Wednesday 7 March 2012

Il numero come forza

(Pubblicato in « Gerarchia », 9 settembre 1928)

di Benito Mussolini

Non conosco personalmente l'autore del libro Diminuzione delle nascite: morte dei popoli, né lo conoscevo di fama, prima che mi capitasse sott'occhio un fascicolo dei Süddeutsche Monatshefte (Quaderni mensili della Germania meridionale) contenente — prefazionato da Osvaldo Spengler — sotto forma di opuscolo, quello che, ampliato e riveduto, io presenterò fra poco come volume al pubblico italiano e in particolar modo al pubblico fascista. Chi sia Osvaldo Spengler è noto agli studiosi che hanno seguito le ultime espressioni del pensiero politico e filosofia tedesco. La sua opera Untergang des Abendlandes (Decadenza dell'Occidente) è stata a suo tempo oggetto di vivo interessamento e di non meno vive polemiche.

Il dott. Riccardo Korherr è un bavarese di Regensburg di modeste origini, che ha fatto i suoi corsi universitari in legge e sociologia a Monaco ed Erlangen. Giovane, egli è nato nel 1903, potrebbe già aspirare ad una cattedra universitaria, ma egli vi ha rinunziato per essere, com'egli stesso mi scrive, « più libero nella lotta che intende condurre in difesa della civiltà occidentale, minacciata da un complesso di idee mendaci che vanno dalla fratellanza universale, alla felicità dei più, dall'edonismo pacifondaio al controllo delle nascite ». Il suo libro è un episodio di tale battaglia. Per coloro che hanno meditato sui fenomeni demografici nei tempi passati e presenti, il libro stesso non apporta lumi speciali. Ci sono qua e là delle inesattezze, almeno per quanto concerne l'Italia, come dimostrerò fra poco. Ma il libro è destinato al grande pubblico, facile vittima dei pregiudizi edonistici orpellati spesso di falsa scienza e, dato questo scopo, il libro, per la sua esposizione drammatica, per i suoi richiami storici, per i suoi riferimenti al mondo contemporaneo, per la sua ampia documentazione statistica, è di una potente efficacia. La dimostrazione che il regresso delle nascite attenta in un primo tempo alla potenza dei popoli e in successivi tempi li conduce alla morte, è inoppugnabile. Anche le varie fasi di questo processo di malattia e di morte, sono esattamente prospettate e hanno un nome che le riassume tutte: urbanesimo o metropolismo, come dice l'autore.

Aumento patologico

A un dato momento la città cresce morbosamente, patologicamente, non, cioè, per virtù propria, ma per un apporto altrui. Più la città aumenta e si gonfia a metropoli, e più diventa infeconda.

La progressiva sterilità dei cittadini è in relazione diretta con l'aumento rapidamente mostruoso della città. Berlino che in un secolo è passata, da centomila, a oltre quattro milioni di abitanti, è, oggi, la città più sterile del mondo. Essa ha il primato del più basso quoziente di natalità non più compensato dalla diminuzione delle morti. La metropoli cresce, attirando verso di sè la popolazione della campagna, la quale, però, appena inurbata, diventa — al pari della preesistente popolazione — infeconda. Si fa il deserto nei campi; ma quando il deserto estende le sue plaghe abbandonate e bruciate, la metropoli è presa alla gola : nè i suoi commerci, nè le sue industrie, nè i suoi oceani di pietre e di cemento armato, possono ristabilire l'equilibrio oramai irreparabilmente spezzato : è la catastrofe.

La città muore, la nazione — senza più le linfe vitali della giovinezza delle nuove generazioni — non può più resistere — composta com'è oramai di gente vile e invecchiata — a un popolo più giovane che urga alle frontiere abbandonate. Ciò è accaduto. Ciò può ancora accadere. Ciò accadrà e non soltanto fra città o nazioni, ma in un ordine di grandezze infinitamente maggiore : la intiera razza bianca, la razza dell'Occidente, può venire sommersa dalle altre razze di colore che si moltiplicano con un ritmo ignoto alla nostra.

Negri e gialli sono dunque alle porte?

Le razze prolifiche

Sì, sono alle porte e non soltanto per la loro fecondità, ma anche per la coscienza che essi hanno preso della loro razza e del suo avvenire nel mondo. Mentre, ad esempio, i bianchi degli Stati Uniti hanno un miserevole quoziente di natalità — che sarebbe ancora più miserevole se non vi fossero le iniezioni di razze ancora prolifiche come gli irlandesi, gli ebrei, gli italiani — i negri degli Stati Uniti sono ultra fecondi e ammontano già al totale imponente di quattordici milioni, cioè a un sesto della popolazione della repubblica stellata. C'è un grande quartiere di New York, Harlem, popolato esclusivamente di negri. Una grave rivolta di negri scoppiata nel luglio scorso in detto quartiere fu a stento domata, dopo una notte di conflitti sanguinosi, dalla polizia, che si trovò di fronte masse compatte di negri.

Che cosa può significare nella storia futura dell'Occidente, una Cina di quattrocento milioni di uomini, accentrati in uno Stato unitario? E venendo più vicino a noi, che cosa può significare per il resto d'Europa la Russia, il cui quoziente di natalità è altissimo, tanto che — malgrado guerre, epidemia, bolscevismo, carestia, esecuzioni in massa — la popolazione della Russia si aggira oggi sui 140 milioni di abitanti? Le campane d'allarme squillano. Coloro che vedono un po' più in là della quotidiana contingenza (a mio avviso non ha diritto di governare una nazione chi non sia capace di guardare almeno a 50 anni di distanza), sono preoccupati.

Situazioni europee

Nella Nazione più industriale e mercantile di Europa, la Gran Bretagna, si invoca da studiosi e da politici un « ritorno alla terra ». Ma come portare alcuni, soltanto alcuni dei molti milioni di londinesi ammucchiati nella metropoli, di nuovo verso le campagne? Si può fare il cammino a ritroso? Il ministero dell'agricoltura risponde con una nota di pessimismo. Negli ultimi venti mesi la terra arata è diminuita di altri 80 mila ettari, il che significa una diminuzione di oltre 200 mila quintali, nel già esiguo raccolto di grano valutato a un milione e 200 mila quintali.

Dunque Londra cresce, ma si fa il deserto nelle campagne inglesi. È noto che nel 1927 l'Inghilterra ha superato Francia e Germania come minimo di natalità. Anche nelle belle feconde pianure di Francia il deserto guadagna — ironico e tragico bisticcio di parole! — guadagna terreno perchè l'urbanesimo sterile ha — per nutrirsi! — spopolato e devastato i villaggi ed i casolari. Ecco un vero grido di angoscia, lanciato recentemente da Giuseppe Barthelemy, membro dell'Istituto di Francia.
« Noi sappiamo che vi sono oggi in Francia — egli scrive — due volte più stranieri di prima della guerra: un milione nel 1911, due milioni e mezzo nel 1926; ciò rappresenta il sei per cento della popolazione totale. Su cento abitanti della Francia, ve ne sono sei che non sono francesi. È una proporzione impressionante. Dal 1918 al 1926 sono stati introdotti in Francia 853 mila lavoratori dell'industria e 600 mila contadini, ciò che rappresenta un totale di un milione e mezzo di individui. Secondo le nostre vecchie statistiche del 1922, gli stranieri avevano già in mano 333.800 ettari di terra, di cui 90.500 erano loro proprietà, mentre occupavano il resto con mezzadri e contadini. Nel 1926 l'Italia ha fornito il 18 per cento dell'importazione della mano d'opera. Non vi sono dunque abbastanza francesi per coltivare la terra di Francia. E' un fatto. Noi abbiamo troppa terra per le nostre braccia. L'Italia ha troppe braccia per la sua terra. Che cosa vai meglio? È la scelta tra la gioventù, la vitalità, la fecondità da una parte e dall'altra l'età matura, l'età troppo matura, che annunzia la senilità. « L'emigrazione — diceva Mussolini nel 1924 — deve essere considerata non come un fenomeno doloroso di miseria e di debolezza, ma come un problema morale e politico di forza ». »
Identiche preoccupazioni affiorano negli elementi responsabili della politica belga di fronte al declino progressivo delle nascite.

Anche la Svizzera accusa lo stesso morbo, cogli stessi fatali effetti.

Il Vaterland del 21 agosto u. s., giornale conservatore di Lucerna, getta un grido di allarme per la diminuzione della natalità in Svizzera.
« La verità che balza limpida agli occhi di chi non si contenta di vivere alla giornata — dice il giornale — è questa: « La Svizzera è in preda ad un lento moto di disgregazione e di decadimento ». Da una tabella statistica risulta che le nascite che nel 1901 erano 29 per ogni mille abitanti sono discese nel 1926 a 18,2, mentre la Francia in questo stesso anno ne aveva ancora 18,8 e l'Italia 27,2. 
Non c'è che dire: siamo ormai al disotto della Francia — prosegue il Vaterland — ; nè è motivo di alcun sollievo il vedere che qualche altra nazione è scesa più in basso della nostra media perché le cifre prese a sé sono di una terribile gravità. Esse dicono che siamo ormai al limite estremo, oltre il quale è scritta la condanna a morte di una nazione; nè il moto accenna a rallentare ».
Come si vede, l'ansietà è dovunque diffusa.

Tesi false

Basta questo a fare giustizia di tutte le assurde pseudo scientifiche o filosofiche vociferazioni dei neo-maltusiani. Nessuno, oggi, prende più sul serio la famigerata sedicente legge di Malthus. Ci si domanda come si possa ancora seriamente discutere attorno a questa specie di « patacca » scientifica.

È stato dimostrato che prendendo a punto di partenza la popolazione esistente sulla faccia della terra all'epoca di Malthus e applicando la legge di Malthus a ritroso nei secoli, si giungerebbe a questa mirabolante nonché grottesca conclusione: che ai tempi dell'Impero romano la terra non aveva abitanti!

Falsa è la tesi che la qualità possa sostituire la quantità, tesi che io ho ribattuto energicamente non appena fu avanzata quasi a giustificazione della purtroppo progressiva flessione della natalità italiana ; falsa ed imbecille è la tesi che la minore popolazione significhi maggiore benessere : il livello di vita degli odierni 42 milioni di italiani è di gran lunga superiore al livello di vita dei 27 milioni del 1871 o dei 18 del 1816.

Vero è, invece, che i benestanti sono i meno prolifici — fenomeno egoistico morale, dunque! — Vero è, invece, che le famiglie più deserte di bambini sono quelle che non soffrono penuria di ambienti.

Di queste e di altre consimili « falsità » pseudo scientifiche fa efficacemente tabula rasa l'autore del volume. Il quale autore cade, però, come dicevo, in alcune inesattezze per ciò che concerne l'Italia.

Se il dott. Korherr farà un viaggio in Italia si convincerà: a) che non è vero che le campagne di Piemonte, Lombardia, Toscana, Romagna, Sicilia siano in particolare decadenza demografica; b) che non è vero che i negri si spingano sino in Sicilia. È vero invece — nettamente — il contrario. È vero cioè che i Siciliani si sono piantati in masse numerose e compatte nell'Africa romana mentre in Sicilia di gente di colore non ci sono che mezza dozzina di deportati senussiti e di origine semita.

Situazione delicata

Ma qual'è, a prescindere da questi particolari, la situazione dell'Italia della quale Spengler si occupa, elogiando le prime fasi della mia politica demografica, riassunta nella formula netta chiara vitale : massimo di natalità, minimo di mortalità?

Sino al maggio del 1927, sino al mio discorso che per mera coincidenza cronologica fu chiamato dell'Ascensione, gli italiani furono vittime del luogo comune della « loro straripante natalità ». Toccò a me di spezzare, al pari di altri, anche questo luogo comune. La verità è diversa ed è triste; anche in Italia diminuiscono le nascite; anche l'Italia soffre del male comune alle altre Nazioni europee.

Coloro che hanno una specie di abito mentale ottimista osservano tuttavia che il decorso della malattia in Italia sembra benigno. Anche questo è un luogo comune e basterà, per eliminarlo, esaminare le cifre nel loro totale e nella loro composizione.

Cominciamo dai totali. Il massimo coefficiente di natalità si ebbe nel quadriennio 1881-1885 con 38 nati per ogni mille abitanti. Poi cominciò la discesa lenta, ma continua.

Le fasi di questa discesa ognuno può vederle nella apposita Tavola del Bollettino dell'Istituto Centrale di Statistica. Nel 1915, all'atto della guerra, il quoziente di natalità è già al 30,5 per mille.

In trent'anni circa abbiamo perduto otto punti. Nello stesso periodo il quoziente di mortalità scende dal 27 al 20 per mille: non arriva, cioè, nemmeno a compensare la diminuita natalità. Gli anni di guerra ed il 1919 seguito immediatamente, non possono dirci gran che.

Nel 1920 il quoziente di natalità si spinge a 31,8 per mille, con una mortalità del 18,8 per mille: il quoziente di eccedenza dei nati sui morti è del 13,1 per mille. Il più alto che si sia registrato dal 1870 in poi.

Ma dopo questa punta comincia il movimento regressivo, che giunge al quoziente di 26,9 per mille nel 1927. Mentre per perdere otto punti ci sono voluti prima della guerra trent'anni, sono bastati sette del dopo guerra a farne perdere quattro.

Città e campagne

Il moto di diminuzione non è soltanto progressivo ma si accelera ogni anno di più. Nei primi sei mesi del 1928 le nascite sono diminuite in cifra assoluta di oltre 11 mila nei confronti del 1927; con questo fatto aggravante, che si è verificato una specie di crollo in quelle provincie dell'Italia meridionale che sembravano ed erano il vivaio demografico della nazione. Il solito ostinato ottimista potrà osservare che la proporzionale diminuzione della mortalità compensa la diminuita natalità e che in ogni caso un coefficiente del 26,9 per mille è confortante. Tanto è vero che la popolazione italiana è aumentata al netto di 414 mila abitanti nel 1926, di 457 mila nel 1927; di 239 mila nei primi sei mesi del 1928. L'ostinato ottimista è pregato di seguirmi nell'esame più intimo delle cifre, e gli farò vedere quale spaventosa agonia demografica si nasconde sotto il coefficiente globale del 26,9 per mille. Questo coefficiente lo si deve esclusivamente alla prole dei rurali. Tutta l'Italia cittadina o urbana è in deficit. Non solo non c'è più equilibrio, ma i morti superano i nati. Siamo alla fase tragica del fenomeno. Le culle sono vuote ed i cimiteri si allargano. Tutte le città dell'Italia centrale e settentrionale accusano lo stesso deficit. Ma una città particolarmente cara al Fascismo italiano sembra detenere il lamentevole primato: Bologna.

Basterà enumeraro queste cifre che non hanno bisogno di commenti: « dal 1873 al 1927 in un periodo cioè di 55 anni si sono avuti in Bologna 2658 nati vivi in più dei morti, con una media annua di 48 o poco più »! (Resto del Carlino del 31 luglio 1928). Bologna ha quasi raddoppiato nello stesso periodo di tempo la sua popolazione, rarefacendo la popolazione rurale della provincia, che, per fortuna, è ancora feconda. Nulla di più umiliante che leggere i bollettini quotidiani dello Stato civile di Bologna, che accusano quasi invariabilmente il doppio dei morti sui vivi!

Anche nell'altra grande limitrofa città emiliana, Ferrara, si passa da 1312 nati in più nel 1923 a soli 731 nel 1927 : una diminuzione del 50 per cento in quattro anni! Nè migliori sono le condizioni di tutte le altre città padane: da Parma a Mantova, da Cremona a Modena.

A Firenze i vivi compensano a mala pena i morti; quindi aumento naturale della popolazione: zero. In una situazione analoga o poco diversa si trovano gli altri centri urbani della Toscana. A Genova nei primi quattro mesi del 1928 i nati sono stati 3075, ma i morti 3338; quindi la popolazione è diminuita di ben 263 unità!

A Torino la popolazione diminuisce regolarmente da cinque anni a questa parte! E Milano? Nel supplemento alla rivista Città di Milano del giugno 1928 e riferente i dati complessivi del 1927, leggo queste parole sinistre: « La natalità milanese è una delle più basse dei grandi centri urbani, superiore solo a Berlino e a Stoccolma ».

Il fiero e nobile senso di civismo degli ambrosiani si è dunque rassegnato a questo mortificante primato di decadenza e di morte? Vogliono dunque essi che in un avvenire più o meno lontano, piazza del Duomo, come già nel buio medioevo il Campidoglio, diventi luogo di pascolo per gli armenti? No. Questo i milanesi non vogliono. Questo i milanesi non possono volere. Qualche chiarore rompe il grigio della loro situazione demografica. Si delinea una ripresa. I nati-vivi in più che furono la miseria di 295 nel primo semestre del 1926, salirono a 728 nel primo semestre del 1927; sono aumentati ancora a 1148 nel primo semestre del 1928. La tendenza al miglioramento c'è: segnaliamola agli italiani — come sintomo confortante — così come la radio inglese di Rugby ha il 22 agosto u. s. annunciato a tutto il mondo un leggerissimo miglioramento della situazione demografica inglese nei primi mesi del 1928.

Le leggi e lo spirito

Non voglio trarre conclusioni affrettate dalla lieve rivista milanese. La mia politica demografica non può avere dato ancora i suoi frutti. Ma qui si pone il problema: le leggi demografiche che, in ogni tempo, legislatori di ogni paese adottarono, por arrestare il progresso delle nascite — hanno avuto, o possono avere, una efficacia qualsiasi?

Su questo interrogativo si è discusso animatamente e si continuerà a discutere ancora. La mia convinzione è che se anche le leggi si fossero dimostrate inutili, tentare bisogna, così come si tentano tutte le medicine, anche, e sovratutto quando il caso è disperato.

Ma io credo che le leggi demografiche e le negative e le positive possono annullare, o, comunque, ritardare il fenomeno se l'organismo sociale, al quale si applicano, è ancora capace di reazione.

In questo caso più che leggi formali, vale il costume morale e sopratutto la coscienza religiosa dell’individuo.

Se un uomo non sente la gioia e l'orgoglio di essere "continuato" come individuo, come famiglia e come popolo: se un uomo non sente, per contro, la tristezza e l'onta di morire come individuo, come famiglia e come popolo, niente possono le leggi, anche e vorrei dire — sovratutto — se draconiane. Bisogna che le leggi siano un pungolo al costume.

Ecco che il mio discorso va dirittamente ai fascisti e alle famiglie fasciste. Questa è la pietra più pura del paragone, alla quale sarà saggiata la coscienza della generazione fascista. Si tratta di vedere se l'anima dell'Italia fascista è, o non è, irreparabilmente infestata dì edonismo, borghesismo e filisteismo.

Il coefficiente di natalità non è soltanto della progrediente potenza della Patria: non è soltanto come dice Spengler "unica arma del popolo italiano" nonché quella che distinguerà dagli altri popoli europei il popolo fascista, in quanto indicherà la sua vitalità e la sua volontà di tramandare questa vitalità nei secoli. Se noi non rimonteremo la corrente, tutto quanto ha fatto e farà la Rivoluzione Fascista sarà perfettamente inutile, perché ad un certo momento, campi, scuole, caserme, navi, officine, non avranno più uomini. Uno scrittore francese che si è occupato di questi problema, ha detto: « Per parlare di problema nazionale, occorre, in primo luogo, che la nazione esista ».

Ora una nazione esiste non solo come storia e come territorio, ma come masse umane che si riproducono di generazione in generazione. Caso contrario è la servitù o la fine. Fascisti italiani: Hegel, il filosofo dello Stato, ha detto: « Non è uomo chi non è padre ».

In una Italia tutta bonificata, coltivata, irrigata, disciplinata, cioè fascista, c'è posto e pane ancora per dieci milioni di uomini. Sessanta milioni d'italiani faranno sentire il peso della loro massa e della loro forza nella storia del mondo.