Saturday 3 March 2012

Discorso al Teatro Augusteo di Roma, 22 giugno 1925


di Benito Mussolini

Camerati! Stasera sono in vena, avendo superato la noia che io debbo superare tutte le volte che debbo pronunciare un discorso. Attendetevene uno che sarà un'ora di grande allegrezza, perché sarà schiettissimo nella forma e nella sostanza. Ecco un Congresso che ha sbalordito gli avversari. Lo abbiamo ridotto sul preventivato del 50 per cento. Credo che se noi ne avessimo avuta la volontà probabilmente il Congresso sarebbe finito prima di cominciare. Perché?

1°) Perché il Partito si è trovato dinanzi a fatti compiuti, a opere ultimate;
2°) il Partito nazionale Fascista è oggi granitico e unanime come non fu mai;
3°) perché tutte le volte che io ho sentito qualcuno di voi rinunziare alla parola, e tutte le volte che io dovevo sospingere qualcuno di voi alla tribuna, vi avrei abbracciato!

La ho sognata io la generazione italiana dei silenziosi operanti: la ho voluta io, riducendo il mio stile e abolendo tutto ciò che era decorazione, fronzolo, superficialità, annullando tutti i residui del seicentismo, tutta la ciarla vana, che era necessaria quando gli italiani si riunivano per discutere quali degli immortali principi erano marciti e quali dovevano ancora marcire. Sono sicuro che quei signori che si sono autodefiniti sacerdoti officianti di una misteriosa divinità che si chiama opinione pubblica, e della quale ci strainfischiamo, sono sicuro che i giornalisti avversari ed eziandio i fiancheggiatori, troveranno che un Congresso che non parla, un Congresso di soldati, di non politici, è una specie di abominazione. Noi siamo ancora per fortuna un esercito.

Io sapevo che nessuno di voi era invecchiato. Purtuttavia, temevo che quattro anni di tempo avessero dato alla vostra corporatura, quel di più di adipe che accompagna il triste passaggio dei 40 anni. Siete ancora sveltissimi, muscolosi, agilissimi, veramente degni di incarnare la giovinezza d'Italia.

E questo Congresso, malgrado il passaggio del tempo, è stato anche più fascista di quello che non fosse il Congresso di quattro anni or sono. Parlo ai fascisti; parlerò quindi preciso. II Segretario Generale del Partito ha dato le direttive, ma io voglio precisarle ancora. Credo che siate tutti d'accordo nel ritenere che non si debbano più dare tessere ad honorem. Non vogliamo creare questa specie di giubilati e di senatori del Partito. D'ora innanzi per avere una tessera ad honorem, bisognerà: o avere scritto un poema più bello della Divina Commedia, od avere scoperto il sesto continente, oppure avere trovato il mezzo di annullare i nostri debiti con gli anglo-sassoni.

Credo anche che tutti voi siate d'accordo nel deprecare le violenze spicciole, le violenze brute, non intelligenti, che non possiamo coprire, ma dobbiamo colpire. La camicia nera non è la camicia di tutti i giorni e non è nemmeno un'uniforme: è una tenuta di combattimento e non può essere indossata se non da coloro che nel petto albergano un animo puro.

Voi sapete quello che io penso della violenza. Per me essa è perfettamente morale, più morale del compromesso e della transazione. Ma perché abbia in se stessa la giustificazione della sua alta moralità, è necessario che sia sempre guidata da un'idea, giammai da un basso calcolo, da un meschino interesse. Bisogna evitare soprattutto le violenze contro coloro che non sono colpevoli, ma sono piuttosto ignoranti e fanatici.

Ora vi farò una confessione che vi riempirà l'animo di raccapriccio. Sono pensoso prima di farla. Non ho letto mai una pagina di Benedetto Croce. Questo vi dica quello che io penso di un Fascismo che fosse culturizzato con la Kappa tedesca. I filosofi risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono incapaci di risolverne uno solo nella realtà della vita.

Io ammetto l'intelligenza fascista e sono stato favorevole a che sorgessero delle rivistine e dei giornali di combattimento intellettuali, ma desidero che costoro aguzzino il loro ingegno per fare la critica spietata dal punto di vista fascista del socialismo, del liberalismo, della democrazia. Ma se invece costoro debbono utilizzare l'ingurgitamento della cultura universitaria, che io consiglio di rapidamente assimilare e di espellere non meno rapidamente, se costoro non fanno che vessare e ipercriticare tutto quello che di criticabile vi è in un movimento così complesso come il movimento fascista, allora io vi dichiaro schiettamente che preferisco al cattedratico impotente, lo squadrista che agisce.

Ieri ho detto all'on. Rossoni che bisognava difendere il lavoro: certamente. Ma non è vero che io sia scettico sul sindacalismo. Volevo vedere chiaro nelle cifre, ma io sono un vecchio sindacalista. Io ritengo che il Fascismo debba esplicare gran parte della sua energia nell'organizzazione, nell'inquadramento delle masse lavoratrici, anche perché ci vuole qualcuno che seppellisca il liberalismo. Il sindacalismo, l'affossatore del liberalismo!

Il sindacalismo, quando raccolga le masse, le inquadri, le selezioni, le purifichi e le elevi, è la creazione nettamente antitetica alla concezione atomistica e molecolare del liberalismo classico. Eppoi, o camerati, non è più il caso di discutere sulla opportunità o meno del sindacalismo. Come sempre, il fatto, nel Fascismo, ha preceduto la dottrina. Bisogna fare del sindacalismo senza demagogia, del sindacalismo selettivo educativo, del sindacalismo, se volete, mazziniano, che non prescinde mai, parlando dei diritti, dai doveri che bisogna necessariamente compiere.

Voglio combattere una piccola stortura che affiora qua e là nelle provincie. Essa è il risultato di un capriccio o di uno scherzo, quando non sia originata da questo impulso alle storture, che io combatto rigidissimamente: ed è la stortura antiromana. Signori, io sono romano! Signori, è ora di finirla con i municipalismi!

In uno Stato bene ordinato non vi è che una capitale, e quando questa capitale si chiama Roma, tutti hanno il dovere di sentire l'ineffabile orgoglio di essere gregari di questa immensa e superba capitale. Prima di tutto, non è vero che a Roma non vi sia il Fascismo, e che Roma sia una specie di sentina. In ogni caso la farebbero gli italiani, perché i romani sono una minoranza a Roma. Ma poi, tutto ciò è nemico, o signori, di quella concezione dell'impero, che è la base della nostra dottrina. L'unica città che nelle rive del Mediterraneo, fatale e fatato, abbia creato l'impero è Roma.

Noi abbiamo i nostri morti, i nostri gloriosissimi morti, e non è senza commozione che ieri sfogliavo il libro che è dedicato alla loro memoria. Ma non bisogna fare troppe cerimonie sui nostri morti. Vi prego, uscendo di qui, di non andare dal Milite Ignoto. Non bisogna dare l'impressione che il Milite Ignoto sia diventato una specie di passeggiata obbligatoria. Ormai ci vanno tutti. Anche quelli che sono responsabili della morte di tanti militi più o meno ignoti, sacrificati al disfattismo di prima, durante e dopo la guerra.

Ed ora che ho parlato a voi, parlo agli altri. Noi siamo indicati come i revisori dello Statuto, come i tiranni che hanno ucciso la dea libertà, come i calpestatori della Costituzione. Vi è un Giosuè liberale che proietta le sue posteriorità eminenti all'orizzonte e grida: fermati o sole! Quanti ne abbiamo di questi Giosuè all'ingiro! Ed il sole si sarebbe fermato il 4 marzo 1848 quando fu concesso lo Statuto! Ebbene, io ho una grande venerazione per tutte le cose che rappresentano un episodio significativo nella storia della Nazione italiana. Ma lo Statuto, o signori, non può essere un gancio al quale si devon appiccare tutte le generazioni italiane. Lo stesso Cavour, all'indomani della promulgazione dello Statuto diceva: « lo Statuto è modificabile ». La stessa tesi fu sostenuta di poi da Minghetti, da Crispi, da Bertani e da moltissimi altri. Lo Statuto era adatto al Piemonte del 1848; il quale Piemonte ha moltissimi meriti, ma non ha quello dello Statuto. Non è il Piemonte che ha dato lo Statuto all'Italia, è l'Italia che ha dato lo Statuto al Piemonte.

Notate, o signori, che il Piemonte ha un'importanza straordinaria nella storia della Nazione italiana, perché per molti secoli è stato l'unico Stato nazionale, l'unico Stato che faceva una politica internazionale, l'unico Stato che aveva un esercito, che partecipava a tutte le grandi guerre d'Europa, l'unico Stato che nel 1848 ha avuto il coraggio, piccolo Stato di pochi milioni di uomini, di andare contro a quel grande colosso che era l'Austria di allora. Ma non ha il merito dello Statuto. Giorno per giorno noi dobbiamo violarlo. Guai se lo portassimo fuori all'aria libera! Lo Statuto del 1848 non contemplava le colonie. E forse che un governatore di colonia non ha diritto di far parte del Senato?

Forse Sua Maestà il Re non ha diritto di comandare le forze armate dell'aria, dal momento che lo Statuto non contemplava anche l'Aviazione?

E di questi casi anacronistici ne potrei fare una collana. Ma poi vogliono dichiarare ancora che le istituzioni non possono diventare fasciste! Non solo lo possono, ma lo devono.

Prima del 1848 le istituzioni erano assolutiste; dopo il 1848 si acconciarono al liberalismo. E perché ora, che siamo una nazione di 40 milioni di abitanti; che abbiamo ancora calda nel pugno la Vittoria, che siamo tutti frementi di nuova vita e di nuove forze, perché adesso si deve negare la possibilità che le istituzioni si adeguino alla realtà inestinguibile del littorio? Certo, vi sono delle novità. Guai se la rivoluzione non portasse delle novità! La magia di questa parola scomparirebbe. Le novità sono le seguenti. Abbiamo domato il parlamentarismo! La Camera non dà più quello spettacolo nauseabondo che dava da qualche tempo. Si discute, si approva, si legifera, perché questo è appunto il programma di un'assemblea legislativa. Ed abbiamo portato al primo piano il potere esecutivo, intenzionalmente, perché il portare al primo piano il potere esecutivo è veramente nelle linee maestre della nostra dottrina; perché il potere esecutivo è il potere onnipresente ed operante nella vita della nazione, è il potere che esercita il potere ad ogni minuto, è il potere che in ogni momento si trova di fronte a problemi che deve risolvere; è, signori, il potere che decreta le cose più grandi che possono capitare nella storia di un popolo; è il potere che dichiara la guerra e conclude la pace.

Questo potere esecutivo, che dispone poi di tutte le forze armate dello Stato, che deve mandare avanti, giorno per giorno, la complessa macchina dell'amministrazione statale, non può essere ridotto ad un gruppo di manichini che le assemblee fanno ballare a seconda dei loro capricci. Il potere esecutivo è il potere sovrano della Nazione, tanto è vero che di esso il capo supremo è il Re.

E, naturalmente, da questa preminenza del potere esecutivo discende, per ragione diretta, tutta la nostra legislazione. Approvando la legge sulla burocrazia il Governo fascista ha reso il più alto omaggio alla burocrazia: l'ha elevata allo stesso suo piano.

Si può considerare la burocrazia come una massa di domestici impiegati, che danno un rendimento più o meno lodevole e poi scompaiono dalla pluralità dei cittadini. Si può considerare la burocrazia come la consideravano alcuni ministri del vecchio regime, come un'accolta di complici. Noi, invece, consideriamo la burocrazia come una parte integrante dello Stato. La burocrazia è lo Stato; è nello Stato e nelle viscere profonde dello Stato, e non può straniarsi da questa sua inserzione. E se così è, e se è vero, com'è vero, che lo Stato è rappresentato dal Governo, è evidente che, volendo che la burocrazia abbia le direttive del Governo, volendo che la burocrazia si consideri come un esercito di collaboratori, operante allo stesso fine, si fa il massimo elogio alla burocrazia, la si porta ad un piano ben più elevato di quello in cui la tenevano i vecchi Governi.

Che cosa vogliamo noi? Una cosa superba. Vogliamo che gli italiani scelgano. È finito il tempo dei piccoli italiani che avevano mille opinioni e non ne avevano una. Abbiamo portato la lotta sopra un terreno così netto, che bisogna essere di qua o di là. Non solo: ma quella che viene definita la nostra feroce volontà totalitaria sarà perseguita con ancora maggiore ferocia: diventerà, veramente, l'assillo e la preoccupazione dominante della nostra attività. Vogliamo, insomma, fascistizzare la Nazione, tanto che domani italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, siano la stessa cosa. Solo avendo un grande ideale si può parlare di rivoluzione, si può impiegare questa magica e tremenda parola! Ora abbiamo votato delle leggi fasciste, delle leggi di difesa: dopo verranno le leggi di creazione e di costruzione. I nostri avversari non sono ancora convinti dell'ineluttabile. Sperano. Avete capito... Sperano nel Senato.

Alcuni anni or sono il Senato italiano, che pure ha così nobili tradizioni nella storia politica della Nazione, era decaduto. Era un nobile decaduto! Noi che siamo giovani, abbiamo compreso l'importanza di quest'assemblea e ne abbiamo ripristinato lo splendore. Il Senato approverà le leggi fasciste; prima di tutto perché il Governo vi ha la maggioranza; in secondo luogo perché noi le difenderemo; in terzo luogo perché il Senato, nel suo alto patriottismo, non vorrà, certo, assumersi la responsabilità di un contrasto, che determinerebbe una crisi di conseguenze assai gravi.

Oggi il Fascismo è un partito, è una milizia, è una corporazione. Non basta: deve diventare un modo di vita! Vi devono essere gli italiani del Fascismo, come vi sono, a caratteri inconfondibili, gli italiani della rinascenza e gli italiani della latinità. Solo creando un modo di vita, cioè un modo di vivere, noi potremo segnare delle pagine nella storia e non soltanto nella cronaca.

E quale è questo modo di vita? Il coraggio, prima di tutto; l'intrepidezza, l'amore del rischio, la ripugnanza per il panciafichismo e per il pacifondismo, l'essere sempre pronti ad osare nella vita individuale come nella vita collettiva, ad abborrire tutto ciò che è sedentario: nei rapporti la massima schiettezza, i colloqui a quattro e non le vociferazioni clandestine anonime e vili, l'orgoglio in ogni ora della giornata di sentirsi italiani, la disciplina nel lavoro, il rispetto per l'autorità. L'italiano nuovo, ed io ne vedo già un campione, l'italiano nuovo è De Pinedo!

Portando nella vita tutto quello che sarebbe grave errore di confinare nella politica, noi creeremo, attraverso un'opera di selezione ostinata e tenace, la nuova generazione, e nella nuova generazione ognuno avrà un compito definito. Talvolta mi sorride l'idea delle generazioni di laboratorio: creare cioè la classe dei guerrieri, che è sempre pronta a morire; la classe degli inventori, che persegue il segreto del mistero; la classe dei giudici, la classe dei grandi capitani di industria, dei grandi esploratori, dei grandi governatori. Ed è attraverso questa selezione metodica che si creano le grandi categorie, le quali a loro volta creeranno l'impero.

Questo sogno è superbo, ma io vedo che a poco a poco sta diventando una realtà. Noi non rinneghiamo nulla del passato. Noi consideriamo che il liberalismo ha significato qualche cosa nella storia d'Italia, anche se furono Governi liberali quelli che non vollero l'Albania, quelli che non vollero Tunisi, quelli che non vollero andare in Egitto; anche se furono Governi liberali quelli che nel dopoguerra ebbero un solo delirio: quello di abbandonare le terre dove eravamo.

Quale dunque il nostro metodo? La parola d'ordine, o fascisti, è questa: intransigenza assoluta ideale e pratica. La seconda parola d'ordine: tutto il potere a tutto il Fascismo!

Coloro che hanno avuto dal destino il compito di guidare una rivoluzione, sono come i generali che hanno avuto dal destino il compito di condurre una guerra. Guerra e rivoluzione sono due termini che vanno quasi sempre accoppiati: o è la guerra che determina la rivoluzione o è la rivoluzione che sbocca in una guerra. Anche la strategia dei due movimenti si rassomiglia: come in una guerra, così in una rivoluzione non sempre si va all'assalto. Qualche volta bisogna conoscere le ritirate, più o meno strategiche; qualche volta bisogna stagnare lungamente nelle posizioni conquistate; ma la meta è quella: l'impero! Fondare una città, scoprire una colonia, fondare un impero, sono i prodigi dello spirito umano. Un impero non è soltanto territoriale: può essere politico, economico, spirituale. L'impero non è per altro una creazione improvvisa. L'Inghilterra ha avuto Gibilterra dopo la pace di Utrecht, ha avuto Malta dopo Waterloo, ha avuto Cipro nel 1878. Sono corsi due secoli prima che l'Inghilterra avesse quelle che si chiamano le chiavi fondamentali del suo impero. Dobbiamo tendere a questo. Allora bisogna abbandonare risolutamente tutta la fraseologia e la mentalità liberale. La parola d'ordine non può essere che questa: disciplina. Disciplina all'interno per avere di fronte all'estero il blocco granitico di un'unica volontà nazionale.

Camerati, quattro anni fa io vi dissi in questa stessa sala, e molti di voi erano presenti e sono ormai quelli che si potrebbero chiamare i veterani del Fascismo, dissi: Guarite di me! Non è stato possibile, perché evidentemente... (Si grida: « No! No! »; Rossoni: « Non è possibile »).

Perché evidentemente ogni grande movimento deve avere un uomo rappresentativo, che di questo movimento soffra tutta la passione, e porti tutta la fiamma. Ebbene, o camerati, ritornate alle vostre terre, che io amo, e gridate con alta voce e con sicura coscienza che la bandiera della rivoluzione fascista è affidata alle mie mani, ed io sono disposto a difenderla contro chiunque, anche a prezzo del mio sangue!