Sunday 4 March 2012

Discorso al Senato, 18 marzo 1932


di Benito Mussolini

Onorevoli Senatori!

La discussione che sull'attuale disegno di legge si è svolta in questa Assemblea è stata ampia ed alta, tuttavia serrata e degna di questa Assemblea, che prende il suo nome da una di quelle che furono le istituzioni fondamentali di Roma antica. Siccome mi reputo senza falsa modestia il padre spirituale del piano regolatore di Roma, mi sento in dovere di interloquire sull'argomento.

Se qualcuno mi domandasse: il piano regolatore è perfetto? risponderei immediatamente di no. Prima di tutto, perché la perfezione non è attingibile dagli umani mortali, poiché se alla perfezione gli uomini potessero giungere cambierebbero la loro natura. Poi è stato fatto da una Commissione, e Napoleone avvertiva che un generale mediocre può vincere una battaglia ma che 5 generali sublimi corrono il rischio di perderla. (Si ride).

Terza ragione e forse non ultima: la gravità e la delicatezza estrema del problema.

Il sen. Corrado Ricci vi ha tracciato la storia del travaglio attraverso il quale nel piano regolatore bisognava conciliare due opposte esigenze: il rispetto della Roma antica e la necessità della Roma moderna. Tutto sommato, dichiaro che ci troviamo dinanzi al miglior piano regolatore pensabile ed attuabile.

Non ho bisogno di dire a voi che cosa significhi Roma nella storia del mondo e nella storia d'Italia. Basta pensare che senza le pagine della storia di Roma, tutta la storia universale sarebbe terribilmente mutilata e gran parte del mondo contemporaneo sarebbe incomprensibile.

Ma, quando veniamo a tempi più recenti e sentiamo echeggiare nel nostro orecchio il grido fatale di Garibaldi: « O Roma o morte », ciò significa che per gli italiani di quell'epoca, ed anche della nostra, quell'antitesi stessa viene a significare che Roma è fonte di vita, senza della quale non varrebbe la pena di vivere. Ma udite un uomo che meriterebbe forse di essere portato in più alto piano della storia del Risorgimento italiano, parlo di Bettino Ricasoli, il barone di ferro, udite quello che egli scriveva al conte Luigi Torelli, il quale fu il primo che il 18 marzo 1848 issò la bandiera tricolore sul Duomo di Milano, partecipò a tutte le attività politiche e militari del Risorgimento e fini giustamente prefetto del Regno. (Si ride).

A pagina 369 del libro di Antonio Monti pubblicato dal R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere si legge questa lettera del giugno 1860: «L'Italia bisogna che sia a Roma e Roma bisogna che sia dell'Italia. La Venezia dovrà esserlo e lo sarà a suo tempo; ma, per fare l'Italia spiritualmente, occorre Roma e Roma l'avremo in qualunque modo: l'Italia senza Roma è un corpo morto».

Il piano regolatore doveva, quindi, rispettare in sommo grado tutto ciò che rappresenta la testimonianza vivente della gloria di Roma antica. Ma un conto, o signori, sono i monumenti, un conto sono i ruderi, un conto è il pittoresco o il cosiddetto colore locale.

Nel 1864 il signor Ippolito Taine, che fu certamente una delle più forti intelligenze che abbia avuto la Francia nel secolo scorso, venne a Roma e la definì «una pacifica e poetica necropoli». Così parlava dei vecchi palazzi: « immensi chiostri, alte muraglie come di prigioni, facciate monumentali. Nella corte nessuna anima viva, è un deserto. Talvolta una dozzina di fannulloni seduti sul selciato fanno mostra di cogliere l'erba. Si direbbe che il palazzo sia abbandonato ». E di quella aristocrazia romana, che oggi energicamente lavora nelle bonifiche e sta trasformando l'Agro, diceva che «rassomigliava ad una specie di lucertola rannicchiata nella corazza di un coccodrillo, il coccodrillo era bello, ma morto». (Si ride).

Vediamo il colore locale di taluni quartieri di Roma così come si presentava appena mezzo secolo fa. « Palazzo Farnese è in un laido quartiere. Per andare al Palazzo Cenci, così rovinato e fosco, vi sono vie tortuose attraversate da rigagnoli fetidi o in mezzo a case dalla facciata che pare tutta slogata, tanto che sembra l'ernia di un idropico, in mezzo a corti nere trasudanti il sudiciume si attorcigliano con i loro budelli intorno ad un muro coperto dalla sporcizia di un secolo ». Vediamo, ora, se in altri quartieri vi erano condizioni migliori: « Nel ritornare da San Pietro, ho trovato un quartiere indescrivibile, orrido, con viuzze infette, corridoi viscidi ». Tuttavia ammetteva in altra parte del suo libro che il popolo romano aveva in se stesso energia barbara e cercava uno sfogo. E bisogna che vi legga una pagina ammonitrice anche a distanza di tempo:
« Per diventare un popolo indipendente ed uno Stato militare, bisogna che l'Italia paghi di più, che lavori e produca di più. In questo momento (1864) i migliori cittadini sono un borghese che fondi una manifattura, un proprietario che dissodi la terra ed un operaio che prolunghi la propria giornata di un'ora. Non si tratta di schiamazzare e di leggere i giornali, ma di vangare, di calcolare, di studiare, di inventare, occupazioni tutte noiose positive costruttive che si lascerebbero volontieri agli occhi del nord. È duro passare dalla vita epicurea e speculativa a quella industriale e militante, sembra di diventare direttamente da patrizio un servo ed una macchina, ma bisogna optare quando si vuole formare una grande Nazione. Bisogna, per resistere in faccia agli altri, accettare la necessità che si impone agli altri, cioè il lavoro regolare, assiduo, continuo, il dominio di se stessi, la disciplina volta con metodo verso i fini fissi, l'arruolamento dell'individuo serrato nei quadri e stimolato dalla concorrenza, la concentrazione di ogni facoltà, l'indurimento dello sforzo ».
È questo che noi andiamo facendo da dieci anni. Tutto il pittoresco sudicio è affidato a S. M. il piccone, Tutto questo pittoresco è destinato a crollare e deve crollare in nome della decenza, della igiene e, se volete, anche della bellezza della Capitale.

Ma la Roma moderna merita di essere conosciuta dagli italiani, i quali, essendo rimasti ai tempi di Chateaubriand e di Taine, si sono fissi in testa che Roma sia la città degli impiegati.

Non è vero. Io l'ho dimostrato in un articolo dell'agosto scorso, nel quale sulla base delle statistiche rimessemi dalla Ragioneria Generale dello Stato, si precisava che il personale civile residente a Roma, di ruolo, compresi, si noti bene, i magistrati ed i professori, è di sole 13.014 unità in ruolo e di 2282 unità fuori ruolo. E si capisce, perché la burocrazia civile si compone di circa 60.000 unità in tutto il Regno.

Non è vero, dunque, che Roma sia una città di impiegati che vive soltanto sugli stipendi dello Stato.

Ma quel che sembrò allora una rivelazione, e forse vale la pena di consegnarla anche al verbale di questa seduta, è che Roma, dopo Milano e Torino, è la città che ha il maggiore complesso di piccole e medie industrie del Regno. Al 30 giugno del 1931 le ditte industriali della città di Roma erano 3517 con 80.000 dipendenti ed esattamente 78.628 operai e 6420 impiegati. Roma, dunque, lavora. Roma dà alla bilancia dei pagamenti, cioè al dare e all'avere internazionale una fortissima partecipazione in attivo. Ma Roma cresce. Non cresce solo per l'immigrazione, perché, se fosse per questo, non ne sarei affatto entusiasta. Le mostruose città che si sviluppano geometricamente finiscono per fare il deserto intorno a loro, e sul deserto non si vive. Vedi Berlino che, nell'anno scorso, ha perduto 43.000 abitanti, i quali hanno trovato più conveniente e più economico ritornare ai loro borghi e ai loro villaggi.

Roma ha una forte natalità: il popolo romano è fecondo. Difatti, limitandomi agli ultimi dati, il supero dei nati sui morti è di 11.404 nel 1930 e di 10.191 nel 1931.

Alla fine di gennaio dell'anno in corso Roma contava 1.023.517 abitanti. Si può prevedere che questo sviluppo continuerà. Allora bisogna conciliare le esigenze dell'antico con le esigenze del moderno. Fare delle grandi strade, anche larghe, senatore Corrado Ricci.

Oggi a Roma ci sono circa 30.000 veicoli. Bisogna pensare che fra 5 anni ve ne saranno almeno 50.000 o 60.000. Il problema dei rumori sarà risolto il giorno in cui il numero dei veicoli sarà aumentato, il che sembra contraddizione, ma non lo è, perché quando i veicoli sono moltissimi, tutti devono incanalarsi l'uno dietro l'altro e allora non c'è più motivo di vessare il pubblico con degli strombettamenti inutili.

Del resto, tutto quello che di grande, di bello, di venerabile è rimasto, noi lo conserviamo, non solo; ma lo aumentiamo. Le strade dei colli e del mare risolvono un problema di ripristino dell'antichità e di viabilità in grandissimo stile.

Di una cosa sono orgoglioso: di avere ricondotto i romani al mare. Lo avevano dimenticato. È distante appena 20 minuti di tram e di automobile. Spero che col tempo rispunteranno anche delle virtù marinare. Debbo dire che Roma, nell'antichità, non ebbe delle qualità marinare eccezionali, però riuscì a battere Cartagine anche sul mare.

Spostando la popolazione verso i colli o verso il mare, noi effettuiamo il disistipamento di Roma, demoliamo tutte le casupole infette, facciamo i diradamenti necessari a tutti i fini, diamo del sole, della luce, dell'aria al popolo. (Approvazioni).

Si commetteranno degli errori? Certamente. Per esempio, io credo che quell'enorme ospedale che è sorto nell'Isola Tiberina sia un errore. Come si può pensare di fare un ospedale in un'isola ed in quell'isola?

E, giacché altra volta qui si è parlato del palazzo di Magnanapoli, bisogna che dica la mia opinione. Io non discuto l'architettura di quel palazzo, ma mi permetto di opinare che esso sia un errore almeno topografico. È un infortunio capitato alla Cassa Infortuni (ilarità, applausi prolungati), alla quale però ho inibito da tempo di andare ad occupare così sontuosi locali. (Vivi applausi).

Signori Senatori, l'11 ottobre del 1860, il conte di Cavour pronunciava un famoso e memorabile discorso. Ad un certo punto egli disse: «Durante gli ultimi 12 anni, la stella polare di Vittorio Emanuele fu l'ispirazione dell'indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente è di fare che la Città Eterna, nella quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida Capitale del Regno italico».

Signori, noi stiamo traducendo nei fatti questo auspicio solenne.

(Vivissimi prolungati applausi accolgono la conclusione del discorso del Duce).