Sunday 4 March 2012

Discorso di Roma, 21 aprile 1940

Alle gerarchie delle confederazioni sindacali

di Benito Mussolini

Ho parlato al popolo adunato in piazza Venezia con un discorso che è durato esattamente trenta secondi e che si può riassumere in queste parole: « lavoro e armi », che sono anche la parola d'ordine. Lavoro necessario per preparare le armi; armi per tutelare il lavoro del popolo italiano.

In questi momenti angosciosi, nei quali assistiamo giornalmente a quegli eventi formidabili, che mi fanno soffrire anche fisicamente, sebbene il mio aspetto possa farvi credere il contrario, io mi sano posto un quesito, che affido alla vostra meditazione: Siamo noi indipendenti? (Urla: « Sì!... No!... »).

Il contrasto di queste vostre risposte è soltanto apparente, perché gli uni e gli altri possono avere ragione. Hanno ragione quelli che hanno detto « sì », perché l'indipendenza è prima di tutto un problema di volontà, e per essere indipendenti bisogna innanzi tutto fermamente e fortemente volerlo. Hanno ragione gli altri, perché la volontà si estrinseca poi nei fatti e sotto questo aspetto noi non siamo indipendenti.

Non siamo indipendenti perché da otto mesi non uno dei nostri piroscafi è sfuggito al controllo, molte volte capriccioso, delle navi inglesi o francesi. Gli armatori, che certamente sono qui presenti, ne sanno qualche cosa; il popolo italiano ne ha oggi solo un vago sentore, ma verrà il momento in cui bisognerà pure informarlo.

È di ieri il sequestro di un carico di uva sultanina; altra volta è stata rilasciata la cannella ma venne trattenuto il pepe! Ci sono stati piroscafi obbligati a scaricare, pesare e ricaricare per sbarcare poi la merce a Malta o a Marsiglia. È di ieri il caso di un esportatore italiano, che ci ha chiesto se, per la liberazione di sessanta casse di uova trattenute a Malta da quindici giorni, si doveva attendere che fossero nati i pulcini.

È stato detto che siamo prigionieri del Mediterraneo. È inutile che gli italiani si fascina la testa pensando ad una eventuale egemonia continentale dei tedeschi, quando noi da otto mesi siamo sottoposti ad una egemonia marittima che tenta di privarci delle materie di cui siamo affamati.

Per andare in Africa dobbiamo passare per un canale nel cui controllo noi entriamo in minima parte, come per affacciarsi sull'Oceano le nostre navi debbono passare sotto la rocca di Gibilterra.

Ieri un cittadino britannico mi diceva che Roma potrebbe essere bombardata dal mare. La vorrei vedere una corazzata nel mare di Fiumicino per sapere quale fine farebbe!

Dalle mie lunghe meditazioni sulla storia ho ricavato, anzi ho fissato, questa legge determinante: un popolo é indipendente soltanto se ha libere finestre aperte sull'oceano; è semi-indipendente se si affaccia ad un mare interno; non è affatto indipendente se è soltanto continentale. Sfido chiunque a smentire questa legge.

La storia di questa nostra magnifica Italia ha avuta in questi ultimi secoli un destino veramente ingrato. La nostra situazione d'oggi dipende dal fatto che nei secoli XVI, XVII, XVIII l'Italia non era uno Stato. Mentre gli altri popoli si lanciavano alla conquista dei continenti (la Francia nel Canadà, il Portogallo nel Brasile, la Spagna nell'Africa meridionale, l'Inghilterra in tutto il mondo), in Italia si facevano dell'arcadia e delle pastorellerie.

Chi vuole avere un'idea esatta della vita italiana di quei tempi, legga un poemetto dell'abate Parini, Il giorno, che rispecchia la vita del signore italiano d'allora, che, « discendente da magnanimi lombi », trascorreva le ventiquattro ore del giorno a non fare nulla, anzi a fare lo stupido.

L'Italia ha subito varie invasioni: i barbari l'hanno invasa alla caduta dell'impero romano; l'hanno invasa anche i germanici, che non si sentivano imperatori se non venivano a proclamarsi in questa nostra Roma. Ma poi in soli trent'anni abbiamo avuto ben tre invasioni francesi Carlo VIII (quello delle trombe e delle campane), Luigi XII e Francesco I.

Non avranno dimenticato i piemontesi che gli ordini dati dal generale Catinat erano « Tuez et brulez », cioè « Uccidete e bruciate ». Del resto, anche l'invasione del 1796 non ha scherzato: l'ordine dato dal Direttorio è stato di portar via tutto ai lombardi, lasciando loro solo gli occhi per piangere sulle cose perdute; a Venezia si sono presi persino i cavalli!

Aveva ragione quel principe estense che, avuta notizia in battaglia che le sue artiglierie stavano tirando sulle truppe francesi alleate, non se ne preoccupava, rispondendo: « Sono tutti inimichi ». E potrei continuare con queste digressioni storiche fina a mezzanotte, ma allora il nuovo presidente della Croce Rossa, camerata Mormino, dovrebbe venire probabilmente a raccogliervi tutti.

Oggi io non ho che da confermare e ripetere quanto dissi nel discorso del 1939 agli squadristi : « L'Italia tiene fede alla sua parola », e vi autorizzo a ripeterlo a chiunque. Il valore di un uomo è dato dalla sua reputazione; lo stesso accade per i popoli.

Quando l'Italia era poco popolata ed aveva una economia prevalentemente agricola, le sbarre non si facevano sentire; ma ora che essa sta per diventare di cinquanta milioni di abitanti, le sbarre ed i muri della prigione sono diventati di ferro. Chi non si rende conto di questo, pecca di fede fascista. Noi siamo fortunati perché la nostra alleata ci ha lasciato latitudine e margine di tempo e finora non ci ha chiesto nulla. Se fossimo stati dall'altra parte, ci avrebbero già detto: « Signori italiani, voi che siete in tanti, andate a morire a larghe masse per noi! ».

Questa nostra politica può del resto far piacere anche a quei pochi italiani che più che altro si preoccupano della salvezza del loro ventre! A questo punto, la consegna che posso darvi si può sintetizzare con l'espressione aviatoria « dare tutto gas » e per quelli che non sono aviatori (ed è peccato, ma reputo siano almeno automobilisti) con l'altra: « premere il piede su tutto l'acceleratore ». Non bisogna però drammatizzare, né tragicizzare la situazione: occorre mantenersi calmi, ed essere proni. Da questa nostra comunità di spiriti, io traggo la convinzione che voi avete compreso il mio stato d'animo, come io ho compreso il vostro.