Wednesday 7 March 2012

« Credo quia absurdum »

(Pubblicato in « Corrispondenza Repubblicana », 20 novembre 1944)

di Benito Mussolini

In uno degli ultimi discorsi della vigilia elettorale, Roosevelt ha fatto una delle tante sviolinate d'obbligo all'Unione sovietica, iperbolico profluvio di fiori retorici sui successi dell'Esercito rosso, sulle qualità di resistenza morale di quel popolo ai dolori e ai disagi della guerra e sulla tenacia di volontà del compagno Stalin. Ma quella tirata elogiativa voleva essere una scaltra introduzione a qualche altra cosa piuttosto duretta, quasi un aspergere, come direbbe il poeta, « di soave licor gli orli del vaso », che prelude la somministrazione della purga al paziente. Il Presidente, infatti, ha subito aggiunto che tali successi non sarebbero stati possibili se la Confederazione nordamericana — e anche l'Inghilterra, osserviamo noi, per sentimento di giustizia distributiva — non avesse rovesciato nell'U.R.S.S. aeroplani, carri armati, cannoni e munizioni a torrenti.
« La Russia — ha detto Roosevelt — senza gli aiuti degli Stati Uniti sarebbe caduta alla fine del 1942 ».
Poi, con quella discrezione tutta yankee che egli mette in ogni sua frase e in ogni suo gesto, specialmente se rivolge la parola a stranieri, Roosevelt ha calcato la mano sull'importanza decisiva dei rifornimenti di generi alimentari somministrati all'Unione sovietica, senza i quali i bolscevichi non solo non avrebbero potuto continuare a combattere, ma sarebbero letteralmente morti di fame.

Stalin ha accusato il colpo e alla distanza di appena una settimana, parlando innanzi al Sovièt supremo, rimbeccava l'incauto oratore di oltre Oceano. La sua risposta ha lo stesso tono e la medesima impostazione tecnica dell'attacco. Una girandola preliminare di complimenti: mirabile l'impresa di sbarco degli alleati in Francia, magnifica la campagna che ne è seguita, apprezzabili l'alleggerimento e le operazioni angloamericane in occidente.
« Ma — ha voluto sottolineare Stalin — sépza le potenti operazioni offensive dell'Esercito rosso in estate, le forze dei nostri alleati non sarebbero state in grado di sopraffare la resistenza germanica così rapidamente come hanno fatto e di liberare la Francia e il Belgio ».
I punti di vista dei due oratori sono in stridente contrasto e non spetta a noi il compito e la fatica di cercare dì conciliarli. Possiamo però rilevare che il disaccordo deriva dal fatto che Roosevelt e Stalin hanno detto una volta tanto la verità. È infatti esatto che senza gli aiuti americani ed inglesi di materiale bellico e di viveri l'U.R.S.S. sarebbe stata costretta alla capitolazione due anni fa, come è esatto che il prolungamento della guerra è pertanto dovuto alla brutale intromissione di Roosevelt nelle faccende europee. È altresl non meno esatto che la Russia, nonostante la sua venticinquennale preparazione alla guerra e il tanto strombazzato sviluppo della sua organizzazione industriale, non sarebbe stata in grado di provvedere con mezzi propri a produrre il materiale occorrente ad alimentare la lotta. Per contro non è men vero che se l'U.R.S.S. non avesse tenuta imfegnata tanta parte delle forze germaniche e non. si fosse accollata ne quadro dell'alleanza cui essa appartiene il peso massimo della guerra per tre anni, gli angloamericani sarebbero rimasti al di là della Manica a guardare le coste francesi col binocolo. Ragionando a lume di naso parrebbe che la solidarietà politica e la reciproca prestazione degli aiuti dovesse creare fra i tre maggiori esponenti delle Nazioni Unite — unite ma non troppo! — un'atmosfera di reciproca fiducia e di mutua simpatia. Invece non serve che a stimolare una mal dissimulata impazienza da mortificare la controparte, una fretta davvero strana di presentare ai soci la parcella dei propri onorari.

Del resto, in un'alleanza dove non esistono affinità ideali, ma solo coincidenze accidentali di interessi e dove tutto è calcolo e tornaconto, è vano cercare qualcosa di diverso da ciò che affiora nelle acide illusioni di Roosevelt e Stalin.

In due affermazioni i discorsi dei due dittatori coincidono: nell'esaltazione che ciascuno fa dalla parte sostenuta dal proprio Paese nel conflitto e per rivendicare il merito esclusivo di un successo che per il momento rimane veramente episodico e non ha niente a che fare con lo scioglimento finale della guerra; il quale scioglimento riposa ancora sulle ginocchia di Giove, se non vogliamo dire che ancora la scienza e la tecnica abbiano da riservarsi una parola importante nella faccenda, e la loro parola, particolarmente ingrata all'ammiraglio Neame, riservino anche i cuori disperatissimi dei Kamikaze nipponici.

Dunque Roosevelt ha dichiarato che la tecnica americana ha sbigottito il nemico e stupito il mondo; Stalin che il valore del soldato sovietico s'è imposto al nemico e ha egualmente stupito il mondo. Ora sarà bene rimettere le cose a posto. Nessuno vuole negare il valore del soldato sovietico, né sottovalutare la potenza dell'organizzazione industriale americana. Ma lo stupore del mondo non c'entra, e meno che mai lo sbigottimento del nemico. Questo nemico, sia in Prussia orientale che nella pianura ungherese, sul fronte italiano e sul fronte occidentale, è vivo e in piedi, e combatte con raddoppiata energia contro un avversario di gran lunga superiore in uomini e mezzi, per guadagnare quel margine di tempo che gli occorre a ristabilire l'equilibrio delle forze, anzi ad assicurarsi, per virtù di coraggio e di disciplina e risorse geniali, quella prevalenza morale e tecnica che gli consentirà d'imporre la propria volontà al nemico. Lo stupore del mondo, qualunque sia la parte dalla quale pendono gli interessi ideologici, politici ed economici degli attori e dei neutrali di questa guerra, va alla Germania e alle schiere assottigliate dell'Asse, che lottano da sole contro la più potente coalizione militare che la storia abbia mai veduto: un miliardo e mezzo di uomini contro centocinquanta milioni all'incirca, i due terzi del globo con le ricchezze e le risorse di tutte le latitudini contro l'esiguo spazio dell'Asse e del Tripartito. Eppure la santa Alleanza dei popoli poveri non si sbigottisce, non conta i nemici, né si lascia atterrire dalla loro potenza; essa non ha della guerra un concetto computistico: per essa è solo Io spirito che conta. Le macchine e la strabocchevolezza del materiale umano stanno dall'altra parte, dalla nostra le forze imponderabili dello spirito e della coscienza, il genio e il coraggio.

Vi è chi pensa a questa guerra come ad un problema contabile, di denaro, di effettivi, di materiale be.llico e di rifornimenti, e ragiona cosl: qui c'è l'Asse e il Tripartito e questo è l'inventario delle loro possibilità: e là stanno i padroni del mondo con i forzieri ricolmi d'oro, il gigantismo industriale e la sterminata orda combattente dei loro schiavi e liberti. Tira le somme, confronta i totali e sentenzia: vincono gli alleati per venti a uno. Ma la previsione è alquanto più difficile di un oroscopo per una partita di calcio o una corsa di cavalli.

Tuttavia si deve a codesta aritmetica bambinesca il tradimento dei Savoia, quello tentato dai generali tedeschi, tutti i tradimenti e tutte le defezioni di quanti hanno disertato negli ultimi mesi il campo della lotta. Nessuno di quei piccoli uomini che hanno rovinato o tentato di rovinare il proprio Paese, ha saputo guardare una spanna più in là del proprio naso. Hanno scambiato i propri rancori, i propri interessi, le proprie delusioni e la propria inguaribile nostalgia politica e classista con la realtà, la quale non poteva essere da loro percepita come dato effettuale, perché la realtà non si rivela se la luce dello spirito non la investe e non le strappi dal seno il suggellato grido di verità.

La Repubblica Sociale Italiana, prima creatura politica sorta in purezza dalla putredine del tradimento monarchico a riaffermare la fedeltà all'Italia, all'idea, all'Alleanza, è stata d'esempio e di incitamento al sorgere di movimenti ispirati all'onore nazionale e alla tutela dei veri interessi del popolo in quasi tutti i Paesi pugnalati alle spalle dai loro reggi tori. Sant'Agostino afferma: « Credo qui absurdum est », perché non avrebbe senso credere in ciò che non sia assurdo: dove arriva la ragione per la strada provinciale della logica e della dialettica, non occorre arrampicarsi per i sentieri impervi della fede. Per Sant'Agostino il sublime assurdo da espugnare era Dio; l'assurdo nel quale fermissimamente credono la Repubblica Sociale Italiana è l'Asse, è la vittoria. Ma Dio e la vittoria sono due splendenti conquiste dello spirito.