Sunday, 4 March 2012

Discorso al Teatro Adriano di Roma, 23 febbraio 1941


di Benito Mussolini

Camicie nere dell'Urbe!

Sono venuto fra voi per guardarvi fermamente negli occhi, sentire la vostra temperatura, rompere il silenzio che pure mi è caro, specie in tempo di guerra.

Vi siete mai domandati, nell'ora di meditazione che ognuno di noi deve trovare nella sua giornata, da quanto tempo noi siamo in guerra? Non da soli otto mesi, come potrebbero credere i superficiali annotatori della cronaca; non dal settembre del 1939, quando, attraverso i1 gioco delle garanzie alla Polonia, la Gran Bretagna scatenò la conflagrazione, con criminale, premeditata volontà. Noi siamo in guerra da sei anni; e precisamente da quel febbraio del 1935, quando uscì il primo comunicato annunciante la mobilitazione della Peloritana. Era appena finita la guerra di Etiopia, quando giunse dall'altra riva del Mediterraneo l'appello di Franco, che aveva iniziato la sua rivoluzione nazionale. Potevamo noi, fascisti, lasciare senza risposta questo grido e restare indifferenti dinnanzi al perpetuarsi delle sanguinose ignominie dei fronti cosiddetti popolari? Potevamo, senza rinnegare noi stessi, non accorrere a dare il nostro aiuto a un movimento di riscossa che aveva trovato in Antonio de Rivera il creatore, l'asceta e il martire? No. E così la prima squadriglia dei nostri velivoli partì il 27 luglio del 1936, e, nella stessa giornata, avemmo i primi caduti.

In realtà noi siamo in guerra dal 1922, cioè dal giorno in cui alzammo contro il mondo massonico-democratico-capitalistico la bandiera della nostra rivoluzione, che allora era difesa da un pugno di uomini. Da quel giorno il mondo del liberalismo, della democrazia, della plutocrazia ci dichiarò e ci fece la guerra con campagne di stampa, diffusione di calunnie, sabotaggi finanziari, attentati e congiure, anche quando eravamo intenti a quel lavoro di ricostruzione interna che rimarrà nei secoli quale indistruttibile documentazione della nostra volontà creatrice.

Lo scoppio delle ostilità nel settembre del 1939 ci trovò all'indomani di due guerre che avevano imposto sacrifizi di vite umane relativamente modesti, ma ci avevano costretto ad uno sforzo logistico e finanziario semplicemente enorme.

In altra sede, per non tediarvi con troppe cifre, tutto ciò sarà documentato per quanto riguarda il nostro intervento nella rivoluzione falangista. Ecco perché avremmo preferito, e fu pubblicamente dichiarato nel dicembre del 1939, che, se a una resa dei conti si doveva venire tra i due mondi irriducibilmente antagonisti, questa fosse ritardata di quanto era necessario per reintegrare tutto ciò che era stato da noi consumato o ceduto.

Ma agli sviluppi, talora accelerati, della storia, non si può dire, come al faustiano attimo fuggente: «Fermati! ». La storia vi prende alla gola e vi costringe alla decisione. Non è la prima volta che ciò è accaduto nella storia d'Italia! Se fossimo stati pronti al cento per cento, saremmo scesi in campo nel settembre del 1939, non nel giugno del 1940.

Durante questo breve lasso di tempo, abbiamo affrontato e superato difficoltà eccezionali. Le fulminee, schiaccianti vittorie della Germania ad occidente eliminavano l'eventualità di una lunga guerra continentale. Da allora la guerra terrestre nel continente è finita, non può riaccendersi, ed è finita con la vittoria della Germania, facilitata dalla non belligeranza dell'Italia, che immobilizzò ingenti forze navali, aeree, terrestri del blocco franco-inglese.

Taluni che oggi affettano di pensare essere stato l'intervento dell'Italia prematuro, sono probabilmente gli stessi che allora lo ritenevano tardivo. In realtà, il momento fu tempestivo, poiché se è vero che un nemico era in via di liquidazione, restava l'altro, il maggiore, il più potente, il numero uno, contro il quale abbiamo impegnato e condurremo la lotta « sino all'ultimo sangue ».

Liquidati definitivamente gli eserciti della Gran Bretagna sul continente europeo, la guerra non poteva assumere che un carattere navale, aereo e, per noi, anche coloniale. E nell'ordine geografico e storico delle cose che all'Italia siano riservati i teatri di guerra più lontani e difficili: guerra d’oltremare e guerra nel deserto.

I nostri fronti si allungano per migliaia di chilometri e sono distanti migliaia di chilometri. Taluni acidi e ignoranti commentatori stranieri dovrebbero tenerne conto. Comunque, durante i primi quattro mesi di guerra, fummo in grado di infliggere gravi colpi navali, aerei, terrestri alle forze dell'impero britannico.

Sino dal 1935, l'attenzione dei nostri Stati Maggiori fu portata sulla Libia. Tutta l'opera dei governatori che si avvicendarono in Libia fu diretta a potenziare economicamente, demograficamente, militarmente quella vasta regione, trasformando zone predesertiche o desertiche in terre feconde. Miracoli: questa è la parola che può riassumere quanto fu fatto laggiù.

Con l'aggravarsi della tensione europea e dopo gli eventi del 1935-1936, la Libia, riconquistata dal fascismo, venne considerata uno dei punti più delicati del nostro generale dispositivo strategico, in quanto poteva essere attaccata su due franti.

Lo sforzo compiuto per potenziare militarmente la Libia risulta da queste cifre: solo nel periodo che va dal 10 ottobre 1937 al 31 gennaio 1941 sono stati mandati in Libia quattordicimila ufficiali e 396.358 soldati e costituite due Armate, la quinta e la decima. Questa contava dieci divisioni fra nazionali e libiche. Nello stesso periodo di tempo sono stati mandati millenovecentoventiquattro cannoni di tutti i calibri e molti di essi di costruzione e modello recenti, 15.386 mitragliatrici, undici milioni di colpi di artiglieria, 100.344.287.265 colpi per le armi portatili; 127.877 tonnellate di materiali del genio; ventiquattromila tonnellate di vestiario ed equipaggiamento; settecentosettantanove carri armati con una certa aliquota di pesanti; 9.584 automezzi vari; 4.809 motomezzi.

Queste cifre dimostrano che alla « preparazione » della difesa della Libia era stato dedicato uno sforzo che si può chiamare imponente. Altrettanto può dirsi per quanto riguarda l'Africa Orientale, che abbiamo preparato a resistere, malgrado le distanze e l'isolamento totale, che esalta la volontà ed il coraggio dei nostri soldati. 1 soldati che si battono nell'impero, senza speranza di aiuti, sono i più lontani, ma perciò i più vicini ai nostri cuori. Comandati da un soldato di razza quale il viceré e da un gruppo di generali di alto valore, i nostri soldati, nazionali ed indigeni, daranno molto filo da torcere alle masse nemiche.

Fu fra l'ottobre ed il novembre che la Gran Bretagna radunò e schierò contro di noi il complesso delle sue forze imperiali reclutate in tre continenti e armate dal quarto, concentrò in Egitto quindici divisioni ed una massa considerevole di mezzi corazzati e li contro il nostro schieramento in Marmarica, che aveva in prima linea le divisioni libiche, valorose e fedeli, ma non molto idonee a sostenere l'urto delle macchine nemiche. Ebbe così inizio, il 9 dicembre, la battaglia in anticipo su quella da noi preparata di cinque o dieci giorni e che, dopo due mesi circa, ha condotto il nemico a Bengasi.

Ora noi non siamo come gli inglesi. Ci vantiamo di non esserlo. Non abbiamo fatto della menzogna un'arte di governo e nemmeno un narcotica per il popolo, come i governanti di Londra. Noi diciamo pane al pane, vino al vino, e quando il nemico vince una battaglia, è inutile e ridicolo cercare, come fanno appunto nella loro incommensurabile ipocrisia gli inglesi, di negarla o minimizzarla.

Un'intera Armata, la decima, è stata travolta quasi al completo con uomini e relativi cannoni. La quinta Squadra aerea si è quasi letteralmente sacrificata. Dove possibile, si é resistito con accanimento e tal volta con furore.

Poiché noi facciamo questo riconoscimento, è inutile che il nemico gonfi le cifre del suo bottino.

Gli è perché ci sentiamo sicuri circa il grado di maturità nazionale raggiunto dal popolo italiano e circa lo sviluppo futuro degli eventi che noi continuiamo a praticare il culto della verità e a ripudiare ogni falsificazione. Gli eventi vissuti in questi mesi esasperano la nostra volontà e devono accentuare contro il nemico quell'odio freddo, cosciente, implacabile, odio radicato in ogni cuore, diffuso in ogni casa, che è un elemento indispensabile per la vittoria. L'ultimo appoggio della Gran Bretagna sul continente era ed è la Grecia, l'unica nazione che non ha voluto rinunciare alla «garanzia» britannica. Era necessario affrontarla e su questo punto l'accordo di tutti i fattori militari responsabili assoluto. Aggiungo che anche il piano operativo, preparato dal Comando superiore delle Forze Armate di Albania, fu unanimemente approvato, senza riserve di sorta, e non fu chiesto, nell'intervallo tra la decisione e l'inizio dell'azione, che un ritardo di due giorni.

Sia detto una volta per tutte che i soldati italiani in Albania hanno superbamente combattuto; sia detto, in particolare, che gli alpini hanno scritto pagine di sangue e di gloria che onorerebbero qualsiasi esercito. Quando si potrà raccontare, nelle sue vicende, la marcia della Julia sino quasi a Metzkovo, tutto apparirà leggendario.

I « neutrali » di ogni continente, che fanno da spettatori al sanguinoso urto delle masse armate, devono avere il pudore di tacere e di non avventare giudizi temerari e diffamatori.

I prigionieri italiani caduti nelle mani dei greci sono poche migliaia ed in gran parte feriti; i successi ellenici non esorbitano dal campo tattico e solo la megalomane rettorica levantina li ha iperbolizzati; le perdite greche sono altissime, mentre fra poco verrà primavera e, come vuole la stagione, la nostra stagione, verrà i1 bello. Vi dico che verrà il bello e verrà in ognuno dei quattro punti cardinali!

Non meno forti sono le perdite che abbiamo inflitto agli inglesi. Dire, come essi fanno, che le loro perdite nella battaglia dei sessanta giorni di Cirenaica non superano i duemila tra morti e feriti, è voler aggiungere una nota di grottesco al dramma, è voler superare se stessi in materia di sfrontata menzogna, il che parrebbe difficile per gli inglesi. Essi devono aggiungere per lo meno uno zero alla cifra dei loro comunicati.

Dall'11 novembre, da quando gli aerosiluranti inglesi, partiti non da basi greche, ma da una nave portaerei, fecero il colpo che noi, del resto, abbiamo accusato a Taranto, le vicende della guerra ci seno state avverse. Bisogna riconoscerlo. Abbiamo avuto delle giornate grigie. E’ la vicenda di tutte le guerre. In tutti i tempi. Pensate alle puniche. Canne sembra schiantare Roma. Ma, a Zama, Roma distrugge Cartagine, e la cancella dalla geografia e dalla storia, per sempre.

La nostra capacità di recupero, nel campo morale e materiale, è semplicemente formidabile e costituisce una delle peculiari caratteristiche della nostra razza.

Specie in questa guerra, che ha per teatro il mondo e mette direttamente o indirettamente alle prese i continenti, sugli oceani, sulla terra, nei cieli, è la battaglia finale che conta. Che si dovrà combattere duramente è certo, che si dovrà combattere a lungo è anche molto probabile, ma il risultato finale è la vittoria dell'Asse.

La Gran Bretagna non può vincere la guerra. Ve lo dimostrerò con un rigore strettamente logico. Qui l'atto di fede è suffragato dal fatto. Questa dimostrazione parte da una premessa dogmatica, e cioè che l’Italia, qualunque cosa accada, marcerà con la Germania, a fianco a fianco, sino alla fine.

Coloro che fossero tentati di supporre qualche cosa di diverso, dimenticano che l'alleanza fra la Germania e l'Italia non è soltanto fra due eserciti o due diplomazie, ma fra due popoli e due rivoluzioni, destinate a dare l'impronta al secolo.

La cooperazione, offerta dal Fuhrer, che reparti aerei e corazzati germanici attuano nel Mediterranea, non è che la riprova che tutti i fronti sono comuni e che lo sforzo è comune. I germanici sanno che l'Italia regge oggi sulle sue spalle il peso di un milione di saldati fra britannici e greci; di millecinquecento-duemila velivoli; di altrettanti carri armati; di migliaia di cannoni; di almeno cinquecentomila tonnellate di naviglio militare.

La cooperazione fra le due Forze Armate si svolge sopra un piano di cameratesca, leale, spontanea solidarietà. Sia detto per gli stranieri, pronti sempre alla malvagia diffamazione, che il contegno dei soldati germanici in Sicilia ed in Libia è, sotto ogni riguardo, perfetto, degno di un forte esercito e di un forte popolo, educato a una severa disciplina.

Seguitemi ora, vi prego:

1. - Il potenziale bellico della Germania non solo non è diminuito dopo diciassette mesi di guerra, ma è aumentato in proporzioni gigantesche. Dal punto di vista delle perdite umane, esse sono state contenute in cifre minime, tenuto conto delle masse entrate in azione. Le perdite di mezzi, più che compensate dall'immenso bottino, sono state assolutamente insignificanti. L'unità del comando politico-militare nelle salde mani del Fuhrer, di colui che fu un tempo il soldato semplice volontario Adolfo Hitler, imprime alle operazioni un ritmo entusiastico irresistibile, rivoluzionario, cioè nazionalsocialista, che muove tutti, dai sommi generali agli ultimi soldati. La Gran Bretagna se ne accorgerà ancora una volta fra poco.

2. - Gli armamenti germanici sono, per qualità e quantità, infinitamente superiori a quelli dell'inizio della guerra. La Germania non ha ancora portato al limite l'impiego dei suoi effettivi umani. Come, del resto, l'Italia. Noi abbiamo ora alle armi oltre due milioni di uomini, ma entro l'anno possiamo, se necessario, arrivare a quattro.

3. - Mentre nella guerra mondiale la Germania era isolata in Europa e nel mondo, oggi l'Asse è arbitro del continente ed è alleato col Giappone. Il mondo scandinavo (Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca) è direttamente, o indirettamente, nell'orbita tedesca. Il mondo danubiano e balcanico non può ignorare e non ignora l'Asse. Ungheria e Romania hanno aderito al Tripartito. La Francia è occupata; il Belgio, l'Olanda, il Lussemburgo sono, come il mondo scandinavo e danubiano, nell'orbita della Germania. Nel Mediterraneo l'Italia è alleata, la Spagna amica. Resta la Russia, ma i suoi interessi fondamentali le consigliano di seguire anche per il futuro una politica di buon vicinato con la Germania. L'Europa quindi, fatta eccezione del Portogallo, della Svizzera, e, per qualche tempo ancora, della Grecia, è tutta al di fuori della Gran Bretagna e contro la Gran Bretagna.

4. - Con questa situazione si è determinato un capovolgimento nettissimo di quanto accadde nel 1914-1918. Allora il blocco era un'arma terribile nelle mani della Gran Bretagna; oggi è un'arma spuntata, poiché, da bloccante, la Gran Bretagna è diventata bloccata dalle forze aree e navali dell'Asse e sarà sempre più bloccata sino alla catastrofe.

5. - Il morale dei popoli dell'Asse è infinitamente superiore al morale del popolo inglese. L'Asse lotta nella certezza della vittoria, la Gran Bretagna lotta perché, come ha detto Halifax, non ha altra scelta. È supremamente ridicolo speculare su un eventuale cedimento morale del popolo italiano. Questo non accadrà mai. Parlare di paci separate è da deficenti. Churchill non ha la minima idea delle forze spirituali del popolo italiano e di quello che può il fascismo. Che Churchill ordini di bombardare gli impianti industriali di Genova per interrompere le lavorazioni, si comprende; ma bombardare la città per fiaccarne il morale, è una puerile illusione. Significa non conoscere neppure vagamente la razza, il temperamento, il costume dei liguri in genere e dei genovesi in particolare. Significa ignorare la virtù civica, il fierissimo patriottismo di un popolo che, nell'arco del suo mare, ha dato alla patria Colombo, Garibaldi, Mazzini.

6. - La Gran Bretagna è sola. Questo isolamento la spinge verso gli Stati Uniti, dai quali invoca disperatamente e urgentemente soccorso. Il potenziale industriale degli Stati Uniti è certamente grandioso, ma, perché l'aiuto giovi, i rifornimenti devono: a) giungere tranquillamente in Inghilterra; b) essere di tale mole non solo da compensare le distruzioni avvenute e quelle che avverranno degli impianti industriali della Gran Bretagna, ma da determinare una superiorità sulla Germania, il che è impossibile, perché cori la Germania lavora ormai in uomini, macchine, materie prime, l'intero continente europeo.

7. - Quando la Gran Bretagna cadrà, allora la guerra sarà finita, anche se, per avventura, continuasse ad agonizzare nei paesi dell'impero britannico. A meno che, ed è probabile, tali paesi, dove già qualche cosa fermenta, non realizzino, vinta la metropoli, la doro indipendenza. Il che porterebbe non sodo ad un cambiamento della carta politica. dell'Europa, ma di quella del mondo.

8. - L'Italia ha in questa gigantesca vicenda una parte di primo piano. Anche il nostro potenziale bellico migliora quotidianamente, in qualità e quantità. Due delle tre grandi navi ferite a Taranto sono già in via di prossima, completa guarigione. Tecnici ed operai hanno lavorato giorno e notte, fornendo una convincente dimostrazione non solo della loro capacità professionale, ma del loro patriottismo. A guerra finita, nel rivolgimento sociale mondiale che ne conseguirà, con una più giusta distribuzione delle ricchezze della terra, dovrà essere tenuto e sarà tenuto canto dei sacrifici sostenuti e della disciplina mantenuta dalle classi lavoratrici italiane. La rivoluzione fascista farà un altro passo decisivo in tema di raccorciamento delle distanze sociali.

9. - Che l'Italia fascista abbia osato misurarsi con la Gran Bretagna è un titolo di orgoglio che varrà nei secoli. E’ stato un atto di consapevole audacia. I popoli diventano grandi osando, rischiando, soffrendo, non mettendosi ai margini della strada in una attesa parassitaria e vile. I protagonisti della storia possono rivendicare dei diritti; i semplici spettatori mai.

10. - Per vincere l'Asse, gli eserciti della Gran Bretagna dovrebbero sbarcare nel continente, invadere Germania e Italia, sconfiggerne gli eserciti, e questo nessun inglese, per quanto squilibrato e delirante dall'uso e dall'abuso degli stupefacenti e degli alcoolici, può nemmeno sognarlo.
Lasciatemi dire ora che quanto accade negli Stati Uniti è una delle più colossali mistificazioni che la storia ricordi.

Una illusione e una menzogna stanno alle basi dell'interventismo americano: l'illusione che gli Stati Uniti siano ancora una democrazia, mentre sono, di fatto, una oligarchia politico-finanziar1a dominata dall'ebraismo, attraverso una forma personale di dittatura; la menzogna che le potenze dell'Asse vogliono attaccare, dopo la gran Bretagna, l'America.

Né a Roma, né a Berlino, si covano fantastici progetti del genere. Tali progetti non potrebbero partire che da una inclinazione manicomiale. Totalitari certo lo siamo e lo saremo, ma coi piedi sulla dura terra.

Gli americani che mi leggeranno stiano tranquilli e non credano, per quanto li riguarda, alla esistenza del « grosso cattivo lupo » che li vuol divorare. In ogni caso è più verosimile che gli Stati Uniti siano invasi, prima che dai soldati dell'Asse, dagli abitanti, non molto conosciuti, ma pare assai bellicosi, del pianeta Marte, che scenderanno dagli spazi siderali su inimmaginabili « fortezze volanti ».

Camerati di Roma!

Attraverso voi ho voluto parlare al popolo italiano, all'autentico, vero, grande popolo italiano, quello che combatte leoninamente sui fronti di terra, di mare, di cielo, quello che di buon mattino è in piedi per andare a lavorare nei campi, nelle officine, negli uffici, quello che non si permette lussi, nemmeno innocenti.

Non bisogna assolutamente confonderlo o contaminarlo con una esigua, trascurabile minoranza di ben identificati poltroni, piagnoni e asociali, che gemono sui razionamenti o rimpiangono le sospese «comodità », o con qualche rettile, rottame di loggia, che noi schiacceremo senza difficoltà quando e come vorremo.

Il popolo italiano, il popolo fascista merita e avrà la vittoria. Le privazioni, le sofferenze, i sacrifizi che dalla quasi unanimità degli italiani e delle italiane vengono affrontati con coraggio e con dignità che può dirsi veramente esemplare, avranno il loro compenso, il giorno in cuistroncata stroncata sui campi di battaglia, dall'eroismo dei nostri soldati, ogni forza nemica, i1 triplice, immenso grido attraverserà fulmineo le montagne e gli oceani ed accenderà di nuove speranze e consolerà di nuove certezze l'anima delle moltitudini: vittoria, Italia, pace con giustizia tra i popoli.