di Benito Mussolini
Con il discorso che intendo pronunciare innanzi a voi, io faccio una eccezione alla regola che mi sono imposta: quella, cioè, di limitare al minimo possibile le manifestazioni della mia eloquenza. Oh, se fosse possibile strangolarla, come consigliava un poeta, l'eloquenza verbosa, prolissa, inconcludente, democratica, che ci ha deviato per così lungo tempo! Io sono quindi sicuro, od almeno mi lusingo di avere questa speranza, che voi non vi attenderete da me un discorso che non sia squisitamente fascista, cioè scheletrico, aspro, schietto e duro.
Non attendetevi la commemorazione del XX Settembre. Certo, l'argomento sarebbe tentante e lusingatore. Ci sarebbe ampio materiale di meditazione riesaminando per quale prodigio di forze imponderabili ed attraverso quali e quanti sacrifici di popoli e di uomini, l'Italia abbia potuto raggiungere la sua non ancora totale unità, perché di unità totale non si potrà parlare fino a quando Fiume e la Dalmazia e le altre terre non siano ritornate a noi, compiendosi con ciò quel sogno orgoglioso che fermenta nei nostri spiriti. (Applausi fragorosi).
Ma vi prego di considerare che anche nel Risorgimento ed attraverso il Risorgimento Italiano, che va dal primo tentativo insurrezionale che si verificò a Nola in un reparto di cavalleggeri, e finisce con la Breccia di Porta Pia nel '70, due forze entrano in giuoco; una è la forza tradizionale, la forza di conservazione, la forza necessariamente un po' statica e tardigrada, la forza della tradizione sabauda e piemontese; l'altra, la forza insurrezionale e rivoluzionaria che veniva su dalla parte migliore del popolo e della borghesia; ed è solo attraverso la conciliazione e l'equilibrio di queste due forze che noi abbiamo potuto realizzare l'unità della Patria. Qualche cosa di simile forse si verifica anche oggi e di ciò mi riprometto di parlare in seguito.
Ma perché (ve lo siete mai domandato?), perché l'unità della Patria si riassume nel simbolo e nella parola di Roma? Bisogna che i fascisti dimentichino assolutamente — perché se non lo facessero sarebbero meschini — le accoglienze più o meno ingrate che avemmo a Roma nell'ottobre dell'anno scorso e bisogna avere il coraggio di dire che una parte di responsabilità di tutto ciò che avvenne la si dovette a taluni elementi nostri che non erano all'altezza della situazione. E non bisogna confondere Roma con i romani, con quelle centinaia di cosiddetti « profughi del fascismo » che sono a Roma, a Milano ed in qualche altro centro d'Italia e che fanno naturalmente dell'antifascismo pratico e criminoso. Ma se Mazzini, se Garibaldi tentarono per tre volte di arrivare a Roma, e se Garibaldi aveva dato alle sue camicie rosse il dilemma tragico, inesorabile di «o Roma o morte», questo significa che negli uomini del Risorgimento italiano, Roma ormai aveva una funzione essenziale di primissimo ordine da compiere nella nuova storia della Nazione italiana. Eleviamo, dunque, con animo puro e sgombro da rancori il nostro pensiero a Roma che è una delle poche città dello spirito che ci siano nel mondo, perché a Roma, tra quei sette colli così carichi di storia, si è operato uno dei più grandi prodigi spirituali che la storia ricordi; cioè si è tramutata una religione orientale, da noi non compresa, in una religione universale che ha ripreso sotto altra forma quell'imperio che le legioni consolari di Roma avevano spinto fino all'estremo confine della terra. E noi pensiamo di fare di Roma la città del nostro spirito, una città, cioè, depurata, disinfettata da tutti gli elementi che la corrompono e la infangano, pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre dell'Italia imperiale che noi sogniamo. (Prolungati applausi).
Qualcuno potrebbe obiettarci: « Siete voi degni di Roma, avete voi i garretti, i muscoli, i polmoni sufficentemente capaci per ereditare e tramandare le glorie e gli ideali di un imperio? ». Ed allora i critici arcigni si industriano a vedere nel nostro giovane ed esuberante organismo dei segni di incertezza.
Ci si parla del fenomeno dell'autonomismo fascista: dico ai fascisti ed ai cittadini che questo autonomismo non ha nessuna importanza. Non è un autonomismo di idee o di tendenze. Tendenze non conosce il fascismo. Le tendenze sono il triste privilegio dei vecchi partiti, che sono associazioni comiziali diffuse in tutti i paesi e che non avendo niente da fare e da dire, finiscono per imitare quei sordidi sacerdoti dell'Oriente che discutevano su tutte le questioni del mondo mentre Bisanzio periva. Gli scarsi, sporadici tentativi di autonomia fascista o sono liquidati o sono in via di liquidazione, perché rappresentano soltanto delle rivalse di indole personale.
Veniamo ad un altro argomento: la disciplina. Io sono per la più rigida disciplina. Dobbiamo imporre a noi stessi la più ferrea disciplina, perché altrimenti non avremo il diritto di imporla alla Nazione. Ed è solo attraverso la disciplina della Nazione che l'Italia potrà farsi sentire nel consesso delle altre nazioni. La disciplina deve essere accettata. Quando non è accettata, deve essere imposta. Noi respingiamo il dogma democratico che si debba procedere eternamente per sermoni, per prediche e predicozzi di natura più o meno liberale. Ad un dato momento bisogna che la disciplina si esprima, nella forma, sotto l'aspetto di un atto di forza e di imperio. Esigo, quindi, e non parlo ai militi della regione friulana che sono — lasciatemelo dire — perfetti per sobrietà e compostezza, austerità e serietà di vita, ma parlo per i fascisti di tutta Italia, i quali se un dogma debbono avere, questo deve portare un solo chiaro nome: disciplina! Solo obbedendo, solo avendo l'orgoglio umile ma sacro di obbedire si conquista poi il diritto di comandare. Quando il travaglio sia avvenuto nel vostro spirito, potete imporlo agli altri. Prima, no. Di questo debbono rendersi ben conto i fascisti di tutta Italia. Non debbono interpretare la disciplina come un richiamo di ordine amministrativo o come un timore dei capi che possono paventare l'ammutinamento di un gregge. Questo no, perché noi non siamo capi come tutti gli altri, e le nostre forze non possono portare affatto il nome di gregge. Noi siamo una milizia, ma appunto perché ci siamo data questa speciale costituzione dobbiamo fare della disciplina il cardine supremo della nostra vita e della nostra azione. (Clamorosi applausi).
E vengo alla violenza. La violenza non è immorale. La violenta è qualche volta morale. Noi contestiamo a tutti i nostri nemici il diritto di lamentarsi della nostra violenza, perché paragonata a quelle che si commisero negli anni infausti del '19 e del '20 e paragonata a quella dei bolscevichi di Russia, dove sono state giustiziate due milioni di persone e dove altri due milioni di individui giacciono in carcere, la nostra violenza è un gioco da fanciulli. D'altra parte la nostra violenza è risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto, in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda. (Applausi). Quindi, quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa è moralissima, sacrosanta e necessaria. Ma, o amici fascisti, e parlo ai fascisti d'Italia, bisogna che la nostra violenza abbia dei caratteri specifici, fascisti. La violenza di dieci contro uno è da ripudiare e da condannare. (Applausi). La violenza che non si spiega deve essere ripudiata. C'è una violenza che libera ed una violenza che incatena; c'è una violenza che è morale ed una violenza che è stupida e immorale. Bisogna adeguare la violenza alla necessità del momento, non farne una scuola, una dottrina, uno sport. Bisogna che i fascisti evitino accuratamente di sciupare con gesti di violenza sporadica, individuale, non giustificata, le brillantissime e splendide vittorie dei primi di agosto. (Applausi). Questo attendono i nostri nemici, i quali da certi episodi e, diciamolo francamente, da certi ingrati episodi come quello di Taranto, sono indotti a credere ed a sperare od a lusingarsi che la violenza essendo diventata una specie di secondo abito, quando noi non abbiamo più un bersaglio su cui esercitarla, la esercitiamo su noi o contro di noi o contro i nazionalisti. Ora i nazionalisti divergono da noi su certe questioni, ma la verità va detta ed è questa: che in tutte le battaglie che abbiamo combattuto li abbiamo avuti al nostro fianco. (« Bene! ». Applausi).
Può darsi che tra di loro vi siano dei dirigenti, dei capi che non vedono il fascismo sotto la specie con la quale lo vediamo noi, ma bisogna riconoscere e proclamare e dire che le camicie azzurre a Genova, a Bologna, a Milano ed in altre cento località furono al fianco delle camicie nere. (Applausi). Quindi sgradevolissimo è l'episodio di Taranto ed io mi auguro che i dirigenti del fascismo agiranno nel senso che rimanga un episodio isolato da dimenticarsi in una riconciliazione locale ed in una affermazione di simpatia e di solidarietà nazionale.
Altro argomento che si può prestare alle speranze dei nostri avversari: le masse. Voi sapete che io non adoro la nuova divinità: la massa. È una creazione della democrazia e del socialismo. Soltanto perché sono molti debbono avere ragione. Niente affatto. Si verifica spesso l'opposto, cioè che il numero è contrario alla ragione. In ogni caso la storia dimostra che sempre delle minoranze, esigue da principio, hanno prodotto profondi sconvolgimenti nelle società umane. Noi non adoriamo la massa nemmeno se è munita di tutti i sacrosanti calli alle mani ed al cervello, ed invece portiamo, nell'esame dei fatti sociali, delle concezioni, degli elementi almeno nuovi nell'ambiente italiano. Noi non potevamo respingere queste masse. Venivano a noi. Dovevamo forse accoglierle con dei calci negli stinchi? Sono sincere? Sono insincere? Vengono a noi per convinzione o per paura? O perché sperano di ottenere da noi quello che non hanno ottenuto dai socialpussisti? Questa indagine è quasi oziosa, perché non si è ancora trovato il modo di penetrare nell'intimo dello spirito. Abbiamo dovuto fare del sindacalismo. Ne facciamo. Si dice: « Il vostro sindacalismo finirà per essere in tutto e per tutto simile al sindacalismo socialista; dovrete per necessità di cose fare della lotta di classe ».
I democratici, una parte dei democratici, quella parte che sembra avere il solo scopo di intorbidare le acque, continua da Roma (dove si stampano troppi giornali, molti dei quali non rappresentano nessuno o niente) a manovrare in questo senso.
Intanto il nostro sindacalismo diversifica da quello degli altri, perché noi non ammettiamo lo sciopero nei pubblici servizi per nessun motivo. Siamo per la collaborazione di classe, specie in un periodo come l'attuale di crisi economica acutissima. Quindi cerchiamo di fare penetrare nel cervello dei nostri sindacati questa verità e questa concezione.
Però bisogna dire, con altrettanta schiettezza, che gli industriali ed i datori di lavoro non debbono ricattarci, perché c'è un limite oltre al quale non si può andare, e gli industriali stessi ed i datori di lavoro, la borghesia, per dirla in una parola, la borghesia deve rendersi conto che nella Nazione c'è anche il popolo, una massa che lavora, e non si può pensare a grandezza di Nazione se questa massa che lavora è inquieta, oziosa, e che il compito del Fascismo è di farne un tutto organico colla Nazione, per averla domani, quando la Nazione ha bisogno della massa, come l'artista ha bisogno della materia greggia per forgiare i suoi capolavori.
Solo con una massa che sia inserita nella vita e nella storia della Nazione noi potremo fare una politica estera.
E sono giunto al tema che è in questo momento di attualità grandissima. Alla fine della guerra è evidente che non si è saputo fare la pace. C'erano due strade: o la pace della spada o la pace della approssimativa giustizia. Invece, sotto l'influenza d'una mentalità democratica deleteria, non si è fatta la pace della spada occupando Berlino, Vienna, Budapest, e non si è fatta nemmeno la pace approssimativa della giustizia.
Gli uomini, molti dei quali erano ignari di storia e di geografia (e pare che questi famosi esperti, che noi potremmo chiamare italianamente periti, ne sapessero quanto i loro principali, ed abbiano scomposto e ricomposto la carta geografica d'Europa) hanno detto: « Dal momento che i turchi danno fastidi all'Inghilterra, sopprimiamo la Turchia. Dal momento che l'Italia, per diventare una potenza mediterranea, deve avere l'Adriatico come un suo golfo interno, neghiamo all'Italia le giuste rivendicazioni di ordine adriatico ». Che cosa succede? Succede che il trattato più periferico naturalmente va in pezzi prima degli altri. Ma siccome tutto consiste nella costruzione di questi trattati, per cui tutti sono in relazione tra di loro, così il disgregamento, il frantumamento del trattato di Sèvres riconduce nella eventualità il pericolo che anche tutti gli altri trattati facciano la stessa fine.
L'Inghilterra, a mio avviso, dimostra di non avere più una classe politica all'altezza della situazione. Infatti voi vedete che fin qui, da quindici anni un solo uomo impersona la politica inglese. Non è stato ancora possibile di sostituirlo. Lloyd George, che, a detta di coloro che lo conoscono intimamente, è un mediocre avvocato, rappresenta la politica dell'impero da ben tre lustri! L'Inghilterra anche in questa occasione rivela la mentalità mercantile di un impero che vive sulle sue rendite e che aborre da qualsiasi sforzo che sia suo proprio, che gli costi del sangue. Fa appello ai Dominions ed alla Jugoslavia ed alla Romania. D'altra parte, se le cose si complicano in questo senso, voi vedete spuntare l'eterno ed indistruttibile cosacco russo, che cambia di nome ma che non cambia anima. Chi ha armato la Turchia di Kemal Pascià? La Francia e la Russia. Chi può armare la Germania di domani? La Russia. E grande fortuna al fine della nostra politica estera, è grande fortuna che accanto ad un esercito che ha tradizioni gloriosissime, l'esercito nazionale, vi sia l'esercito fascista.
Bisognerebbe che i nostri ministri degli Esteri sapessero giocare anche questa carta e la buttassero sul tappeto verde e dicessero: « Badate che l'Italia non fa più una politica di rinunce o di viltà, costi quello che costi! ». (Applausi prolungati. Acclamazioni entusiastiche a Fiume italiana, alla Dalmazia italiana. Una bandiera dai colori fiumani viene portata in trionfo, tra indescrivibile entusiasmo, sul palcoscenico. La dimostrazione si rinnova e dura oltre cinque minuti).
Dicevo, dunque, che mentre negli altri paesi si comincia ad avere una chiara coscienza della forza rappresentata dal fascismo italiano anche in tema di politica estera, i nostri ministri sono sempre in atteggiamento di uomini che soggiacciono. Ci domandano quale è il nostro programma. Io ho già risposto a questa domanda, che vorrebbe essere insidiosa, in una piccola riunione tenuta a Levanto davanti a trenta o quaranta fascisti e non supponevo che avrebbe potuto avere una ripercussione così vasta il mio discorso, il mio famigliare discorso.
Il nostro programma è semplice: vogliamo governare l'Italia.
Ci si dice: « Programmi? ». Ma di programmi ce ne sono anche troppi. Non sono i programmi di salvazione che mancano all'Italia. Sono gli uomini e la volontà! (Applausi). Non c'è italiano che non abbia o non creda di possedere il metodo sicuro per risolvere alcuni dei più assillanti problemi della vita nazionale. Ma io credo che voi tutti siate convinti che la nostra classe politica sia deficente. La crisi dello Stato liberale è in questa deficenza documentata. Abbiamo fatto una guerra splendida dal punto di vista dell'eroismo individuale e collettivo. Dopo essere stati soldati, gli italiani nel '18 erano diventati guerrieri.
Vi prego di notare la differenza essenziale.
Ma la nostra classe politica ha condotto la guerra come un affare di ordinaria amministrazione. Questi uomini, che noi tutti conosciamo e dei quali portiamo nel nostro cervello la immagine fisica, ci appaiono ormai come dei superati, degli sciupati, degli stracchi, come dei vinti. Io non nego nella mia obiettività assoluta che questa borghesia, che con un titolo globale si potrebbe chiamare giolittiana, non abbia i suoi meriti. Li ha certamente. Ma oggi che l'Italia è fermentante di Vittorio Veneto, oggi che questa Italia è esuberante di vita, di slancio, di passione, questi uomini che sono abituati soprattutto alla mistificazione di ordine parlamentare, ci appaiono di tale statura non più adeguata all'altezza degli avvenimenti. (Applausi). Ed allora bisogna affrontare il problema: « Come sostituire questa classe politica, che ha sempre, negli ultimi tempi, condotto una politica di abdicazione di fronte a quel fantoccio gonfio di vento che era il socialpussismo italiano? ».
Io credo che la sostituzione si renda necessaria e più sarà radicale, meglio sarà. Indubbiamente il fascismo, che domani prenderà sulle braccia la Nazione (quaranta milioni, anzi quarantasette milioni di italiani) si assume una tremenda responsabilità. C'è da prevedere che molti saranno i delusi poiché una delusione c'è sempre: o prima o dopo, ma c'è sempre, e nel caso che si faccia e nel caso che non si faccia.
Amici! Come la vita dell'individuo, quella dei popoli comporta una certa parte di rischi. Non si può sempre pretendere di camminare sul binario Decauville della normalità quotidiana. Non ci si può sempre indirizzare alla vita laboriosa e modesta di un impiegato del lotto, e questo sia detto senza ombra di offesa per gli impiegati delle cosiddette « bische dello Stato ». Ad un dato momento bisogna che uomini e partiti abbiano il coraggio di assumere la grande responsabilità di fare la grande politica, di provare i loro muscoli. Può darsi che falliscano. Ma ci sono dei tentativi anche falliti che bastano a nobilitare e ad esaltare per tutta la vita la coscienza di un movimento politico, del Fascismo italiano.
Io mi ripromettevo di fare il discorso a Napoli, ma credo che a Napoli avrò altri temi per esso.
Non tardiamo più oltre ad entrare nel terreno delicato e scottante del regime. Molte polemiche che furono suscitate dalla mia tendenzialità sono dimenticate, ed ognuno si è convinto che quella tendenzialità non è uscita fuori così improvvisamente. Rappresentava, invece, un determinato pensiero. È sempre così. Certi atteggiamenti sembrano improvvisi al grosso pubblico, il quale non è indicato e non è obbligato a seguire le trasformazioni lente, sotterranee di uno spirito inquieto e desideroso di approfondire, sempre sotto veste nuova, determinati problemi. Ma il travaglio c'è, intimo, qualche volta tragico. Voi non dovete pensare che i capi del Fascismo non abbiano il senso di questa tragedia individuale, soprattutto tragedia nazionale. Quella famosa tendenzialità repubblicana doveva essere una specie di tentativo di riparazione di molti elementi che erano venuti a noi soltanto perché avevamo vinto. Questi elementi non ci piacciono. Questa gente che segue sempre il carro del trionfatore e che è disposta a mutare bandiera se muta la fortuna, è gente che il fascismo deve tenere in grande sospetto e sotto la più severa sorveglianza.
È possibile — ecco il quesito — una profonda trasformazione del nostro regime politico senza toccare l'Istituto monarchico? È possibile, cioè, rinnovare l'Italia non mettendo in gioco la monarchia? E quale è l'atteggiamento di massima del fascismo di fronte alle istituzioni politiche?
Il nostro atteggiamento di fronte alle istituzioni politiche non è impegnativo in nessun senso. In fondo i regimi perfetti stanno soltanto nei libri dei filosofi. Io penso che un disastro si sarebbe verificato nella città greca se si fossero applicate esattamente, comma per comma, le teorie di Platone. Un popolo che sta benissimo sotto forme repubblicane non pensa mai ad avere un re. Un popolo che non è abituato alla repubblica agognerà il ritorno alla monarchia. Si è ben voluto mettere sul cranio quadrato dei tedeschi il berretto grigio; ma i tedeschi odiano la repubblica; e per il fatto che è stata imposta dall'Intesa e che èstata una specie di Ersatz, trovano in Germania un altro motivo di avversione per questa Repubblica.
Dunque le forme politiche non possono essere approvate o disapprovate sotto la specie della eternità, ma debbono essere esaminate sotto la specie del rapporto diretto fra di loro, della mentalità dello stato di economia, delle forze spirituali di un determinato popolo. (Una voce grida: « Viva Mazzini! »). Questo in tesi di massima. Ora io penso che si possa rinnovare profondamente il regime, lasciando da parte l’istituzione monarchica. In fondo, e mi riferisco al grido dell'amico, lo stesso Mazzini, repubblicano, maestro di dottrine repubblicane, non ha ritenuto incompatibili le sue dottrine col patto monarchico della unità italiana.
L'ha subìto, l'ha accettato. Non era il suo ideale, ma non si può sempre trovare l'ideale.
Noi, dunque, lasceremo in disparte, fuori del nostro gioco, che avrà altri bersagli visibilissimi e formidabili, l'Istituto monarchico, anche perché pensiamo che gran parte dell'Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto. Avremmo forse del separatismo regionale poiché succede sempre così. Oggi molti sono indifferenti di fronte alla monarchia; domani sarebbero, invece, simpatizzanti, favorevoli e si troverebbero dei motivi sentimentali rispettabilissimi per attaccare il fascismo che avesse colpito questo bersaglio.
In fondo io penso che la monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare quella che ormai bisogna chiamare la rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse, perché se lo facesse, diverrebbe subito bersaglio, e, se diventasse bersaglio, è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita o di morte. Chi può simpatizzare per noi non può ritirarsi nell'ombra. Deve rimanere nella luce. Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficentemente monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile.
D'altra parte bisogna evitare che la rivoluzione fascista metta tutto in gioco. Qualche punto fermo bisogna lasciarlo, perché non si dia la impressione al popolo che tutto crolla, che tutto deve ricominciare, perché allora alla ondata di entusiasmo del primo tempo succederebbero le ondate di panico del secondo e forse ondate successive, che potrebbero travolgere la prima. Ormai le cose sono molto chiare. Demolire tutta la superstruttura socialistoide-democratica.
Avremo uno Stato che farà questo semplice discorso: « Lo Stato non rappresenta un partito, lo Stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti, supera tutti, protegge tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità ». (Fragorosi, prolungaci applausi).
Questo è lo Stato che deve uscire dall'Italia di Vittorio Veneto. Uno Stato che non dà localmente ragione al più forte; uno Stato non come quello liberale che in cinquant'anni non ha saputo attrezzarsi una tipografia per fare un suo giornale quando vi sia lo sciopero generale dei tipografi; uno Stato che è in balìa della onnipotenza, della fu onnipotenza socialista; uno Stato che crede che i problemi siano risolvibili soltanto dal punto di vista politico, perché le mitragliatrici non bastano se non c'è lo spirito che le faccia cantare. Tutto l'armamentario dello Stato crolla come un vecchio scenario di teatro da operette, quando non ci sia la più intima coscienza di adempire ad un dovere, anzi ad una missione. Ecco perché noi vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano. Resta la polizia, che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l'esercito, che deve garantire la inviolabilità della Patria e resta la politica estera. (Applausi).
Non si dica che così svuotato lo Stato rimane piccolo. No! Rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio degli spiriti, mentre abdica a tutto il dominio della materia. (Ovazione prolungata).
Ed ora, o amici, io credo di avere parlato abbastanza e questa mia opinione ritengo sia condivisa anche da voi.
Cittadini!
Io vi ho sinteticamente esposto le mie idee. Bastano, a mio avviso, a individuarle. Del movimento si chiedono sempre i connotati, ma più connotati di così...
Se non bastasse questa nostra mentalità, c'è il nostro metodo, c'è la nostra attività quotidiana che non intendiamo di rinnegare, pur vigilando che non esageri, non trascenda e non danneggi il fascismo. E quando dico queste parole le dico con intenzione, perché se il fascismo fosse un movimento come tutti gli altri, allora il gesto dell'individuo o del gruppo avrebbe una importanza relativa. Ma il nostro movimento è un movimento che ha dato alla sua ruota fior di sangue vermiglio. Di questo bisogna ricordarsi quando si fa dell'autonomismo e quando si fa della indisciplina. Bisogna pensare ai morti d'ieri soprattutto. Bisogna pensare che tale autonomismo e tale indisciplina possono solleticare anche i bassi miserabili istinti della belva socialpussista, che è vinta, fiaccata, ma che cova ancora segretamente i propositi della riscossa; che noi impediremo con azione collettiva e col tener sempre la nostra spada asciutta. In fondo i romani avevano ragione: « Se vuoi la pace, dimostra di essere preparato alla guerra! ». Quelli che non dimostrano di essere preparati alla guerra, non hanno pace e hanno la disfatta e la sconfitta.
Così noi diciamo a tutti i nostri avversari: « Non basta che voi piantiate troppe bandiere tricolori sui vostri stambugi e circoli vinicoli. Vi vogliamo vedere alla prova. Sarà necessario tenervi un po' in una specie di quarantena, politica e spirituale. I vostri capi, che potrebbero reinfettarvi, saranno messi nella condizione di non nuocere ». Solo così, evitando di cadere nel pregiudizio della quantità, noi riusciremo a salvare la qualità e l'anima del nostro movimento, che non è effimero e transitorio, perché dura da quattro anni, e quattro anni, in questo secolo tempestoso, equivalgono a quaranta anni. Il nostro movimento è ancora nella preistoria ed ancora in via di sviluppo e la storia comincia domani. Quello che il fascismo finora ha fatto è opera negativa. Ora bisogna che ricostruisca. Così si parrà la ma nobilitade, così si parrà la sua forza, il suo animo.
Amici!
Io sono certo che i capi del fascismo faranno il loro dovere. Sono anche certo che i gregari lo faranno. Prima di procedere ai grandi compiti, procediamo ad una selezione inesorabile delle nostre file. Non possiamo portarci le impedimenta; siamo un esercito di veliti, con qualche retroguardia di bravi, solidi territoriali. Ma non vogliamo che vi siano in mezzo a noi elementi infidi.
Io saluto Udine, questa cara vecchia Udine, alla quale mi legano tanti ricordi. Per le sue ampie strade sono passate generazioni e generazioni di italiani che erano il fiore purpureo della nostra razza. Molti di questi giovani e giovanetti dormono ora il sonno che non ha più risveglio nei piccoli cimiteri isolati delle Alpi o nei cimiteri lungo l'Isonzo, tornato fiume sacro d'Italia.
Udinesi! fascisti! italiani!
Raccogliete lo spirito di questi nostri indimenticabili morti e fatene lo spirito ardente della Patria immortale.