Rapporto ai Gerarchi di Genova
di Benito Mussolini
Sono lieto di trovarmi fra voi, perché ciò mi rinnova il ricordo delle splendide giornate del maggio dell'anno scorso ed anche perché, come giustamente ha detto il vostra federale, Genova, oltre che centro di produzione, è città del pensiero e dell'ideale, città di guerrieri e di navigatori, che ha l'orgoglio, il giusto orgoglio, di aver dato i natali a Giuseppe Mazzini. Io leggo spesso i libri di Mazzini e ritengo purtroppo che pochi italiani facciano altrettanto. Si accorgerebbero che le sue idee sono di tale palpitante attualità che si direbbe vissuto nel nostro tempo.
Ma veniamo ai nostri montoni belanti, alle nostre pecore rognose. Secondo costoro io sarei cieco, avrei non so quali paralisi alle braccia, sarei stato sciabolato da non so quanti marescialli o generali. Io non sono stato mai tanto bene come adesso, non ho il minimo raffreddore, tanto che, all'inizio -dei miei esercizi sportivi quotidiani, spesso mi sono chiesto: sono io quel desso?
Niente da fare, lo so benissimo.
Dai soliti angolini sono sorte le notizie di contrasti tra Milizia e Esercito. Resti ben chiaro che la Milizia è il Partito col moschetto; essa rimane la guardia della rivoluzione, che ha dato contributi di sangue e di sacrificio nelle guerre di Spagna ed Africa e che assolve efficacemente i compiti di strumento militare per la difesa della nazione. Centoquaranta,due battaglioni avranno l'onore di far parte organica d'ora innanzi delle divisioni dell'Esercito e contribuiranno a stringere sempre più i vincoli di schietto, fraterno cameratismo fra queste due forze che hanno il solo obiettivo della difesa della patria.
Nel momento politico attuale, nulla ho da aggiungere a quanto dissi ai gerarchi bolognesi. La nostra attenzione si sintetizza in questo: prepararsi militarmente. Tale preparazione incontra notevoli difficoltà, che stiamo superando. Il periodo di preparazione sarà sufficientemente lungo. E poi? Se « pace », noi siamo i meglio qualificati per parlarne, perché abbiamo sostenuto due guerre. Se « guerra », il popolo italiano si batterà.
Occorre avere un realismo politico spietato. Perseguiamo i nostri interessi vitali. Nessuno si commuove di noi. È finita il tempo in cui aiutavamo tutti. Il mondo comincia da noi. La nostra posizione nettissima, che ci permette di essere arbitri del nostro destino, ci consente di rifiutare qualsiasi « aut-aut ». Nessun pietismo, perché i popoli hanno il destino che essi hanno creato.
Se avessi la disgrazia di essere inglese, sarei nero, anzi nerissimo, più di quanto non lo siano i polacchi, spinti per ragioni oblique alla guerra, anche quando stavano per cedere.
Egemonie secolari stanno traballando. Noi siamo prigionieri nel Mediterraneo, grossa prigione. Tre porte, ma tutte ben guardate ed in mano a nemici o avversari.
La presente situazione offre parecchie soluzioni, che però non sono le dodicimila del gioco del lotto. Potrei anche dirvele, ma non voglio.
È compito del Partito di pulire quegli angolini che potrei materialmente raffigurare come salotti, bar o osterie.
Intanto il Partito è e rimane l'artefice della rivoluzione, la spina dorsale del regime, il motore dell'attività nazionale, non soltanto nel campo politico. Voi dovete inquadrare il popolo italiano in vista dell'evento « guerra ». Non permetteremo nessuna incrinatura interna. Dovete distinguere nei vociferatori coloro che parlano in buona fede da coloro che parlano con dolo deliberato. Continuate a intensificare l'opera che è stata finora svolta dal fascismo genovese, come risulta dal rapporto del federale.
Le donne fasciste hanno compiti importantissimi da svolgere nel campo assistenziale fra le famiglie del popolo, soprattutto tra le famiglie dei alle armi. Tenete presente che molte famiglie sono nella miseria ed altre soffrono la fame.
Questo discorso è come quello di Eboli: discorsi che non si pubblicano nel testo integrale, ma che siete autorizzati a diffondere.
E sappiate che io sono quotidianamente assorbito dal lavoro per il raggiungimento degli interessi dell'Italia.
(Un'ondata di applausi ha accolto la fine delle parole del Duce e a lungo la sala delle Battaglie ha echeggiato del nome suo, invocato da duecento voci, con un solo cuore, con uno stesso entusiasmo, con eguale fede. Por tutti si sono stretti attorno a lui, vicini, vicinissimi, quasi perché egli sentisse più immediato l'impeto della loro fede).