Monday, 5 March 2012

Discorso alla Camera, 16 dicembre 1939


di Galeazzo Ciano

Camerati,

Voi consentirete che per dare al Paese una esatta relazione sulle vicende che si sono prodotte negli ultimi mesi, e che sono tuttora in pieno svolgimento, io risalga ad eventi che possono sembrare lontani nel tempo, ma che sono invece strettamente connessi con la crisi che oggi travaglia l'Europa e minaccia il mondo intero. Non è per l'ormai superflua ragione di documentare ancora una volta la sicurezza delle affermazioni mussoliniane, ma piuttosto per rinfrescare la memoria di tutti sulla chiaroveggenza della politica fascista, ch'io ricorderò che fin dal maggio del 1927 – esattamente dal 26 maggio del 1927, in quel discorso che è stato consacrato alla storia della Rivoluzione fascista col nome di discorso dell'Ascensione – il Duce affermò, in questa medesima Aula, che tra il 1935 e il 1940 ci saremmo trovati ad un punto cruciale della storia europea.

(Vivissimi prolungati applausi).

Mi riservo, nel corso di questa mia esposizione,  di provare, come l'Italia fascista non si sia limitata  a denunciare passivamente il pericolo, ma come abbia invece, a più riprese, offerto il contributo costruttivo della sua  collaborazione e come questi nostri sforzi concreti si siano  infranti contro l'ostacolo dell'incomprensione altrui. Da lungo tempo, da lunghissimo tempo, il Fascismo aveva riconosciuto che il regime instaurato dai Trattati di pace e mantenuto con la forza artificiosa del sistema della sicurezza collettiva, avrebbe spinto l'Europa verso una nuova catastrofe. I Trattati di pace avevano lacerato l'Europa, spartendola definitivamente fra Stati vincitori e stati vinti, ponendo questi ultimi in uno stato di soggezione permanente.

Nel 1919, all'atto stesso della loro costituzione, i Fasci di Combattimento posero il riavvicinamento alle Nazioni vinte e la revisione dei Trattati, come uno dei postulati fondamentali della politica estera del Fascismo. Nel 1921 il Duce enunciò il dilemma di fronte al quale l'Europa doveva fatalmente trovarsi: "o la revisione dei Trattati, o una nuova guerra". A diciotto anni di distanza da quando queste parole furono pronunziate, noi non possiamo non considerare come le origini e le cause del conflitto che oggi insanguina l'Europa siano state dal Fascismo tempestivamente indicate, quando i germi di questo conflitto erano ancora invisibili, quando i pericoli erano ancora solamente in potenza, soprattutto quando l'Europa  si  trovava ancora in grado di attenuare gli errori compiuti  non solo ai danni dei popoli vinti, ma anche e soprattutto ai danni dell'Italia.  Fino da allora il Fascismo indicò la via per ristabilire  in Europa gli elementi essenziali di una convivenza pacifica,  che i Trattati di pace rendevano impossibile e che la politica di alcune fra le Potenze vincitrici respingeva continuamente con la asprezza di una formula che si è rivelata fatale per l'Europa: "la revisione è la guerra". A questa formula si appoggiava quel castello chimerico che si chiamava: riparazioni, garanzie militari, sicurezza collettiva, e che, nell'illusione di mantenere l'Europa in uno stato di immobilità marmorea, ne opprimeva e paralizzava le forze di rinascita. (Vive approvazioni). Lunga e tenace è stata la nostra lotta contro questa pericolosa aberrazione. Per dieci anni – dalla Conferenza di Londra del 1922 alla Conferenza di Losanna del 1932 – abbiamo lottato contro il regime delle riparazioni, che illanguidiva la vita economica dei Paesi creditori. Dieci anni di rovine e di rancori sarebbero stati risparmiati all'Europa se la soluzione totalitaria del colpo di spugna fosse stata tempestivamente adottata.

(Vivissime approvazioni).

E così doveva anche essere liquidato quel regime di disuguaglianza che decurtava i diritti di sovranità della Germania e dei Paesi che erano stati suoi alleati nella guerra, e, primo ed essenziale di questi diritti, quello di provvedere alla propria difesa, senza di che era fatale che questi Paesi vi provvedessero liberamente essi stessi, rovesciando i successivi tentativi di disarmo, sulla cui onestà avevano troppe ragioni di diffidare. (Vivissimi applausi). La sola possibilità di fermare l'Europa nella sua corsa verso gli armamenti e verso la guerra, era quella di restituire a questi Paesi l'eguaglianza di diritto, premessa indispensabile di un accordo sull'equilibrio della potenza armata. Noi fummo i soli, a Ginevra, a sostenere questa elementare necessità, poiché sentivamo che l'Europa, moralmente e materialmente, si disgregava proprio su quelle linee che i Trattati di pace avevano segnato. I conflitti di nazionalità si inasprivano nei confini assai spesso tracciati senza la minima cognizione di causa. La crisi finanziaria – provocata in parte essa stessa dal regime delle riparazioni – sconnetteva i nessi vitali dell'economia europea e trasformava gli Stati in tanti campi chiusi e fortificati. Il regime della sicurezza collettiva li spartiva e li forzava in gruppi avversi, predisponendo quei blocchi di forze, dei quali il Duce – per un lungo corso di anni – aveva denunciato e combattuto il pericolo.

La sicurezza collettiva, come sicurezza di ciascuno Stato nei riguardi di altri, non era che un'illusione ed una maschera. Una illusione colla quale si faceva credere ai piccoli Stati che essi sarebbero stati protetti contro la forza delle grandi Potenze, mentre in realtà essi venivano artificiosamente coinvolti nei loro conflitti: una maschera, dietro la quale si tentava di creare un regime di alleanze metodicamente dirette ad isolare e minacciare alcune Potenze. Non altro contenuto aveva la sicurezza collettiva. Non altro significato i tentativi di rendere automatici gli impegni di mutua assistenza previsti dal patto della Società delle Nazioni. Non altro obiettivo i Trattati di alleanza conclusi per dare pratica applicazione a questi impegni, veri e propri strumenti di pressione politica e militare messi al servizio di un gruppo di interessi particolari, e destinati a costituire le fondamenta di quella politica che fatalmente doveva riaprire all'Europa la via della guerra.

(Approvazioni).

Su questa via fu ancora una volta l'Italia a fare un tentativo di arresto. Il 18 marzo 1933 il Duce proponeva al Primo Ministro britannico la conclusione di un accordo fra le quattro grandi Potenze occidentali: l'Italia, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna, nel quale fossero fissate le basi e le condizioni di una collaborazione permanente che, allontanando ogni idea di raggruppamenti contrapposti o di finalità antagonistiche, mirasse a salvaguardare gli interessi dei singoli Stati con l'interesse supremo, comune a tutti, del consolidamento della pace. Nucleo essenziale di questo Patto era la revisione dei Trattati ed un accordo per gli armamenti. Era questo un tentativo estremo per riparare al fallimento inevitabile della Conferenza del Disarmo, riportando i problemi vitali della pace europea alla responsabilità ed alla collaborazione delle grandi Potenze. Contemporaneamente il Duce presentò il progetto di disarmo: mantenimento dello statu quo per le Potenze armate e riarmo delle Potenze disarmate nei limiti indicati dal Governo del Reich come il minimo necessario. Sia il Patto a Quattro che il Progetto di Disarmo restarono lettera morta, ed il Duce dettò allora parole che non possono venire dimenticate: "Il giorno – Egli scrisse – in cui i delegati alla Conferenza del Disarmo dovranno dichiarare che il disarmo è una utopia, una sublime, ma appunto per questo più pericolosa utopia, la Società delle Nazioni avrà perduto ogni significato e prestigio: alla sua politica che escludeva almeno in apparenza i blocchi degli Stati, subentrerà la politica dei blocchi cioè delle alleanze; in altri termini la politica dell'anteguerra: all'ultimo è sua maestà il cannone che sarà invitato a parlare". (Vivissime acclamazioni. Grida ripetute di: Duce! Duce!). In tale stato di cose, all'Italia restava un solo dovere; quello di provvedere con la sua volontà e con le sue forze alla difesa dei propri interessi, alle necessità della sua espansione, alla costruzione di un suo sistema imperiale. (Approvazioni). L'impresa in Etiopia fu la necessaria conseguenza, non solo della iniqua posizione fatta all'Italia nel campo coloniale, ma anche del dovere che si imponeva all'Italia di pensare alla sua sicurezza, alla sua indipendenza, al suo avvenire.

(Acclamazioni prolungate).

Trovammo allora contro di noi tutte quelle forze di oppressione e di coercizione, che per diciotto anni avevamo denunziate e combattute e che credettero giunto il momento di esperimentare le armi societarie lungamente affilate, predisponendo e attuando un assedio che avrebbe dovuto esaurirci e piegarci. Queste armi si spuntarono contro la volontà di un popolo e il genio di un Capo. (La Camera sorge in piedi fra vibranti acclamazioni, al grido prolungato di: Duce! Duce!). L'Italia uscì fulmineamente vittoriosa da una impresa che non fu breve per mancanza di resistenza o di difficoltà, ma solo perché gli ostacoli furono inesorabilmente investiti dall'impeto fascista e, com'è nello stile del Duce, l'impeto fu più vivo là dove le resistenze erano maggiori. (Nuove acclamazioni). Per la prima volta nella storia delle spedizioni coloniali, un grande Esercito fu portato in Africa: 400.000 uomini, 1200 cannoni, 300 carri armati, 500 aeroplani. Per la prima volta nei tempi moderni il suolo africano vide battaglie ordinate di masse, una guerra condotta a piena andatura, una vittoria folgorante, e la conquista di un Impero realizzata nell'unità di uno sforzo possente.

(Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Questo sforzo noi compimmo in Africa colle armi, mentre in Europa resistevamo alla pressione di una coalizione di 52 Stati, della quale però non facevano parte quelle Nazioni che, come noi, reclamavano giustizia e con le quali ci univano allora spontanei vincoli che il tempo e gli eventi dovevano precisare e consolidare. (Vivissimi applausi).

Da appena due mesi era terminata la campagna etiopica, allorché ebbe inizio la grande crisi spagnola. Il 18 luglio, il Generalissimo Franco, rompendo ogni indugio, decise di porre fine ad una situazione di disordine e di crimine, che disonorava il suo Paese e ne comprometteva definitivamente il futuro. Accanto a Lui si schierarono subito le più nobili energie della Spagna. Agli osservatori attenti di quanto avveniva nella Penisola Iberica, non fu difficile comprendere che l'azione del Generalissimo Franco non poteva essere confusa con uno dei tanti sforzi generosi ma sterili con cui la Spagna ha nel passato tentato di restaurare i valori fondamentali della sua civiltà contro la corruzione dell'influenza straniera, bensì si trattava di una autentica rivoluzione nazionale destinata a riallacciarsi alla tradizione guerriera e civile della Riconquista ed a slanciarsi verso il futuro con la forza stessa di questa tradizione.

(Approvazioni).

L'Italia fascista, che alla Spagna è legata da vincoli di religione, di cultura e di sangue, non poteva non intendere subito l'altissimo significato morale del movimento franchista, né poteva ignorarne la grande portata sul piano internazionale e storico.

(Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Si è stampato e detto e ripetuto che l'Italia fascista aveva da tempo stabilito segreti contatti con Franco e che aveva fomentato l'insurrezione. Ciò è falso. L'Italia, come è nel suo costume, pur deplorando che una nazione di alta civiltà romana, quale la Spagna, piegasse lentamente verso sempre più tristi destini, si era scrupolosamente astenuta da ogni intervento nelle questioni interne di un altro Paese. È però vero il contrario. E cioè che la rivoluzione bolscevica era stata preparata dal Comintern da lunghissima pezza. Se ne hanno testimonianze assolutamente indiscutibili. Mi limiterò a citare quella non certamente sospetta del signor Yvon Delbos, che nel libro L'expérience rouge, pubblicato nel 1933 al ritorno da un viaggio in Russia, documentava in modo preciso l'azione e gli scopi del Comintern in Spagna.

Parlando del Museo rivoluzionario di Mosca, così scrive: "Una sala speciale è consacrata alla futura rivoluzione spagnuola con numeri dei giornali Bandera Roja, La Palabra, ecc.: ritratti di bolscevichi castigliani, scene di scioperi e di sommosse. Da tutto ciò appare chiaro che i Soviet scontano i primi successi del loro contagio presso i nostri vicini al di là dei Pirenei". Scrivendo queste parole, il signor Delbos non supponeva che proprio a lui, quale Ministro degli Esteri del Fronte popolare, sarebbe toccato l'ingrato compito di farsi avvocato d'ufficio della immacolata origine nazionale dei Governi rossi di Spagna.

(Vivissimi, generali, prolungali applausi).

Anche dopo lo scoppio del conflitto, l'Italia, pur pienamente consapevole delle ripercussioni che le sorti della guerra avrebbero avuto sull'equilibrio del Mediterraneo, nonché del pericolo che essa degenerasse in un più vasto conflitto, desiderosa di concorrere con ogni mezzo al mantenimento della pace in Europa, ispirò la sua politica ad una linea di inequivocabile chiarezza, sostenendo il principio del non intervento integrale. Le proposte italiane non furono accolte. Alcuni Paesi vollero ripiegare su una formula di non intervento che aveva come scopo non quello di non intervenire effettivamente in Spagna e di limitare il conflitto, bensì quello di salvare le apparenze di alcune cosidette libertà democratiche. Il risultato fu, naturalmente, di determinare un intervento su più vasta scala. Se ne ebbero le prove definitive allorché le truppe di Franco, che in breve tempo si erano vittoriosamente aperta la strada verso il cuore della Spagna, si scontrarono nei sobborghi della Capitale con forti masse di volontari internazionali inquadrati nelle brigate rosse. Senza la partecipazione del sovversivismo straniero, nel novembre del 1936, Franco avrebbe avuto partita vinta, ma la conseguenza dell'intervento internazionale fu quella di impedire che la guerra avesse rapidamente fine e di imporre alla Spagna, che ormai unanime si orientava verso il Caudillo, i prolungati orrori di una triennale guerra civile.

La presenza in Spagna di intere unità internazionali, armate dallo straniero per la difesa di un Governo che aveva ormai alienato la sua indipendenza, faceva definitivamente cadere ogni illusoria speranza di non intervento. L'Italia non poteva prestarsi al giuoco degli avversari, e perpetuare uno stato di squilibrio a tutto danno dei nazionali, né poteva accettare un sovvertimento così provocante e brutale della situazione che implicava una diretta minaccia ai suoi vitali interessi nel Mediterraneo, e comprometteva la civiltà medesima dell'Europa. (Vivissime acclamazioni).

I primi aeroplani italiani furono inviati in Spagna, su richiesta del Caudillo, il 28 luglio e già in quel giorno fu dato il primo contributo di sangue italiano alla vittoria della causa nazionale. (Nuove acclamazioni).

L'arrivo di questi apparecchi risultò utilissimo, poiché  valsero a trasportare dal Marocco in Spagna forti reparti franchisti, che non potevano essere trasportati via mare, essendo lo stretto di Gibilterra tuttora controllato dalle navi del Governo rosso.

Nei mesi di agosto, settembre e ottobre continuammo ad appoggiare l'azione di Franco, specialmente con mezzi aerei, ma possiamo affermare che durante il periodo in cui si svolsero le trattative per il non intervento, il contributo italiano alla causa spagnola fu contenuto in limiti assai ristretti, e certamente di gran lunga inferiore a quello fornito agli avversari. Ma allorché si ebbero le prove, cui prima ho fatto cenno, dell'intervento in massa in favore del Governo rosso, l'Italia non esitò a contrapporre alle bande internazionali la fermezza eroica dei suoi Legionari.

(Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Ad un ordine del Duce, un corpo di spedizione venne immediatamente allestito, e fu subito organizzato in modo da fornire un aiuto efficace all'esercito del Generalissimo Franco. Il moderno armamento, la perfetta organizzazione dell'intendenza, la bontà dei quadri, la perizia del comando, e soprattutto l'altissimo spirito di sacrificio dei Legionari, degni rappresentanti in terra straniera della gioventù fascista di Mussolini, hanno fatto del Corpo di Truppe Volontario un formidabile strumento di guerra.

(Nuovi caldissimi applausi).

Le tappe percorse combattendo dai nostri Legionari sono nella memoria degli Italiani e degli Spagnoli. Dopo la conquista di Malaga, il Corpo Truppe Volontario combatté la durissima battaglia di Guadalajara. Poiché su questa battaglia si tentò allora la consueta speculazione, conviene ancora una volta ripetere che anche il nome di Guadalajara deve figurare a lettere d'oro fra quelli delle vittorie conseguite in terra spagnola dal volontarismo fascista.

(La Camera prorompe in una vibrante entusiastica acclamazione).

Allorché un'armata di forze numericamente inferiori all'avversario, in condizioni particolarmente sfavorevoli di terreno e di stagione, riesce a sfondare linee munitissime, a penetrare per oltre 40 chilometri di profondità nel territorio nemico e a permanervi nonostante i contrattacchi di forze più numerose e agguerrite, nessuno ha il diritto di parlare di insuccesso: è una vittoria, una autentica vittoria che il più grande sforzo e il più duro sacrificio rendono maggiormente gloriosa.

(Acclamazioni vivissime).

Da Guadalajara a Santander, in Aragona, sull'Ebro, nella travolgente offensiva di Catalogna, le truppe volontarie ebbero sempre l'onore di assolvere compiti di speciale importanza e batterono duramente il nemico che era solito contrapporre loro, con una attenzione da noi molto apprezzata, quelle che erano considerate le più forti unità internazionali. Nei trentadue mesi di guerra insieme combattuta, i Legionari italiani videro con ammirazione come le fanterie spagnuole siano sempre state all'altezza di quella secolare tradizione di ardimento, di tenacia nell'attacco, di sprezzo del pericolo, che giustamente le ha fatte annoverare fra le migliori fanterie del mondo. (Vivissimi, generali, prolungati applausi). La fraternità di armi che si stabilì fra quadri italiani e spagnoli, e fra truppe italiane e spagnole, fu piena ed assoluta, ed a ciò molto contribuì la quasi completa identità della lingua, che facilitò la reciproca comprensione di quelli che erano i sentimenti comuni.

Le difficoltà che si frapponevano all'impresa, la eccezionale imponenza dei mezzi che furono forniti al Corpo Truppe Volontario e al Generalissimo Franco, l'impiego di velivoli in quantità tale da costituire un'effettiva armata aerea, l'intervento efficiente e costante della R. Marina, documentano che il nostro intervento nella liberazione della Spagna è e rimarrà un esempio di guerra in grande stile, condotta in terra lontana e tale da onorare la storia militare di un popolo.

(Applausi vivissimi).

I messaggi di Franco al Duce all'indomani degli scontri vittoriosi ne costituiscono lo storico riconoscimento. Dai primi giorni del nostro intervento e durante tutto lo svolgersi del conflitto, il Governo fascista aveva sempre affermato, tra la scettica incredulità di coloro che cercavano invano arcani scopi e inconfessati obiettivi alla nostra azione, che i volontari avrebbero abbandonato la terra spagnola soltanto quando la minaccia bolscevica fosse stata debellata con una vittoria integrale, ed il vessillo rosso ed oro della Spagna risorta avesse sventolato sulle più alte torri di Barcellona, di Valenza, di Madrid. Così è avvenuto. Il popolo spagnolo ha visto partire i Legionari italiani allorquando il lungo sacrificio è stato coronato dal più completo successo. Ma come fu detto, non tutti i Legionari sono tornati: 4000 di loro hanno trovato nel grembo della grande, eterna terra di Spagna la pace e la gloria degli Eroi (Il Duce, il Presidente, i Ministri e i Consiglieri nazionali si alzano, imitati dal pubblico delle tribune, restando in piedi alcuni istanti) e sono essi i custodi più sicuri dell'amicizia e della collaborazione tra le due Nazioni.

Né si deve dimenticare che se oggi, nel turbinìo della tempesta che scuote l'Europa, il Mediterraneo ha potuto sin qui rimanere un'oasi di pace operosa, ciò è stato reso possibile dall'eroica volontà del Caudillo, che ha stroncato in Spagna le forze torbide del disordine e del sovvertimento, e da quei Paesi che compresero ed assecondarono il suo grande e nobile sforzo.

Tra questi paesi era la Germania. Anche il Governo nazista non era rimasto sordo agli appelli del popolo spagnolo. Pur non avendo nella questione lo stesso diretto interesse dell'Italia a tutto ciò che concerne la situazione mediterranea, ma per ragioni di solidarietà ideale e civile, il Reich aveva offerto il contributo della sua collaborazione tecnica e militare alla Causa franchista. Il parallelismo tra la politica della Germania e dell'Italia si faceva sempre più evidente, e fu naturale fenomeno che, ad un dato momento, si stabilissero dei contatti per coordinare l'azione dei due Paesi che tendeva ad un medesimo fine e che si trovava in contrasto con l'opposizione e la coalizione dei medesimi avversari. La politica dell'Asse Roma-Berlino, che già si era profilata durante la crisi etiopica, trovò la sua prima applicazione concreta sul terreno della Rivoluzione nazionale spagnola. Né bisogna dimenticare che gli antagonisti dell'Italia, all'epoca della conquista etiopica, non avevano affatto disarmato nel loro atteggiamento ostruzionistico nei nostri riguardi, e, impotenti oramai ad annullare quello che era un formidabile evento acquisito alla storia, cercavano ancora di ingannare almeno se stessi con la farsa del non riconoscimento dell'Impero di Roma.

(Vivissime approvazioni).

Nei Protocolli di Berlino e nell'incontro con Hitler a Berchtesgaden furono precisate le basi di una più intima collaborazione italo-tedesca, ma più che dai documenti, che, tranne l'impostazione anticomunista della nostra politica, concernevano sopratutto questioni di interesse contingente, i vincoli tra i due Paesi furono sempre più stretti dalla spontanea unità di indirizzo e di azione che le vicende europee suggerivano ai due Governi.

L'Italia e la Germania – come già fu detto – non costituirono un blocco: il sistema politico italo-tedesco fu definito un Asse, e non un diaframma. Una lunga esperienza svoltasi in condizioni di particolare difficoltà valse a provare che la politica parallela dei due grandi Stati autoritari d'Europa costituiva un fattore di pace e di sicurezza, un elemento d'ordine e di resistenza contro l'assalto che alla civiltà europea veniva portato dalle forze oscure della distruzione.

In queste condizioni – e dopo la visita del Duce in Germania del settembre 1937 – l'Italia fu pronta ad accettare l'invito germanico a dare la sua adesione, in qualità di firmatario originario, al Patto Anticomintern, già esistente fra la Germania e il Giappone.

Quali la portata e il valore di tale Patto? Non è difficile rispondere che esso aveva il significato, nettamente politico, di consolidare il sistema anticomunista e di preparare una più intensa collaborazione, in ogni settore, tra le Potenze che tale sistema avevano costituito. Che, se il Patto non avesse mirato a tale scopo, ma avesse avuto l'unico obiettivo di coordinare l'azione amministrativa dei tre Governi nella difesa contro la propaganda bolscevica, allora tale Patto non sarebbe stato affatto necessario o, anziché prendere le proporzioni di un solenne impegno politico fra Stati, sarebbe rimasto in quelle più modeste e adeguate di un accordo di polizia.

(Vivissime approvazioni).

Larga eco e molti commenti suscitò nel mondo la stipulazione dell'Accordo Tripartito, ma nessuno potè sorprendersi della nostra decisione, poiché essa rappresentava l'assoluta continuità della politica di Mussolini, che, primo nel mondo (La Camera scatta in piedi acclamando il Duce, lungamente), aveva denunziato il pericolo del bolscevismo e lo aveva combattuto nelle vie d'Italia (La Camera è nuovamente in piedi fra ardentissime acclamazioni al Duce) con la stessa tenacia con la quale lo stava combattendo nelle trincee di Spagna. (Vibranti acclamazioni). A distanza di brevi settimane dalla firma del Patto Tripartito, l'Italia annunciò solennemente la sua decisione di uscire dalla Società delle Nazioni e di recidere ogni nostro legame con Ginevra.

(Vivissimi, generali applausi).

Gesto anche questo perfettamente coerente con lo sviluppo della nostra politica. Il conflitto sorto tra noi e la Lega trovava l'11 dicembre 1937 nella deliberazione votata dal Gran Consiglio e comunicata dal Duce al popolo, il suo naturale epilogo. Ancora una volta avevamo dato al mondo un esempio di mirabile pazienza prima di compiere un gesto del quale avevamo valutato tutta la portata: l'uscita dell'Italia da Ginevra significava la fine della Lega. Il 1° novembre 1936 il Duce aveva ancora una volta posto il dilemma: "o rinnovarsi o perire".

(Applausi prolungati).

La Lega aveva rifiutato il rinnovamento; non era rimasta che la seconda alternativa: la morte.

(Vivissimi applausi).

Nessuna lacrima verrà da noi versata sulla bara di quella che fu ad un tempo nemica nostra e nemica della vera pace.

(Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Sulla base dei Protocolli di Berlino e del Patto Anticomintern, la collaborazione italo-tedesca continuò a svilupparsi verso gli obiettivi fissati: un maggior riavvicinamento dei due popoli ed una effettiva politica di pace europea.

Ma ormai i germi di crisi in Europa avevano preso un'incontenibile virulenza. Mentre con l'affermarsi vittorioso del Caudillo si allontanava la minaccia dello scontro causato dalla questione spagnola, nell'Europa centrale il conflitto per lungo tempo latente tra la Germania e la Cecoslovacchia, volgeva rapidamente verso la soluzione delle armi. Anche in tale situazione l'azione svolta dall'Italia, prima per far prevalere l'equità ed il buon senso, poi per localizzare il conflitto, e infine, all'ora estrema, per salvare la pace, è nota. Quando l'umanità attendeva ormai trepidante di minuto in minuto il primo colpo di cannone, il Duce riusciva ad arrestare l'Europa sul limite della guerra. L'Accordo di Monaco salvava la pace europea, e per la prima volta, in quel turbine di odi, di rancori e di vendette che era la politica del dopoguerra, sembrava aprirsi un varco luminoso alle speranze dei popoli.

Monaco non doveva rappresentare soltanto la soluzione di una questione di minoranze nazionali, restando un episodio isolato e fugace di buona volontà e di giustizia. Nelle speranze dei popoli, Monaco rappresentava l'inizio di un periodo di intesa, di collaborazione, di pacificazione. Certo era troppo vivo in noi il senso della realtà per abbandonarci a pericolosi e prematuri ottimismi. Ma quello che ci attendevamo – e avevamo il diritto di attenderci – era che il pericolo che aveva investito l'Europa avesse aperto la mente ai fautori della politica di coercizione, e che i più gravi problemi avrebbero almeno trovato un principio di soluzione pacifica.

Ma a Monaco non seguì una distensione. Il respiro di sollievo che l'umanità aveva tratto dalla guerra evitata fu in poche settimane soffocato dalle forze che avevano visto sfuggire dalle loro mani il destino dell'Europa, e guardavano all'avvenire con una sola intenzione: quella della rivincita. A Monaco seguì così l'anti-Monaco. Quello che era stato un atto di saggezza, fu attaccato come un atto di capitolazione. Da questo sentimento, che cominciò a far breccia in alcuni degli uomini di Stato che avevano contribuito alla sua realizzazione, una conclusione fu tratta: che Monaco non avrebbe dovuto ripetersi più. "Mai più Monaco" fu la parola d'ordine. Non nel senso che non bisognava più lasciare che gli eventi trascinassero nella loro spinta inesorabile l'Europa fino alla guerra, perché questa fosse all'ora estrema evitata; ma nel senso che bisognava riprendere e rafforzare la politica della coercizione, chiudere la parentesi che Monaco aveva rappresentato, far scendere una saracinesca sulla via della pace, che Monaco aveva aperto.

(Vive approvazioni).

E poiché le democrazie amano singolarmente il linguaggio della guerra, esse cominciarono a chiamare questa politica "fronte della pace", come avevano chiamato la loro coalizione "fronte delle democrazie", come nella politica interna avevano chiamato "fronte popolare" la loro collusione col bolscevismo.

(Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Tre "fronti" che erano collegati fra loro da un unico piano: l'alleanza con la Repubblica dei Sovieti e l'accerchiamento ideologico, politico e militare della Germania e dell'Italia. (Applausi vivissimi). Nel marzo 1939, il Governo del Reich decideva l'occupazione della Boemia e della Moravia e l'istituzione del Protettorato. Nelle prime settimane di aprile l'Italia realizzava l'unione dell'Albania, invocata dall'unanime volontà del popolo schipetaro.

(Vivissime, prolungate acclamazioni).

Erano due eventi di altissima importanza, uno per la Germania, l'altro per l'Italia; ma due eventi, è bene ricordarlo e chiarirlo, assolutamente indipendenti l'uno dall'altro. Niente esisteva di quel preteso piano concordato fra l'Italia e la Germania che il "fronte della pace" si agitava a denunciare, allo scopo evidente di attirare alla politica di accerchiamento i Paesi dell'Europa danubiana e balcanica. I soldati italiani non erano sbarcati a Durazzo, perché i soldati tedeschi, poche settimane prima, erano entrati a Praga. L'occupazione dell'Albania era impresa interamente italiana, dettata interamente da nostre ragioni, da nostri interessi, e dalla situazione che si era creata in Albania e che non aveva alcun rapporto con la situazione cecoslovacca.

(Vivissimi applausi).

L'unione dell'Albania all'Italia rappresentava il coronamento di antichi nostri diritti e di una lunga opera da noi compiuta in favore del popolo albanese.

(Nuovi vivissimi, prolungati applausi).

Quanto è avvenuto negli otto mesi trascorsi dal giorno in cui le nostre truppe posero il piede sul territorio albanese, prova la verità delle nostre affermazioni circa le ragioni e i moventi dell'azione italiana. L'ordine e la pace operosa regnano in Albania, come mai vi regnarono nel corso dei secoli. E questa pace e quest'ordine non sono tenuti con la minaccia o con la forza, ma sono la conseguenza della collaborazione piena e fraterna fra il popolo italiano e quello albanese sulla base di una parità di doveri e di diritti.

(Vivissimi, generali applausi).

Le ricchezze che la terra di Albania teneva racchiuse nel suo grembo, sono messe in valore dal lavoro comune; le terre sono bonificate; le strade vengono aperte; le città si sviluppano e si adeguano alle nuove necessità del Paese. Le Forze Armate – costituite dalla fusione delle divisioni italiane che operarono lo sbarco e dell'esercito albanese – tutelano le frontiere dell'Albania, che sono per il popolo italiano altrettanto sacre di quelle della Patria, dal giorno in cui la Corona di Scanderbeg fu cinta dal Re Imperatore. (La Camera in piedi acclama lungamente).

L'unione dell'Albania all'Italia non rappresentava, come sin da allora affermammo, una minaccia per nessun popolo. Ma anche di questo evento ci si valse per inasprire la violenta campagna di stampa che già da tempo si conduceva in Francia, in Inghilterra e Russia contro l'Italia e la Germania. In tale occasione furono propugnati piani di attacco alle nostre frontiere, alle nostre colonie e alle nostre vie di comunicazione, piani assurdi e immaginari, ma non per questo meno imprudenti. Contemporaneamente fu annunciato, disposto e condotto un programma di accerchiamento dell'Italia e della Germania per mezzo di un nuovo sistema di alleanze e di garanzie militari.

I principî di questo sistema erano lontani. Durante il conflitto etiopico il Governo britannico aveva, di intesa con il Governo francese, tentato di stabilire nel Mediterraneo un regime di accordi di mutua assistenza, nell'eventualità di un conflitto con l'Italia. Noi avevamo vigorosamente reagito, prima provocando la decadenza degli accordi, poi portando le nostre relazioni con la Jugoslavia sopra una base di intima collaborazione e fiducia, che stabiliva nell'Adriatico un regime di comune sicurezza e di pace.

Ora il vecchio piano veniva ripreso e collegato al programma delle alleanze orientali che era perseguito per isolare ed accerchiare la Germania.

Il 31 marzo era stata annunciata a Londra l'offerta di garanzia anglo-francese alla Polonia, che doveva portare ai Trattati del 25 agosto e del 4 settembre, e sulla quale avremo occasione di tornare. L'8 aprile si iniziavano a Mosca negoziati per il Trattato Tripartito di alleanza. Il 13 aprile si annunciava a Londra e a Parigi l'offerta della garanzia inglese e francese alla Romania e alla Grecia. Successivamente il Primo Ministro britannico comunicava ai Comuni che il Governo britannico e il Governo turco erano d'accordo per la conclusione di un Trattato di mutua assistenza e per un Patto di garanzia generale della sicurezza nei Balcani. Così, giorno per giorno, venivano chiusi tutti gli anelli di quel cerchio che – nelle intenzioni dei suoi artefici – doveva completare il blocco della Germania nell'Oriente europeo e dell'Italia nel Mediterraneo e nei Balcani. Niente di più naturale che l'Italia e la Germania avessero, in questo stato di cose, uno scambio di vedute per definire e decidere gli sviluppi della comune politica. Questo scambio di vedute ebbe luogo a Milano nei giorni 6 e 7 maggio.

Il Ministro degli Affari Esteri del Reich ed io potemmo constatare che il giudizio sulla situazione dato da Roma e da Berlino era assolutamente identico, così come identiche erano le intenzioni per l'avvenire. Italia e Germania, mentre erano decise a respingere con le armi qualsiasi attacco da parte degli avversari, concordavano appieno sulla necessità di dirigere ogni sforzo al fine di preservare e consolidare la pace in Europa per un lungo periodo di tempo, necessario ad ambedue i Paesi per perfezionare l'opera di ricostruzione interna e completare la preparazione militare. La durata di questo periodo fu da noi precisata in tre anni: da parte tedesca in quattro o cinque. Non che trascorso tale tempo l'Italia e la Germania avessero in programma di turbare la pace nel mondo con propositi minacciosi o aggressivi. Al contrario: la loro collaborazione aveva lo scopo di creare una base di fondamentale importanza sulla quale sarebbe stato più facile in avvenire costruire la sicurezza e la pace europee, che avrebbero potuto essere solide e reali soltanto quando le necessità vitali dell'Italia e della Germania fossero state equamente comprese e soddisfatte. Comunque il Governo del Reich concordava con noi sulla opportunità di non sollevare alcuna questione atta a suscitare nuove polemiche prima che il lasso di tempo suddetto non fosse decorso.

(Approvazioni).

Fu su queste premesse, ed allo scopo di cristallizzare la identica volontà dell'Italia e della Germania di presentare un fronte unico contro l'accerchiamento, che a Milano fu annunciata la prossima firma di un Patto di Alleanza, firma che ebbe luogo a Berlino il 22 maggio. Come fu subito detto nelle dichiarazioni che accompagnarono la cerimonia, il Patto non costituiva una minaccia per nessuno, poiché, nel negoziarlo e nel concluderlo, il Governo fascista ed il Governo nazista avevano avuto in animo il mantenimento della pace europea, e, d'altro lato, il Patto rappresentava la regolarizzazione giuridica di quella solidarietà fra Roma e Berlino che grandiose vicende internazionali avevano a più riprese dimostrato completa e sicura. Il Patto, che contiene oltre alla clausola di assistenza, anche quella della consultazione e dell'intesa, portava i rapporti fra l'Italia e la Germania sul medesimo piano su cui da tempo si trovavano i rapporti tra la Francia e la Gran Bretagna. Non dunque all'Italia e alla Germania si deve far risalire la responsabilità di aver spaccato l'Europa in due blocchi contrapposti, concezione politica contro la quale noi abbiamo sempre lottato perché ne avevamo riconosciuto il fatale pericolo. Sono state le democrazie a preparare, giorno per giorno, una tale situazione; e il Patto di Berlino, ben lungi dall'essere uno strumento di minaccia, fu soltanto la risposta a chi la minaccia intendeva agitare contro di noi.

(Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Ho detto che una sicura e profonda volontà di pace ci animava nello stringere il Patto di Berlino. È facile provarlo. Il discorso che il Duce pronunciò sul Campidoglio e che tracciava le nuove operose direttrici di marcia del Paese, fu subito seguito, com'è costume fascista, dai fatti. L'intensificazione dei lavori preparatori dell'Esposizione del 1942, la bonifica del latifondo siciliano, i vasti programmi di colonizzazione dell'Impero, la rapida azione di messa in valore dell'Albania, stanno a provare che l'Italia fascista intendeva dedicarsi a feconde e nobili opere, che per essere degnamente compiute richiedevano un lungo periodo di pace.

(Approvazioni).

Ed anche la Germania, tutta intenta alla sua opera di ricostruzione interna, era animata da un desiderio di pace, sulla cui sincerità nessuno ha diritto di sollevare dubbi. La stessa questione polacca, che ai tempi dei colloqui di Milano e del Patto di Berlino era ben lungi dall'aver assunto quella asprezza che a un certo momento la rese insolubile per via pacifica, doveva essere allora oggetto – secondo quanto fu più volte ripetuto dagli uomini responsabili del Reich – di negoziati diplomatici.

Quali erano state le cause di questa improvvisa e per molta gente inattesa tensione tra la Germania e la Polonia? Inutile fatica sarebbe il ricercarle in avvenimenti vicini e contingenti. Non sono stati gli incidenti del Corridoio, o gli endemici conflitti di Danzica a dar fuoco all'Europa. Bisogna risalire a tempi più lontani, a quelli stessi in cui la Polonia fu costituita in Stato indipendente, alla forma in cui fu costituita e alle ragioni per cui fu costituita proprio in tale forma. La Polonia, quale uscì dalla Conferenza della Pace e da alcune decisioni successive, doveva costituire l'ultimo anello con cui l'utopia di Versaglia intendeva imprigionare quell'insopprimibile realtà che è, nel cuore dell'Europa, il popolo tedesco.

(Vivissimi, prolungati applausi).

Ma come la concezione dell'accerchiamento della Germania è fondamentalmente sbagliata, ed è alla base medesima di tutte le crisi che hanno perturbato in questi venti anni la vita del nostro continente, così altrettanto erronea ne fu la pratica esecuzione. Per rinforzare artificiosamente i Paesi che dovevano rappresentare le sbarre della prigione che si intendeva imporre alla Germania, si gonfiarono questi Paesi a dismisura, si inflazionarono politicamente ed etnicamente senza rendersi conto che proprio ciò ne costituiva la debolezza e la stessa condanna. La Polonia fu, ad un tempo, un esempio ed una vittima di questa inflazione. Per molti anni si è sentito dire che la Polonia era un Paese giunto ormai alla soglia di divenire una grande Potenza, in considerazione soprattutto della sua entità demografica. Ma quanti, dei suoi 34 milioni di abitanti, erano in realtà polacchi? Forse venti, forse diciotto milioni.

Gli altri – e cioè il quaranta per cento della popolazione – erano tedeschi, ruteni, russi, ebrei, elementi totalmente estranei alla Nazione polacca, ed in misura tale che era follia pensare che sarebbe stato possibile incorporarli ed assorbirli.

A questa insanabile tara organica si aggiungevano altre due ragioni di debolezza: la sottrazione alla Germania, di diritto più che di fatto, di Danzica, città tedesca di tradizioni, di cultura e di sangue, e l'esistenza del Corridoio, che spezzando in due il territorio nazionale germanico era l'espressione più perfetta dell'assurdità delle decisioni di Versaglia.

(Vivissimi applausi).

Non è questa la sede né il momento di ricapitolare le vicende assai alterne delle relazioni tedesco-polacche, ma val la pena di ricordare che quel grande polacco che fu il Maresciallo Pilsudski, indicò con chiarezza la via da seguire: quella di basare la politica del Paese non su molto opinabili concezioni di incerti equilibri internazionali, bensì su quel fattore realistico, eterno e definitivo che è la geografia.

(Vive approvazioni).

Quindi, nel 1932, Trattato di non aggressione con la Russia, e nel 1934, dopo l'ascesa al potere del nazismo, Patto con la Germania, che effettivamente valse per alcuni anni a riportare su un piano di correttezza, e talvolta persino di collaborazione, le relazioni tra Berlino e Varsavia.

Con la scomparsa del Maresciallo Pilsudski, la politica della Polonia fu di nuovo caratterizzata da un susseguirsi di incertezza e di oscillazioni. La decisa guida del condottiero polacco non trovò continuazione in coloro che gli succedettero al potere e che furono fuorviati nella loro azione di governo da una visione deformata della realtà. Ansiosi di far giocare nelle vicende europee un ruolo che le capacità dello Stato avrebbero difficilmente sopportato, essi non esitarono ad assumere atteggiamenti ed a prendere iniziative tali da rendere più pericolosa la situazione del Paese. Furono i governanti polacchi, ad esempio, i più aspri avversari del Patto a Quattro e ne fecero persino oggetto dei loro sarcasmi. Un'iniziativa, che insieme all'equilibrio europeo sarebbe valsa anche ad assicurare la vita nazionale del popolo polacco, fu da loro chiamata il club des charcutiers, il circolo dei salumai, e a loro si deve, almeno in buona parte, se il Patto a Quattro fu sabotato.

Le vicende che hanno condotto all'ultima crisi sono note. Il 21 marzo il Governo germanico invitò il Governo polacco a risolvere la questione di Danzica e quella del Corridoio, e le proposte tedesche furono considerate, dagli osservatori imparziali, eque e moderate. La risposta polacca fu un sostanziale rifiuto, e gli incidenti che già da tempo avvelenavano le relazioni fra i due Paesi ebbero una nuova più violenta ripresa. Ciò non poteva destare alcuna sorpresa in chi aveva avuto agio di rendersi conto degli effetti di una pericolosa propaganda che gli elementi responsabili avevano condotto nelle masse popolari polacche nei confronti della Germania. Gli avvenimenti che in seguito si sono prodotti hanno provato su quali falsi presupposti fosse basata una tale propaganda e come all'eroismo del popolo polacco, al quale rendiamo omaggio ed al quale hanno reso omaggio gli stessi avversari, non corrispondesse né una pari capacità politica né un altrettanto pari senso di responsabilità militare da parte dei governanti.

(Approvazioni).

La decisione franco-inglese, annunciata il 31 marzo, di offrire la garanzia militare alla Polonia, irrigidì definitivamente Varsavia nell'atteggiamento assunto verso le richieste germaniche. La situazione fu, da quel giorno, pericolosamente compromessa, e ciò non poteva sfuggire al Duce, che fin dal 27 maggio, in un colloquio che ebbe con l'Ambasciatore britannico, richiamò l'attenzione del Governo di Londra sulle conseguenze che avrebbe avuto per la pace d'Europa l'affidare nelle mani del Governo polacco la pericolosa arma della garanzia incondizionata della Francia e della Gran Bretagna.

(Approvazioni).

Forte, infatti, di questa garanzia, la Polonia evitò, allorché vi sarebbero state ancora larghe possibilità d'intesa, di incamminarsi sulla via della conciliazione. Gli incidenti si moltiplicarono, la tensione divenne sempre più manifesta, il conflitto era ormai nell'aria. In questa situazione, ed allo scopo di offrire alla Germania la nostra collaborazione per ricercare una soluzione della crisi che insieme agli interessi tedeschi salvasse la pace dell'Europa, nei giorni 11, 12, e 13 agosto ebbe luogo, in seguito a nostra iniziativa, il Convegno di Salisburgo.

Per quanto, anche giudicata da Roma, la situazione apparisse ormai estremamente compromessa, pur tuttavia ritenevamo ancora utile un tentativo per evitare che la crisi si avviasse inevitabilmente ad una soluzione bellica. Pertanto, d'ordine del Duce, proposi al Governo del Reich di far conoscere pubblicamente che l'Italia e la Germania, pensose delle sorti dell'Europa, si erano trovate concordi nel giudicare che, nonostante l'estrema gravità del momento, era ancora possibile, attraverso negoziati condotti per le normali vie diplomatiche, giungere ad una soluzione soddisfacente dei problemi che turbavano così gravemente la vita europea.

(Approvazioni).

Nei lunghi colloqui che ebbi l'onore di avere col Führer e col Ministro degli Esteri mi furono ampiamente prospettate le ragioni per le quali alla Germania non era più consentito di affrontare i ritardi e i rinvii delle trattative diplomatiche condotte da un avversario che aveva dato prove di cattiva volontà nei confronti di una equa soluzione. Gli incidenti che si moltiplicavano ogni ora avevano spostato la vertenza – a giudizio del Governo del Reich – dal terreno diplomatico a quello militare. Quindi, fin dai colloqui di Salisburgo apparve chiaro che, salvo un radicale mutamento nell'atteggiamento polacco, la soluzione delle armi era la più probabile. Ma fu anche chiaramente manifesta la volontà di Hitler di contenere il conflitto nei suoi limitati termini di vertenza bilaterale fra la Germania e la Polonia, evitando in ogni modo che da questa vertenza il fuoco potesse dilagare e la crisi generalizzarsi. Da parte nostra, non mancammo fin da allora di far conoscere al Governo del Reich le ragioni – del resto ad esso già note – per le quali il Governo fascista avrebbe desiderato una soluzione pacifica della vertenza, o almeno, in mancanza di questa, una stretta localizzazione del conflitto.

A queste intenzioni si ispirò la successiva azione dell'Italia nelle travagliate settimane che intercorsero fra il Convegno di Salisburgo e l'inizio delle operazioni militari germaniche contro la Polonia. Mentre la diplomazia europea si sperdeva nella ricerca di formule che non potevano ormai arrestare lo sviluppo degli eventi, il Duce cercava di portare su un piano realistico la soluzione della vertenza.

(Approvazioni).

Il tempo delle discussioni e delle polemiche era da lunga pezza finito. Se si voleva salvare la pace, bisognava compiere un gesto che garantisse alla Germania il riconoscimento del suo buon diritto e che preparasse un'atmosfera di fiducia e di buona volontà per i negoziati successivi. Questo gesto avrebbe potuto essere la cessione di Danzica alla Germania, tanto più che questa città oramai di fatto le apparteneva e alla Polonia spettavano soltanto, più in linea teorica che pratica, alcuni diritti che avrebbero potuto comunque venire salvaguardati. Era infatti assurdo pensare, al punto in cui erano giunte le cose, dopo una lunga serie di incidenti e conflitti nei quali molto sangue era stato versato, dopo che polemiche di stampa avevano esasperato gli animi e avvelenato l'aria, dopo che la mobilitazione aveva messo di fronte ingenti masse di armati, che Hitler potesse accettare di prendere parte a una conferenza che avesse avuto come sola premessa le reiterate affermazioni di intransigenza della Polonia e dei suoi garanti. Questa fondamentale verità fu dall'Italia fatta conoscere e propugnata fin dal mio ritorno da Salisburgo, quando con uno sforzo unanime e sincero sarebbe ancora stato possibile modificare il corso degli eventi.

(Approvazioni).

Frattanto, un altro avvenimento si produsse in quei giorni: il ravvicinamento russo-tedesco. La singolare importanza della decisione presa dai Governi di Mosca e di Berlino di stringere un Patto di non aggressione fra la Germania e l'U.R.S.S., fu accentuata dal senso di sorpresa che la comunicazione suscitò nel mondo. In realtà, come è noto, da molti mesi, la Francia e la Gran Bretagna avevano tentato nei confronti della Russia una politica di stretta collaborazione, che avrebbe dovuto concludersi colla più volte annunciata firma di un Patto, che, secondo notizie di stampa, avrebbe potuto giungere fino alla collaborazione militare. Ciò appare tanto più verosimile in quanto da alcuni mesi era giunta a Mosca, dove già si trovavano esperti politici ed economici, anche una Missione Militare.

È vero che la lentezza con cui avevano proceduto i negoziati, e l'esistenza di alcuni problemi sui quali era apparsa una fondamentale diversità di punti di vista tra la Russia e le democrazie occidentali, avevano reso scettici sulla possibilità di arrivare rapidamente ad una favorevole conclusione dei negoziati che si trascinavano sino dal mese di aprile; ma pochi si attendevano un epilogo come quello che si ebbe con la conclusione del Patto russo-tedesco, tanto più che la stampa franco-britannica annunziava ogni secondo giorno l'imminente firma dell'accordo col Governo bolscevico ed i governanti di Londra e di Parigi non risparmiavano, ad ogni occasione, i loro elogi per la politica moscovita.

(Si ride).

La Russia, che stava attraversando una durissima crisi dovuta all'epurazione spietata della vecchia guardia leninista, attraverso tre memorabili processi, durante i quali furono pronunziate ed eseguite condanne a morte per decine di persone fra Capi della Rivoluzione, Marescialli dell'Esercito, Ammiragli, Ambasciatori, ecc. è stata rimessa all'onore della politica internazionale dalle grandi democrazie (Vivissimi, generali, prolungati applausi), che sono state per ben cinque mesi, dall'aprile all'agosto, a fare un'inutile anticamera a quell'inaccessibile Canossa che era il Cremlino.

(Nuovi prolungati applausi).

Se le grandi democrazie avessero ignorato la Russia, la Germania avrebbe avuto fondati motivi per fare altrettanto.

(Vivissimi applausi).

Per quanto ci riguarda direttamente, dirò che della questione era stato parlato col Governo germanico fin dai mesi di aprile e di maggio, e fin da allora si era concordato di procedere ad una politica di distensione nei confronti dell'U.R.S.S. L'obiettivo era di arrivare ad una neutralizzazione della Russia, per impedire che entrasse a far parte del sistema di accerchiamento progettato dalle grandi democrazie. Un'azione, quindi, di portata limitata, tanto più che non ci sembrava possibile raggiungere delle mète più lontane data la fondamentale posizione di ostilità sempre tenuta dalla Germania nazista nei confronti della Russia.

(Vivissime approvazioni).

A Salisburgo mi fu comunicato che i negoziati commerciali condotti a Mosca avevano proceduto molto favorevolmente sì da lasciare adito a speranze di maggiori sviluppi, ed infine la sera del 21 agosto, alle ore 22, mi fu telefonato da von Ribbentrop che il giorno 23 egli si sarebbe recato a Mosca per firmare il Patto di non aggressione fra il Reich e l'U.R.S.S.

Negli ultimi giorni di agosto la situazione divenne di ora in ora più grave: è storia troppo recente e da tutti conosciuta perché io debba ricordare qui eventi di pubblico dominio. L'Italia, per conto suo, mentre continuava a svolgere presso ambo le parti un'azione moderatrice e fin dove possibile di conciliazione, non trascurava di prendere tutte le misure di ordine militare e civile che nella grave contingenza apparivano indispensabili per tutelare la sicurezza nazionale. In pari tempo – nei contatti sempre intimamente mantenuti col Governo del Reich – veniva di comune accordo precisato l'atteggiamento che l'Italia avrebbe assunto qualora la crisi fosse sboccata in un conflitto armato. L'ultimo tentativo di composizione fu – come è noto – compiuto dal Duce il 31 agosto, benché oramai la situazione fosse aggravata al punto da rendere estremamente problematica una soluzione pacifica della vertenza. A tal fine fu fatto conoscere ai Governi inglese e francese che il Duce, qualora avesse avuto la previa certezza dell'adesione franco-britannica e della partecipazione polacca, avrebbe potuto convocare una conferenza internazionale con lo scopo di rivedere le clausole del Trattato di Versaglia, causa del sovvertimento della vita europea. Il ritardo nelle risposte, che giunsero dopo che i primi fatti d'arme avevano avuto luogo alla frontiera germano-polacca, nonché la successiva richiesta britannica di evacuazione delle forze germaniche dal territorio polacco già occupato militarmente – richiesta che per evidenti ragioni nessuno avrebbe potuto assumere la responsabilità di presentare e raccomandare al Führer – fecero fallire anche questo ultimo sforzo che il Duce aveva compiuto nella sua coraggiosa e responsabile volontà di risparmiare all'Europa una tragica prova.

(La Camera scatta in piedi fra grida ripetute di: Viva il Duce! e vibranti, lunghissime acclamazioni).

Scoppiate le ostilità tra la Germania e la Polonia, e resa di pubblica ragione la decisione franco-britannica di prestare assistenza militare alla Polonia – in virtù dei Trattati di alleanza che legavano l'Inghilterra e la Francia alla Polonia –, il Governo fascista fece conoscere attraverso il comunicato diramato dopo il Consiglio dei Ministri del 1° settembre che l'Italia non avrebbe preso iniziative militari. Questa decisione era nota al Governo tedesco, e soltanto al Governo tedesco. A nessun altro Governo era stata nei giorni precedenti comunicata. Essa precisava l'atteggiamento italiano di fronte al conflitto, atteggiamento sul quale esisteva la piena concordanza del Governo del Reich, così come è provato dal telegramma diretto da Hitler al Duce, nella mattinata del primo settembre, per ringraziarlo dell'appoggio diplomatico e politico dato dall'Italia alla Germania e per dichiarare che, considerando sufficienti le forze militari germaniche per assolvere i compiti che si presentavano, non riteneva esistere la necessità di un sostegno militare da parte dell'Italia.

La posizione assunta dall'Italia il 1° settembre è una posizione di non belligeranza, strettamente conforme all'intenzione germanica di localizzare il conflitto e rigidamente derivante dai Patti nonché dagli impegni collaterali esistenti fra l'Italia e la Germania.

(Vivissimi, prolungati applausi).

Queste – e nessun'altra, assolutamente nessun'altra – sono le ragioni della dichiarazione che l'Italia non avrebbe assunto iniziative di carattere militare. E poiché dalle immancabili fantasie malate sono state partorite le più ridicole spiegazioni sui motivi che avrebbero indotto l'Italia a sostare vigilante con le armi al piede anziché precipitarsi in un conflitto, che tutti dichiaravano di non volere e nel quale, per ora, nessuno si è effettivamente precipitato e nessuno – secondo le più recenti e ripetute dichiarazioni ufficiali – pensa di precipitarsi, almeno sul fronte terrestre, è giunto il momento di fare solenne giustizia di queste fioriture di falsi.

(Vive approvazioni).

Secondo taluni, l'Italia non avrebbe sin dal primo momento partecipato al conflitto a causa della impreparazione militare. Per quanto l'Italia fascista abbia, nel giro di brevi anni, conquistato il suo Impero, portato a termine la gloriosa impresa in Spagna, provveduto a munire i 734 chilometri di frontiera balcanica dopo l'unione con l'Albania, pur tuttavia fin dal primo settembre l'Italia era in piedi, con i suoi uomini e con le sue armi, pronta, qualora i suoi interessi ed i suoi impegni lo avessero comandato, ad affrontare qualsiasi anche durissima prova.

(Ancora una volta la Camera scatta in piedi al grido di: Duce! Duce! Vivissime caldissime acclamazioni).

Ho detto prima che l'Italia, soprattutto in conseguenza dell'ingente logorio di mezzi causato dalle due guerre combattute, aveva fatto conoscere che un periodo minimo di tre anni le era necessario per portare al livello voluto – cioè massimo – la preparazione dei suoi mezzi bellici. Il precipitare degli eventi non aveva potuto modificare questo dato di fatto. Ma da ciò nessuno ha il diritto di dedurre che l'Italia si sia trovata impreparata al momento della prova.

(Vivissime approvazioni).

Da altri si è insinuato che il popolo italiano avrebbe temuto la guerra. (Vive e generali proteste). Niente di più assurdo e di più falso: niente che possa trovare nei fatti una più disonorante smentita. (Vivissime acclamazioni). Il popolo italiano teme tanto poco la guerra, che dal 1911 ad oggi sono più gli anni di guerra e gli anni di lotta che quelli di pace (Applausi vibranti): 1911-1912 conquista della Libia; 1915-1918 Grande Guerra; 1924-1931 riconquista libica; 1935-1936 conquista etiopica; 1936-1939 partecipazione alla guerra di Spagna.

(Vivissimi applausi).

Si è infine parlato – e come questa voce avrebbe potuto mancare? – di contrasti di opinione pubblica, di opposizioni, di dissidî e di altre analoghe fandonie.

(Si ride).

Ma quando si arriverà finalmente a capire che non è con questo metro che si deve misurare il popolo italiano? (Acclamazioni prolungate). Quando ci si renderà finalmente conto che queste menzogne valgono solo a scavare più fondo il solco che separa da noi coloro che le architettano e le propagano? (Applausi vivissimi). La verità è che nell'agosto del 1939, come sempre nel passato, come sempre nel futuro, il popolo italiano non ha avuto che un cuore solo, che una fede sola, che una volontà sola (Il Presidente, i Ministri, i Consiglieri Nazionali sorgono in piedi fra entusiastiche ovazioni all'indirizzo del Duce): quella del suo Duce, ed ha sostato perché Lui ha comandato di sostare, ed avrebbe marciato e marcerà se Lui lo vorrà, quando Lui lo vorrà, come Lui lo vorrà. (Nuove ardentissime, interminabili acclamazioni al Duce). L'Italia fascista ha un solo volto e una sola anima; dal più umile cittadino alla Maestà del Re (Il Duce, il Presidente, i Ministri e i Consiglieri Nazionali si alzano acclamando lungamente il Sovrano), il Quale, mentre maturavano le decisioni politiche, né si potevano ancora conoscere quali compiti avrebbe riservato al Paese il più immediato futuro, rivendicava per Sé e per il Suo Augusto Figlio il privilegio e l'onore di servire in armi la Patria, secondo le tradizioni di gloria della Sua Casa millenaria.

(La Camera che è rimasta finora in piedi, tributa alla Dinastia una imponente manifestazione).

Altra menzogna che ha circolato e che conviene sfatare, è che all'Italia siano comunque state chieste da questa o da quella Potenza spiegazioni o assicurazioni o garanzie circa il suo atteggiamento. Niente di tutto questo è avvenuto. Nessuno ci ha fatto pressioni di sorta. Se ci fossero state fatte, avrebbero avuto da noi adeguata risposta.

(Vivissime prolungate acclamazioni).

La verità è invece che ovunque si sono compresi appieno il valore e l'importanza della posizione assunta dall'Italia, e che verso di lei, e sopratutto verso la persona del suo Duce, hanno continuato ad orientarsi, come si orientarono nelle ore angosciose della vigilie, le speranze dei popoli.

La travolgente azione militare germanica risolse nel giro di poche settimane la guerra in Polonia. Gli eventi politici si svilupparono altrettanto rapidamente: con la firma del Patto di amicizia e di frontiera del 29 settembre, il pieno accordo tra i due Paesi fu raggiunto e si stabilì tra Russia e Germania il confine comune. Allora – poiché erano ormai cessate le operazioni militari in Oriente e quelle in Occidente non avevano avuto inizio, come del resto non lo hanno praticamente avuto finora – si parlò di offensiva di pace, e con questa offensiva di pace fu messo specialmente in relazione il viaggio da me compiuto a Berlino, su invito del Governo germanico, ai primi di ottobre. Si parlò nella stampa mondiale di iniziative italiane per la pace o di incarichi che il Governo germanico avrebbe voluto affidarci per l'apertura di negoziati. Tutto ciò è arbitrario: il mio viaggio a Berlino trova la sua origine e la sua ragione, alla fine di quella che è stata la prima fase del conflitto, nel desiderio tedesco di ragguagliarci su quelli che erano stati gli sviluppi del conflitto nonché sulle intenzioni dell'azione futura. Nulla ci è stato dalla Germania richiesto, nessun passo è stato in tale occasione compiuto. La visita di Berlino rientra nel quadro dei consueti contatti che vengono mantenuti tra i due Paesi, poiché conviene ripetere, come ha recentemente confermato il Gran Consiglio, che i rapporti tra l'Italia e la Germania rimangono quelli che furono fissati dal Patto di Alleanza e dagli scambi di vedute che lo hanno accompagnato. Questo non sorprenderà nessuno e sopratutto coloro i quali hanno ascoltato il discorso del Duce agli squadristi pronunziato il 26 marzo per il Ventennale dei Fasci.

(Vivissimi applausi).

Non attraverso l'Italia, bensì direttamente, la Germania fece conoscere al mondo, finita la guerra in Polonia, che nessuna ragione la spingeva a continuare, o per meglio dire ad iniziare su vasta scala, la lotta contro le Potenze occidentali. Speranze di pace apparvero ancora una volta all'orizzonte, ma furono di breve durata. Esse svanirono subito allorché da parte delle democrazie si fecero conoscere le intenzioni e gli scopi della loro guerra. Alla Germania vincitrice della guerra in Oriente, alla Germania che in Oriente aveva realizzato un accordo di vasta portata con la Russia, che concerneva non solo la questione polacca ma modificava anche profondamente lo Statuto del Baltico, si parlava non solo di Polonia, ma anche di Cecoslovacchia e persino di Austria. Niente da fare, con queste idee: è evidente che se pure la Germania era disposta ad esaminare il problema della creazione di uno Stato nazionale polacco, non poteva nemmeno ammettere che si intentasse il processo a quella che è stata la politica del Nazismo ed a quelle che di questa politica hanno rappresentato le più concrete affermazioni. Chiunque voglia fare opera feconda di pace, deve mettersi e restare sul terreno della realtà: altrimenti non sarà la pace che verrà restituita all'Europa, bensì si inaspriranno i dissidi, e si farà divampare più violento, e forse più vasto, il conflitto. È universalmente riconosciuto che è stato proprio il realistico atteggiamento dell'Italia che ha sin qui impedito la generalizzazione del conflitto, ed è verso il nostro Paese che si polarizza l'interesse di tutti gli Stati desiderosi di salvaguardare, in una con i loro interessi, la pace del mondo. Ciò nonostante desidero precisare che nessuna iniziativa è stata presa dal Governo fascista, né, allo stato degli atti, è nostra intenzione di prendere, per definire in modo ufficiale queste nostre relazioni di collaborazione e di cordialità con gli Stati neutri. Poiché si è più volte parlato della Penisola balcanica, e poiché appunto verso quella regione si dirige la politica italiana con un interesse che trova le sue ragioni nella storia, nella geografia e nella tradizione nonché nell'essere divenuta l'Italia, con l'unione dell'Albania, anche di fatto una Potenza balcanica, aggiungerò che l'Italia, mentre riafferma il suo vivo desiderio di vedere mantenuti e consolidati l'ordine e la pace nell'Europa danubiano-balcanica, non ritiene che la costituzione di blocchi di qualsiasi specie possa essere utile né ai paesi che dovrebbero farne parte, né al fine più alto di affrettare il ristabilimento della pace. Le nostre relazioni coi Paesi balcanici non hanno bisogno di nuove regolamentazioni.

(Approvazioni).

Con la Jugoslavia esiste un Patto di non aggressione e di amicizia che esclude in ogni eventualità la guerra fra i due Paesi, patto che sancì la collaborazione adriatica e che in una quasi triennale esperienza, attraverso vicende di grandiosa portata, ha provato essere solido e vitale.

(Vivissimi, prolungati applausi).

Né altrimenti avrebbe potuto essere, poiché le intenzioni che da ambo le parti lo ispirarono erano improntate alla più schietta buona volontà e al desiderio di realizzare fra l'Italia e la Jugoslavia una pace sincera, duratura e feconda.

(Nuovi prolungati applausi).

Con la Grecia lo stabilimento di una comune frontiera terrestre, lungi dal creare, come da parte di taluni si sperava, motivo di attrito e di contrasto, è valso a chiarire i rapporti generali fra i due Paesi, che adesso si sviluppano in atmosfera di cordialità e di fiducia.

(Vivissimi, prolungati applausi).

Il recente scambio di note fra Roma e Atene ha fissato le basi medesime di questi rapporti, che sono suscettibili di successivi favorevoli sviluppi. Con la Turchia le relazioni dell'Italia sono regolate dal Patto di amicizia del 1928, che fu regolarmente rinnovato e confermato nel 1932. Tradizionalmente buone sono le relazioni italiane con la Bulgaria (Vivissimi, prolungati applausi), Paese che ha sempre avuto la nostra simpatia e del quale apprezziamo le salde virtù civili e militari, e altrettanto cordiali i rapporti tra noi e la Romania (Vivissimi, prolungati applausi), con la quale in questi ultimi tempi si sono intensificate, con ritmo particolarmente soddisfacente, le correnti di intercambio. È quasi superfluo parlare dei rapporti italo-ungheresi (Vivissime, prolungate acclamazioni): l'amicizia e la completa solidarietà che uniscono i nostri Paesi sono profondamente radicate nell'animo dei due popoli, che sanno per esperienza sicura di poter appieno contare sull'immutabile saldezza di questa amicizia sempre e soprattutto nelle ore difficili.

(Nuove generali acclamazioni all'indirizzo del Ministro d'Ungheria che, dalla tribuna diplomatica, ringrazia salutando romanamente).

È comune interesse di tutti questi Paesi conservare e assicurare il mantenimento della pace nella regione danubiano-balcanica: per questa ragione l'Italia vede con la più profonda simpatia ogni manifestazione della volontà di questi popoli di risolvere amichevolmente le questioni che esistono fra di loro, ed è pronta a dare a tal fine il suo consiglio e il suo ausilio.

Le relazioni dell'Italia con tutti i Paesi neutri sono improntate ad uno spirito di rispetto e di collaborazione: particolarmente intensi, in Europa, i rapporti con l'amica Repubblica elvetica (Vivissimi, generali applausi), e, fuori d'Europa, coi paesi dell'America Latina (Vivissimi, generali applausi), e con l'Impero nipponico (Vivissimi,generali applausi), la cui amicizia è sempre tenuta in altissimo conto dall'Italia fascista e noi sappiamo che un tale sentimento trova una identica rispondenza nel forte e nobile popolo giapponese.

(Nuovi prolungati applausi).

Camerati.

Nella lunga relazione che ho avuto l'onore di farvi, ho cercato di illustrare esaurientemente ed obbiettivamente l'azione e la posizione dell'Italia nel quadro della situazione mondiale. Questa posizione è tuttora quella che fu fissata nella comunicazione del Consiglio dei Ministri il 1° settembre, e fu solennemente confermata dal Duce nel Suo discorso alle gerarchie bolognesi e riconfermata dal Gran Consiglio. L'Italia fascista continua a seguire con spirito vigile lo sviluppo degli eventi, pronta, se ciò sarà possibile, a dare ancora una volta il suo contributo per la pacificazione del mondo, ma altrettanto decisa a tutelare con inflessibile fermezza i suoi interessi, i suoi traffici terrestri, aerei e marittimi (Vivissime, vibrantissime acclamazioni), il suo prestigio e il suo avvenire di grande Potenza.

(Nuove prolungate acclamazioni).

Questa tutela trova la garanzia più certa nella disciplina fervida e risoluta del popolo italiano, nella saldezza delle nostre armi, nella volontà e nel genio del Duce, alti e sicuri come gli stessi destini della Patria.