Università una scuola di filosofia, a cui accorrevano schiere numerose di chierici.
E in aria era odor di battaglia; gli animi erano inquieti; e per le vie gruppi di giovani e professori s'accaloravano in discussioni molto animate. Inquietum cor meum. E la gioventù cercava ansiosamente una fede.
Molto inquieto il cuore d'un bravo seminarista che, non sapendo più durare al tormento dei dubbi ond'era assalito su non pochi articoli di fede, chiese conforto all'arcivescovo, facendogli in lagrime ampia e ingenua confessione della penosa crisi che attraversava, e implorando da lui una risposta alle domande più assillanti che lo assediavano.
E l'intelligente prelato non lo sgridò, né ebbe parole di rampogna che potessero più oltre turbare quell'agitata coscienza o sonare comunque condanna o richiesta di difficili consensi. Preferì il linguaggio dell'affetto paterno domandandogli: "Ma dimmi, figliuolo, credi tu in Dio?" E avendogli il giovane risposto subito di sì: "Ebbene, soggiunse, questo basta. Fatti animo e confida che Egli ti darà il resto, che ti aiuterà a vincere ogni dubbio e riacquistare la pace perduta".
L'aneddoto fu a me riferito con gioia da don Onofrio Trippodo, l'amico indimenticabile di quegli anni palermitani, ai quali ora il pensiero torna con un senso di accorata nostalgia: insegnante nel seminario, ma frequentatore dell'Università e in continua comunione qui coi giovani e coi maestri.
Assiduo lettore degli scrittori modernisti del tempo, in corrispondenza col Laberthonnière e credo anche col professor Blondel; sinceramente aperto a quel soffio vivificante del pensiero cattolico e ai filosofi moderni ai quali il modernismo s'ispirava; ma così savio e moderato e soprattutto così assorto nel divino, con una fiamma di fede che gli campeggiava negli occhi, da guadagnarsi il rispetto e l'amore delle stesse autorità ecclesiastiche.
Buono e santo Trippodo, confidente quotidiano di tutti i miei pensieri, maestro di religione ai miei figli, che ardore nella tua anima, come vibrava nelle tue parole e in tutta la tua persona! Quale potere di amore e di accensione di vita nel tuo lieto e letificante sorriso! Quale interiore appello nel suono della tua voce, che m'interrogava senza posa ma anche senza indiscrezione, e pungeva a pensare! A pensare con te, a pensare senza preconcetti e senza vane ubbie, con confidenza, con sincerità, con desiderio infinito di luce e di verità.
Oh la tua voce ancora non s'è spenta dentro al mio cuore; e nel riudirla mi domando se sono sempre degno di te. Tu conoscevi e riconoscevi il mio cristianesimo e il mio cattolicismo e mi rincoravi contro i giudici malevoli o corrivi; poiché la tua affettuosa stima, la tua fraterna compagnia nella via che insieme si faceva coi giovani che ci venivano intorno, mi metteva nel cuore tanta fede e tanta certezza.
Dopo la mia partenza da Palermo lo vollero professore di Storia del Cristianesimo all'Università. E insegnò una decina d'anni a una folla di scolari con la gioia dell'anima che si espande tra il prossimo nella più alta forma del pensiero rivolto a Dio.
Ma quando morì nel '32, non aveva nulla pubblicato de' suoi pensieri; e ritengo non abbia lasciato quasi nulla di scritto. Come Socrate, preferiva i discorsi parlati, agli scritti: preferiva cioè gli uomini ai libri; quantunque molti libri e riviste comprasse o si procurasse per ogni via e ne leggesse sempre appassionatamente: ma più amava conversare, interrogare, scrutinare come l'antico ateniese, e accendere alla sua altre anime, e vivere nella viva dialettica degli spiriti.
Ma le sue parole, ancorché non scritte, restano e sono immortali; vivono in quanti ebbero consuetudine con lui e ne propagano lo spirito: buon seme che rinnova in perpetuo la vita, meglio dei libri.
Come fu contento il Trippodo delle poche sagge parole improntate d'amore dette al giovane smarrito e trepidante dall'arcivescovo!
E in verità la fede in Dio è la sostanza della religione: la quale, come tutto ciò che ha valore spirituale, non è nulla di definito e conchiuso, un sistema, un complesso di idee o fatti rivelati; quel che si dice un dato. È un germe che matura, germoglia e si sviluppa negli animi ben disposti e inclini alla meditazione e aperti all'amore. E i dommi o sono generati dalla fede fecondata dall'amore, e allora sono cose vive e vitali; o sono gettati lì come formule vuote: parole esanimi, facce di farisei, sepolcri imbiancati.
IV.
D'accordo dunque che la religione più religiosa sia la cristiana; che questa come ogni altra religione non possa non essere chiesa, e cattolica (universale).
D'accordo pure che la Chiesa, come vita positiva della religione, sia storia, e perciò dommi.
D'accordo che i dommi definiscono la verità o contenuto della religione, in quanto negativi piuttosto che positivi: negazione o condanna degli errori, da cui la verità deve essere distinta e preservata, piuttosto che determinazione positiva dell'essenza del Divino.
Il quale si pone come tale innanzi all'umana intelligenza in quanto nella sua totalità e infinità piega l'intelligenza al riconoscimento della propria nullità e conseguente incapacità di conoscere se stessa e liberamente quel Dio che è tutto. Dio ignoto, perciò, e inconoscibile.
Inconoscibile, ma a patto che si veda, si senta, necessario, presente, ineliminabile. Qualche cosa d'immediato, con cui lo spirito umano non può mettersi in relazione, se non immergendovisi e immedesimandovisi.
Non conoscendolo, ma sentendolo come si sente ogni sensibile: esistente, presente immediatamente nello stesso senziente. Il quale, per altro, non può neppure accorgersi di se medesimo nel suo sentire, se non si eleva al di sopra del suo semplice sentire, e pensa.
E solo pensando, può dire che nel sentire non c'è conoscenza: c'è qualche cosa che non si può sapere che cosa sia, inconoscibile, innominabile. Lingua mortale non può dire nulla di esso.
Quindi la negatività dei dommi; quindi il carattere limitativo dell'autorità preposta al mantenimento dei dommi, come alla loro formulazione.
Quindi la natura del rapporto tra l'individuo, che è membro della Chiesa, con l'autorità a cui esso deve sottomettersi perché la Chiesa si regga nella concretezza dei suoi dommi: rapporto di limitazione della fede individuale, della personalità religiosa che ha in una personalità diversa e superiore la propria norma e la propria disciplina, come limite della propria libertà.
Ma c'è bisogno ancora di illustrare la dialettica di codesto rapporto tra autorità e libertà? Occorre ancora mettere in chiaro che non c'è autorità che non sia liberamente riconosciuta? ossia che l'autorità è sì un limite della libertà, ma un limite interno e non esterno, come si crede a guardarne soltanto la superficie? un limite che la libera attività del credente pone da sé a se medesima per realizzare la propria libertà?
Potrà la natura di questo rapporto dialettico, che realizza così l'autorità come la libertà, sfuggire tanto a chi tiene a rivendicare la sua libertà quanto a chi pretende di affermare più rigidamente ed energicamente la sua autorità; questo in pratica è un caso frequente; ma ribellioni e coazioni si risolvono in realtà nella storia della religione, che è dialettica e dramma perpetuo, onde nella lotta degli opposti principii si sviluppa e ringagliardisce di continuo la fede della società religiosa, e cioè degli individui che vivono la loro vita interiore nella solidarietà degli spiriti, che è la realtà dello spirito.
Libertà e autorità non si compongono in una lineare precisa e immodificabile diagonale delle forze antagonistiche, se non all'infinito.
La realtà concreta e storica è anche qui equilibrio instabile, è tendenza eterna a un ideale, che è destinato a restare sempre ideale per poter adempiere alla sua funzione di forza motrice finale della vita umana. È, in una parola, dialettica; in cui il momento del contrasto, dell'alterità, e diciamo pure della trascendenza, non sarà mai superato una volta per sempre.
E l'uomo sentirà sempre più o meno il limite, da cui vorrà affrancarsi; ma non potrà affrancarsene senza che da sé non ponga nuovi limiti, e non torni perciò a vedersi fronteggiato da un ostacolo in cui s'infranga la sua libertà.
In tale dialettica è dunque vana ogni pretesa di assoluta libertà e di autorità illimitata.
E i pastori della Chiesa illuminati da quel lume che scaldando i cuori apre gli occhi e l'intelligenza e fa perciò rifuggire dai vani tentativi della violenza sterile e provocatrice, sanno che l'autorità si esercita più con l'amore che con la forza; e alla severa e cupa intolleranza di un Bellarmino preferiscono come di gran lunga più efficace e più cristiano l'amore tutto umano e ilare di un Filippo Neri, indulgente e premuroso, nella convinzione che il peccato altrui è anche peccato nostro e che il santo è santo se non si chiude egoisticamente e orgogliosamente nella sua santità, ma scende col suo amore fino al debole, e lo sorregge e lo solleva con sé nell'ardua fatica del bene.
Il grande deve farsi piccolo: “sinite parvulos venire ad me”. Così si educa da che mondo è mondo: così s'instaura la sola autorità che non sia parvenza e vano nome, ma effettivo e potente dominio dello spirito.
L'amore unisce il grande al piccolo che deve farsi grande. E l'amore, d'altro lato, non l'odio, deve ispirare l'inferiore verso il superiore che, storicamente costituito come termine del rapporto di cui egli è altro termine, non è il nostro nemico se non al primo aspetto, e deve esser conosciuto; e perciò dobbiamo andargli incontro con simpatia e con fiducia, certi che egli è uomo come noi, e una parte di ragione ci deve essere anche dalla sua, e a noi spetta di rendercene conto, porgendogli attento orecchio e rispettandolo.
“Magna debetur puero reverentia”; ma quanta non se ne deve al vecchio, che è nostro maestro perché è più e meglio di noi quello che siamo noi, ricco di maggiore esperienza, esperto di tanti dolori che noi non abbiamo ancora sofferto: di quei dolori che fanno capire la vita?
V.
Ma ci può essere religione dello spirito senza amore e solidarietà?
E che è spirito se non amore, e perciò solidarietà o quell'universalità che è unità di tutti?
Il cristianesimo è impregnato da questo concetto dell'unità, non del cosmo o della natura, ma dello spirito. Che non è realtà molteplice. Perché la molteplicità con la negatività reciproca de' suoi elementi è meccanismo, o materia comunque si battezzi.
Quando infatti si comincia a riconoscere la nostra realtà spirituale che è la sola per noi conoscibile poiché la monade non ha finestre, tutta la realtà è spirito, come si sperimenta attraverso lo sviluppo della nostra stessa realtà interiore.
Ci sono cose innanzi a noi: ma, interrogate, esse ci rispondono.
Si animano alla fantasia del poeta e del bimbo che ingenuamente si abbandona al mondo delle cose contemplate coi vivi occhi dell'amore.
Ci rispondono esse e partecipano al nostro sentire e a tutto il mondo sorgente dall'intimo della nostra natura.
Piangono le cose stesse con noi talvolta (sunt lacrymæ rerum); ma quando risorgono nella luce della stagione novella, ecco:
Primavera dintornoE poi, oltre le cose, ci sono i nostri simili, gli altri uomini. Simili dapprima nell'aspetto; ma solo che li guardiamo con simpatia, ecco il loro sorriso a manifestarci ben altra profonda somiglianza. Dal volto traluce l'anima. E già il volto ci risponde con un linguaggio, che è la forma del nostro segreto pensiero. Qui veramente siamo nel nostro mondo: lo spirito.
brilla nell'aria, e per li campi esulta
come dice esattissimamente il Poeta.
L'oggetto in cui si affisa il nostro sentire e pensare, più si sente e si pensa e più ci parla e s'intende; e a mano a mano la sua parola suona al nostro orecchio come la parola che ci sgorga dal petto: la stessa parola, la stessa anima.
Nell'oggetto che è lo stesso soggetto (cioè il nostro più intimo essere) non può a noi non svelarsi quello che noi siamo: spirito. Uno spirito; due, ma due spiriti perché sono uno spirito solo. Che non è metafora se non per chi scambi l'uomo, che vale ed è libero, e soffre e gioisce e vive e s'afferma con la sua umanità attuosa, con quella sua materiale apparenza con cui ci si rappresenta dall'esterno nella prima esperienza sensibile: in cui « Don Bartolo pare una statua ».
Questo spirito uno, a sentirlo dentro con la sua infinità, che nel ritmo della nostra vita spirituale trascende sempre ogni concreta determinazione del suo esistere; questo spirito è e non è noi; e perciò ci corregge e ci trae in su, poiché esso è tutto ma nulla propriamente che sia lì, esistente, né in noi né fuori di noi.
Questo divino essere la cui immediata presenza nel fondo della nostra coscienza costituisce l'ineffabile sentimento umano di Dio, suprema certezza in cui è la radice di ogni certezza; questo divino essere ci annienta e ci esalta, ci fa piegar le ginocchia e chinare la fronte nella polvere ma c'infonde la forza di alzare gli occhi al cielo, e ci fa sentire nel cuore quella superiore grazia, quella possente ispirazione onde l'uomo trasumana ad ora ad ora nell'eterno.
Ebbene, questo essere donde può sorgere in noi se non dal moto stesso dell'animo, che, come Io o coscienza di sé, si volge a se stesso; e vede se stesso come altro, oggetto; l'oggetto che gli sta innanzi come Tutto e che come tale esclude e stermina il suo opposto, cioè lui stesso, il soggetto, e si pone come l'Assoluto, oltre e fuori del quale nulla è più pensabile?
Qui l'origine e l'essenza della religione.
Ma a questo momento iniziale e negativo la religione non s'arresta. L'oggetto è posto e sorge innanzi all'uomo perché l'uomo si realizzi nel suo intimo essere di autocoscienza, non perché si annichili.
E perciò la coscienza dell'oggetto esce dalla sua originaria immediatezza; e questo oggetto, come ogni oggetto, agli occhi del soggetto si anima e parla; e l'uomo può parlare a lui; e più, per così dire, lo tratta, cioè egli si sforza di realizzarsi come autocoscienza, più è forza che l'oggetto gli si appalesi come l'altro se stesso; non l'altro, ma lui stesso.
Così avviene nella più ingenua conoscenza della natura, che ne è la conoscenza più semplice; così nel costituirsi dell'umana solidarietà nella storia spirituale della sociale convivenza.
Dio si umanizza; e l'uomo nel dialogo e nella società con Dio (spirito, persona), si accerta che egli come uomo non è nulla di immediato, ma pensa vuole ama e insomma si realizza eternamente nella vivente attualità della sintesi di divino e umano.
In un Dio che non fosse spirito e persona l'uomo non si riconoscerebbe; e attraverso la sua oggettività chiusa e refrattaria a ogni umana compenetrazione non potrebbe egli attuare quell'autocoscienza, in cui pur consiste.
Dire uomo perciò è dire Dio; e dire Dio è dire uomo; quell'uomo che ogni figlio d'Eva è sempre e non è mai: quell'ideale che egli trova in se stesso come colui che ha libertà, ossia possibilità di muoversi nell'infinito, e perciò pensare secondo verità e agire osservando il proprio dovere e partecipare pertanto al mondo degli eterni valori; ma lo trova, quest'ideale, in sé come termine che infinitamente trascende quel che egli si trova a essere ogni volta che torni a considerare quel che è, quel che ha detto, fatto, pensato.
Già l'uomo sa che ciò che egli è per sua essenza (essere che pensa e ragiona, ed è libero) non lo è immediatamente e a un tratto.
Codesto è il suo dovere: quello che spetta a lui di attuare; e perciò sa che di ciò che riesce a essere ha merito o demerito.
Perciò non rischia di scambiare sé con Dio.
La loro immedesimazione immediata sarebbe la fine d'entrambi, e l'uomo assisterebbe con terrore allo spegnersi di quella gran luce in cui è la sua vita e al venir meno dentro al suo cuore di quel pungolo che lo spinge sempre più in alto.
Se la dualità una volta si componesse e risolvesse in un'identità e unità definitiva, l'uomo si fermerebbe, il suo pensiero si arresterebbe.
Ma ciò è impossibile, perché aver coscienza di sé è superare, trascendere se stesso. Andare più su di quel che già si è.
E innanzi a noi c'è sempre il monte da salire, e se noi ci abbandoniamo per pigrizia, che è incoscienza, alla soddisfazione della dilettosa piaggia a piè del monte, ecco l'interna rampogna: qual negligenza, quale stare è questo? Stare, ristare è impossibile.
Correre al monte è il monito di Catone perché è, prima di tutto, il bisogno intimo della nostra natura.
VI.
Voglio sperare che tra i miei ascoltatori nessuno voglia accusarmi che la mia religione umanizzi Dio, o divinizzi l'uomo e finisca col ridurre a uno i due termini essenziali del rapporto.
E tanto meno che voglia attribuirmi la matta pretesa dell'uomo creatore di Dio, come amano sentenziare i pavidi adoratori dei feticci; ché, purtroppo, ce ne sono anche nel seno della Chiesa cattolica, che salgono sui pulpiti e fanno inorridire le anime timorate con le storie inverosimili dell'attualismo.
Codeste paure ed equivoci derivano dal separare poco cristianamente ciò che Dio ha congiunto: Dio stesso e l'uomo, facendone i due termini opposti di una via rettilinea, in cui non si potranno mai incontrare senza un miracolo che atterri l'intelligenza. Come se l'intelligenza non fosse necessaria anche per la religione a compimento del sentire, per riconoscerlo, pensarlo e confermarlo.
L'uomo e Dio sono certamente distinti; ma non sono separati se non come termini astratti dalla vivente realtà che è sintesi.
Sintesi di Dio che si fa uomo, e uomo che la grazia adegua a Dio, facendo della sua la divina volontà (“fiat voluntas tua!”).
Senza l'unità che è la ragione di questa sintesi, non c'è cristianesimo, non c'è religione dello spirito; che, per dir tutto con una formula, è dualità ma dualità che è unità.
Il divorzio o antagonismo, che si pretende salvare, è peggio che paganesimo; perché anche il pagano credeva, e perciò confidava, sperando una riconciliazione del naturale e del sovrannaturale, dell'uomo con Dio.
L'uomo che scopre in sé Dio, e in certo modo quindi lo crea, non è l'uomo naturale, ma l'uomo che è spirito, entrato già nel regno dello spirito, ond'è uomo ma è anche Dio. Il quale pertanto viene a essere creato non dall'uomo, anzi piuttosto da se medesimo. E il Dio che si umanizza è il Cristo; e chi, mercé sua, partecipa della sua divina natura.
Di che è possibile che si scandalizzino i cristiani intelligenti? Io credo che il cristianesimo richieda intelligenza; richieda, come tutto ciò che è umano, spirito che ravvivi le parole, non parole che uccidano lo spirito.
E io vorrei si rispettasse un'esperienza che parla a gran voce attraverso tutti i secoli e sotto tutti i cieli. La quale attesta che l'intelligenza si può bandire e negare, ma con un'intelligenza superiore; e dimostra che nessuna psicologia è più acuta e scaltrita, nessuna analisi della vita spirituale più penetrante e più attenta di quella onde i mistici pervengono a quella loro esasperata conclusione, che la luce è nelle tenebre e che, insomma, per veder meglio bisogna cavarsi gli occhi.
Né vale opporre che quel che conta nei mistici è non la via, ma la meta; perché questa meta è raggiungibile soltanto per quella via; che è esercizio d'intelligenza e imperterrita fiducia nelle sue forze. È teologia, ancorché negativa: cioè, filosofia.
L'intelligenza si potrà usar bene, o si potrà usar male; ma chi può parlare di abuso, se non la stessa intelligenza? Contro la quale ogni polemica non potrà mai essere che ingratitudine nera, o scempia semplicità di spirito.
Anch'io, sì, ho sempre parlato di ignoto e di mistero, come dominio della fede religiosa; e affermato che la religione incomincia dove s'arresta il processo critico della ragione che indaga e scopre la verità.
A definirlo, Dio è l'astratto oggetto; il quale, astratto che sia dal soggetto, è il Tutto, accanto al quale non rimane più posto al soggetto. Dio tutto, e l'uomo niente: è il motto del mistico, lo spirito più logicamente religioso. Ma ogni logica più rigorosa precipita nell'assurdo.
E io ho pur detto tante volte che anche il mistico, malgrado il suo fiero proposito di annichilirsi, adora Dio. S'inginocchia, si umilia, ma eleva gli altari, edifica i templi e li arricchisce con le fantasie ridenti dell'arte, in cui si riversa e trionfa, a vantaggio della stessa misticità del credente, l'esuberante dovizia della sua misconosciuta soggettività.
E però ho avvertito che in concreto l'atto dello spirito non sarà mai né pura arte né pura religione, e che la sola religione che ci sia in atto è quella che si celebra nell'effettiva vita dello spirito, dove tutto il suo vigore si spiega nella sintesi del pensiero.
Perciò la religione si alimenta e coltiva nell'intelligenza, fuori della quale svapora e svanisce in un fantasma inafferrabile.
L'esclusione reciproca degli opposti è tendenza a un limite, il cui raggiungimento sarebbe la caduta di entrambi gli opposti.
La religione cresce, si espande, si consolida e vive, dentro la filosofia, che elabora incessantemente il contenuto immediato della religione e lo immette nella vita della storia.
Giacché la religione stricto iure non ha storia.
La storia la contamina col suo svolgimento, che la sottrae all'immediatezza in cui il sentimento religioso si pone gelosamente come rigida verità, la cui alterazione è falsificazione, opera umana e non di Dio. Che è il motivo del sospetto in cui fin dalle sue origini la storiografia della religione fu tenuta, come sorgente e fomite di dottrine eterodosse ed eretiche.
Ma, volere o no, la religione non può non passare attraverso il fuoco del pensiero per tema di bruciarsi le ali che la sorreggano nel suo volo a Dio.
Nel fuoco del pensiero acquista essa il calore della vita e la forza onde tutto si assicura nella vita dello spirito, la forza del pensiero; sottratta alla quale la verità è lo schiavo di cui parla Platone, che, non legato alla sua catena, c'è finché c'è, ma può da un momento all'altro fuggire e dileguarsi.
VII.
E qui il mio discorso può finire. Finire, se non altro, per discrezione.
Ma somiglia, in verità, al « Palazzo non finito », che c'è qui a Firenze in via del Proconsolo. Non finito, ma pur bello; e dentro ci stanno tante cose.
So bene che tante cose sarebbero ancora da chiarire, tanti dubbi da eliminare, tanti problemi da risolvere.
Ma io non pretendo - già s'intende da tutto il mio modo di ragionare - che i miei ascoltatori possano per merito mio salire su fino alla cima del monte, illuminata dal sole; né pretendo di averla toccata io la vetta, privilegiato mortale, investito perciò di una missione particolare. Né luce, né pace, né estasi, né beatitudine di santi, santificati perché morti.
A me arride la luce della vetta, ma della vetta da conquistare.
E non posso promettere né a me né altrui altro che la fatica dell'ascesa: il problema che si risolve per rinascere, l'inquietudine del cuore che non posa e cerca sempre perché ha sempre da cercare. Nella ricerca la vita; e se nel separarmi da voi non posso presumere di lasciarvi appieno soddisfatti, benedetta, lasciatemi dire, l'inquietudine che vi ho data! Il mio scopo è raggiunto.