Per il decennale della marcia su Roma
di Benito Mussolini
Camerati!
Esattamente dieci anni fa, il 16 ottobre 1922, in una riunione da me convocata e tenutasi a Milano in via San Marco, 46, fu decisa l'insurrezione.
Tutti coloro che parteciparono a quella storica riunione sono presenti. Uno solo è assente: Michele Bianchi, che ricordiamo sempre con profondo rimpianto. (Applausi. Si grida: « Presente! »).
La discussione fu animata e tutti i punti di vista furono esposti. Ma alla fine si raggiunse l'unanimità assoluta per le misure da prendersi immediatamente, le quali consistevano nel passaggio dei poteri dalla Direzione al Quadrumvirato, nella formazione delle colonne che dovevano marciare su Roma, in altri dettagli riguardanti la mobilitazione delle Camicie Nere e nei poteri da dare al Quadrumvirato.
Se noi rileggiamo taluni discorsi politici del tempo, possiamo oggi essere sorpresi davanti all'apparente discrezione dei nostri obbiettivi. Ma un esercito, quando si mette in marcia, deve partire nelle migliori condizioni possibili, suscitare il minore numero possibile di inquietudini e di disagi.
Recenti esperienze politiche in taluni Paesi di Europa ci dicono che allora, come sempre, la nostra forza fu accompagnata dalla saggezza. L'insurrezione sta alla Rivoluzione come la tattica sta alla strategia. L'insurrezione non è che un momento della Rivoluzione. La Rivoluzione totalitaria doveva cominciare dopo. E cominciò infatti nel gennaio 1923, quando furono creati la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e il Gran Consiglio.
È tempo di dire una cosa che forse sorprenderà voi stessi, e che cioè, fra tutte le insurrezioni dei tempi moderni, quella più sanguinosa è stata la nostra.
Poche diecine di morti richiedette l'espugnazione della Bastiglia, nella quale di prigionieri politici non c'era più nessuno. Le migliaia, le diecine di migliaia di morti vennero dopo, ma furono volute dal terrore.
Quanto poi alle Rivoluzioni contemporanee, quella russa non ha costato che poche diecine di vittime. La nostra, durante tre anni, ha richiesto vasto sacrificio di giovane sangue, e questo spiega e giustifica il nostro proposito di assoluta intransigenza politica e morale. Siamo alla fine del primo Decennio. Voi non vi aspetterete da me il consuntivo. Io amo piuttosto di pensare a quello che faremo nel Decennio prossimo. (Applausi). Del resto basta guardarsi attorno, per convincersi che il nostro consuntivo è semplicemente immenso. Ma avviandoci al secondo Decennio occorrono delle direttive di marcia. Comincerò da quella che personalmente mi riguarda. Io sono il vostro Capo (applausi vivissimi; grida di: « Viva il Duce! »), e sono, come sempre, pronto ad assumermi tutte le responsabilità! (Applausi). Bisogna essere inflessibili con noi stessi, fedeli al nostro credo, alla nostra dottrina, al nostro giuramento e non fare concessioni di sorta, né alle nostalgie del passato, né alle catastrofiche anticipazioni dell'avvenire.
Tutti coloro che credono di risolvere la crisi con rimedi miracolistici sono fuori di strada. O questa è una crisi ciclica « nel » sistema e sarà risolta; o è una crisi « del » sistema, ed allora siamo davanti a un trapasso da un'epoca di civiltà ad un'altra. Là dove si è voluto esasperare ancora di più il capitalismo facendone un capitalismo di Stato, la miseria è semplicemente spaventosa. (Applausi).
Si è posto anche il problema dei giovani. Il problema dei giovani si pone da„sé. Lo pone la vita, la quale ha le sue stagioni, come la natura. Ora, nel secondo Decennio bisogna fare largo ai', giovani. Nessuno è più vecchio di colui che ha la gelosia della giovinezza. Noi vogliamo che i giovani raccolgano la nostra fiaccola, si infiammino della nostra fede e siano pronti e decisi a continuare la nostra fatica. Occorre fascistizzare ancora più quelli che io chiamo gli angoli morti della vita nazionale, non farsi troppo assorbire dalla ordinaria amministrazione fino al punto di rinunziare a quella che è la gioia e l'ebbrezza del rischio, essere pronti a tutto quello che può costituire il cómpito più severo di domani.
Voi vi riunite oggi in Roma, in questa Roma che noi volemmo, per rialzarla nell'amore e nell'orgoglio degli italiani e nell'ammirazione del mondo. Vi riunite in questa Piazza che è il cuore di Roma e quindi il cuore d'Italia (vivissimi applausi), non solo perché c'è Palazzo Venezia, costruito da una di quelle città che noi possiamo chiamare imperiali, come Genova, Pisa, Amalfi, Ravenna ed anche Firenze, che diffuse l'imperialismo immortale del suo genio; non già perché in quel Palazzo che voi vedete è morta la madre di Napoleone appena 96 anni or sono - di quel Buonaparie tagliato nella razza possente dei Dante e dei Michelangelo, che non imparò mai a pronunciare correttamente il francese, quel Buonaparte al quale noi siamo grati per aver acceso la prima fiaccola dell'unità della Patria, e per aver chiamato alle armi gli italiani, che egli stesso definì tra i migliori soldati d'Europa - ma perché qui c'è l'ara del Milite Ignoto. e l'ara dei Caduti Fascisti.
Il Milite Ignoto è il simbolo dell'Italia una, vittoriosa, fascista, una dalle Alpi di Aosta romana fino al mare di Trapani, che vide la disfatta delle navi cartaginesi. Egli è la testimonianza suprema di ciò che fu, la certezza infallibile di ciò che sarà!