Saturday, 3 March 2012

Discorso di Pola, 21 settembre 1920


di Benito Mussolini

Cittadini di Pola! Combattenti!

Sta dinanzi a voi uno degli uomini politici italiani più combattuti e più odiati negli ultimi venti anni di vita politica. Questi hanno inasprito talmente la mia eloquenza, se mai si può parlare di eloquenza, per cui io non so fare delle sviolinate.

Per me un discorso è un'azione, è un combattimento. Punto direttamente nell'obiettivo. Perciò dovrete credermi se vi dico che sono profondamente commosso.

Noi cittadini della vecchia Italia siamo un po' adusati: abbiamo bisogno di venire fra voi per rituffarci in questi magnifici bagni di idealità.

Ho visto delinearsi la grandezza dell'Arena romana, nella quale la civiltà nostra millenaria incise i suoi segni eterni. Questi segni ci dicono che l'italianità di questa città non può perire. Vorrei condurre qui quegli scettici che vogliono vedere la concretizzazione della nostra vittoria.

Per me il valore della vittoria è in questi segni; è negli imponderabili del futuro; consiste nel fatto che il popolo ha realizzato dopo quindici anni di schiavitù, con le proprie forze, con le proprie energie, la sua vittoria.

Lo sforzo dell'Italia in guerra è stato infinitamente superiore a quello delle altre nazioni, alle quali la fortuna aveva dato imperi coloniali da sfruttare, mentre noi abbiamo costruito la vittoria dalla nostra carne viva e dal sangue vermiglio dei nostri morti.

E questo segno della nostra vittoria è più visibile a Pola, dove gli Absburgo avevano fatto il loro covo per la flotta, che non osò  mai uscire in campo aperto, che bisognò rintracciare. Da qui gli Absburgo sognavano la conquista dell'Adriatico.

Ora quest'impero è finito, è crollato come uno scenario sdrucito.

Io so che nel futuro, quando tutti gli italiani avranno conquistato la coscienza della loro vittoria, si sentiranno orgogliosi e ripeteranno come i legionari di Napoleone, venti anni dopo la fine dell'epopea  napoleonica: « Io sono stato in trincea; io sono stato a Vittorio Veneto ».

Io penso, o amici di Pola, che l'unità della stirpe italiana si è realizzata. In questo è il valore spirituale della vittoria.

Io penso che l'Adriatico è nostro.

Certo se noi avessimo avuto altri uomini politici, più visibile sarebbe questo valore, che oggi è nascosto.

Gli ultimi uomini politici assomigliavano a una scala discendente: da Boselli, troppo vecchio, siamo scesi a Orlando, che piangeva sempre, per discendere infine a Nitti. Questi era l'uomo dalla mentalità economista. Non dico che l'economia per uno Stato grande sia una cosa trascurabile. Dico che tutta la vita di un popolo non può esser vista entro un prisma che schiaccia ogni spiritualità. Nitti era ossessionato da problemi più materiali. Non vedeva la parte superbamente ideale della vita nazionale. Ci darà Giolitti la pace adriatica che noi vogliamo? Non oso affermarlo; non oso dirlo, perché troppa politica rinunciataria si è fatta.

Tante pagine di eroismo per mare, per cielo e sulla terra non le ha scritte nessun popolo del mondo come quello italiano in questa guerra! Vorrei leggervi il testamento dei nostri eroi; quello di Decio Raggi e del nostro Nazario Sauro; vorrei leggervi l'epistolario di quei giovani imberbi, che andavano ad una battaglia come ad una festa di nozze, per mostrarvi come si è battuto il popolo italiano. E si è battuta meravigliosamente la plebe agricola, quella che solo imperfettamente comprendeva i motivi ideali della grande lotta. Ricordo sul Carso il discorso di un fante durante una battaglia. Egli mi diceva: « La guerra la fa la scarpa grossa ». E noi abbiamo vinto per noi e per gli altri. Quale nazione ha saputo fare lo sforzo che abbiamo fatto noi nel giugno? Nessuna.

I nostri giovani andavano all'assalto scherzando, accendevano le bombe come s'accendono le sigarette. Basta ricordare lo Stelvio e l'Ortigara, il Carso e il Grappa. Romanamente ha espresso la nostra vittoria il generalissimo Diaz nel bollettino del 3 novembre. Il valore della vittoria è, come dissi, negli imponderabili del futuro.

Noi siamo in crisi. Ma in crisi sono tutti gli Stati d'Europa. Chi non ha subito spostamenti, dissesti, dopo questa guerra? Forse è peggiore la crisi del dopoguerra in Francia e in Inghilterra, molto peggiore ancora in Germania e negli Stati sorti dall'ex impero austro-ungarico che quella dell' Italia. Non parliamo della crisi russa. Non bisogna essere pessimisti. Noi in questi giorni abbiamo dimostrato come noi stiamo superando felicemente la nostra crisi.

Pareva che dovesse scoppiare la guerra civile; mentre noi abbiamo raggiunto una trasformazione profondamente rivoluzionaria nel rapporto della produzione. Io sono pronto a riconoscere alla classe lavoratrice il diritto di controllo nella fabbrica: quando esso sarà in grado di portare maggior benessere alla Nazione.

Se la classe dirigente è moribonda, è necessario che, secondo la convinzione di Vilfredo Pareto, sorgano delle nuove èlites sociali a sostituirla. Ma oggi nego questa superiorita alla classe lavoratrice. La nego specialmente per il fatto che è dominata da una demagogia che ha soltanto mutato colore. Ai preti si sono sostituiti i preti.

Pazienza se questi demagoghi si limitassero a fare una politica economica; ma essi trattano anche di politica estera mettendosi sempre contro gli interessi italiani e dalla parte dei nostri nemici nazionali! Cosi voi vedete che il bolscevismo è più acceso a Trieste e a Pola che a Milano; solo per danneggiare l'Italia, per creare dei pericoli ai confini.

Io faccio assegnamento nei Fasci di Combattimento. Essi sono nati in un'ora di passione della vita politica italiana. Quando cioè tutti cercavano di dimenticare Vittorio Veneto, tutti si vergognavano quasi d'aver vinto.

Io mi domando: dove trovo la fiammella ideale, la fede per questa vittoria morale?

Una nazione che ha avuto cinquecentomila morti, che ha gioventù come quella che ha combattuto, ha energie tali da meravigliare rutto il mondo.

Ma altri sintomi non meno positivi irrobustiscono questa mia fede. Fra questi il più grande è impresa di Gabriele D'Annunzio! È l'unico grande gesto di rivolta contro l'oligarchia plutocratica di Versaglia; contro i tiranni che hanno nome di Lloyd George, Clemenceau e Wilson! E l'unica volontà in Europa che, diritta e tesa come una lama di una grande spada latina, non si è piegata sotto la violenza di Versaglia!

Noi allora volevamo fare la rivoluzione italianissima!

Qual'è la storia dei Fasci? Essa è brillante. Abbiamo incendiato l'Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata a Trieste, l'abbiamo incendiata a Pola.

Abbiamo dimostrato che non impunemente si può tentare di distruggere l'Italia; e che bisogna passare attraverso i nostri corpi!

I nostri avversali ci calunniano: ci dicono borghesi. Noi ce ne infischiamo. Sono etichette su bottiglie vuote. Noi diamo ragione a chi ha ragione, torto a chi ha torto.

Noi siamo reazionari, siamo reagenti di una pazzia: abbiamo frenato la massa popolare sull'orlo dell'abisso. Se in Italia si fosse ripetuto l'esperimento ungherese, sarebbe caduto il popolo italiano in un baratro.

La reazione sarebbe stata senz'altro vittoriosa. Pensiamo quasi che era meglio lasciar compiere il destino per liberare la nazione da quest'incubo.

Oggi però il Partito Socialista non fa più il prepotente: deve ricorrere ai sobborghi se vuole stare sicuro a Milano.

Noi non possiamo prestar fede alle minchionerie idealistiche, che per esser troppo universali, sono troppo positive.

Oltre alla cerchia dei nostri monti, o istriani, c'è un popolo aggressivo, che vuole raggiungere l'Adriatico.

Questo mare potrà essere commercialmente un mare italo-serbo, ma militarmente non lo sarà mai!

L'Italia, come il più compatto nucleo dopo la Russia e la Germania, perché ha cinquanta milioni, sarà la potenza destinata a dirigere dal Mediterraneo tutta la politica europea. Da Londra, Parigi e Berlino, l'asse si sposterà verso Roma. Italia dovrà essere il ponte fra l'Occidente e l'Oriente.

Verso l'espansione nel Mediterraneo e nell'Oriente l'Italia è spinta dal fattore demografico. È troppo ristretto il nostro territorio per un popolo così esuberante.

Ma per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l'Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone.

Il popolo italiano ha tre qualità che gli garantiscono il successo: è prolifico, è laborioso, è intelligente.

Nel futuro prossimo ogni italiano ripeterà come il cittadino romano: sono orgoglioso di essere italiano!

Noi non temiamo più le rinunce. Se il conte Sforza oserà qualche rinuncia, i legionari di Gabriele d'Annunzio occuperanno tutti quei territori a cui il ministro avrà rinunciato!

I confini d'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche; sì le Dinariche per la Dalmazia dimenticata!

Oggi l'opera dei fascisti si riduce a quella di sprangare la porta di casa e rastrellare nell'interno. Chi è dentro le nostre terre di frodo o con frode deve andarsene.

Il nostro imperialismo, che vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e che vuole espandersi nel Mediterraneo, non è quello prussiano violento, né quello inglese ipocrita; è invece quello romano.

Noi non possiamo disarmare, finché gli altri non avranno disarmato; noi non possiamo trasformare nostre spade in aratri, finché la stessa cosa non avranno fatto gli altri Stati e la Jugoslavia vicina!

Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche.

Ma a tenere salda l'Italia nelle future sue battaglie, occorre la vostra fede, o cittadini, occorre il vostro giuramento!