Sunday 4 March 2012

Discorso di Heidelberg, 18 luglio 1944

Agli ufficiali della divisione « Littorio »

di Benito Mussolini

Voglio ancora ripetervi, o camerati ufficiali, il mio compiacimento per la manovra alla quale ho assistito. Ho seguito con attenzione la manovra delle truppe nell'insieme e nei dettagli, a proposito dei quali non è inopportuno ricordare una frase di Napoleone, che di guerre, bisogna riconoscerlo, se ne intendeva: « Non ci sono dettagli; tutto nella vita militare è importante ». Anche il movimento di un soldato, che può apparire superfluo, è quello che forse gli salverà la vita.

È necessario che voi approfittiate al massimo di questa scuola, poiché avete, si può affermarlo chiaramente, dei maestri fuori classe. Bisogna quindi superare talune suscettibilità che apparirebbero tremendamente ridicole e convincersi che il popolo tedesco è popolo eminentemente militare, che prende le cose sul serio e soprattutto la cosa più seria di tutte, che è la guerra.

Per ciò che riguarda la politica, le idee devono essere estremamente precise. Soprattutto in periodo di transizione e di crisi, le parole d'ordine devono avere il timbro e la durezza dei metalli. L'8 settembre, noi abbiamo vissuto un episodio della storia che ci fa fremere di sdegno, ci fa piegare la testa. Bisogna realizzare in tutta la sua portata la gravità dell'episodio per comprendere quale sia il dovere imprescindibile del momento attuale.

È accaduta una cosa inaudita: che cioè di punto in bianco si abbandona l'alleato di ieri, di cui ancora nel bollettino si esaltava la comunità delle armi, per passare al nemico. La Marina, quella Marina che il fascismo aveva costruita tutta, dalle grandi corazzate ai piccoli rimorchiatori, non ha sentito la suprema vergogna di consegnarsi, guidata da un mezzo ebreo come il Da Zara, alla flotta nemica nel porto di Malta.

Di fronte a questo spettacolo di rovine, il compito di ricostruzione non è semplice. Le difficoltà hanno qualche volta caratteri eccezionali. Tuttavia, giorno per giorno, queste difficoltà sono affrontate, e in terra germanica risorgono le prime divisioni dell'Esercito italiano, e ai reggimenti che le compongono vengono consegnate le bandiere della Repubblica Sociale Italiana.

Repubblica non solo perché per tradizione l'Italia, compreso il Piemonte, è più repubblicana che monarchica, ma anche perché improvvisamente ci siamo trovati dinanzi ad una monarchia che si è disonorata con la capitolazione, davanti ad un re che, nel tentativo inutile e criminale di salvare la propria personale corona, è passato puramente e semplicemente al nemico. Quando questo accade, sistemi ed uomini sono definitivamente liquidati.

Perché Repubblica Sociale? Per una ragione evidente: abbiamo un campionario di repubbliche dinanzi a noi, nel mondo moderno. Io spero che nessuno di voi voglia istituire in Italia una repubblica plutocratica tipo Roosevelt, o realizzarne una comunista tipo Stalin. Penso che meno ancora voi vogliate una repubblica arciparlamentare, fradicia di giudaismo e di massoneria, come quella francese; e nemmeno una repubblica cantonizzata come quella svizzera; e non parliamo inoltre delle repubbliche d'oltre Oceano, dove i termini di comando e di obbedienza paiono precari ad ogni volger di stagione. È chiaro quindi che la Repubblica Sociale Italiana è fascista, non può essere che fascista e le sue istituzioni non possono essere che ispirate alla dottrina del fascismo ed ai suoi insegnamenti.

Coloro che vogliono vivere nell'equivoco e credono di mimetizzarsi fanno un calcolo inutile e vile. Molti dei traditori di ieri furono puniti ed altri lo saranno.

Dall'8 settembre in poi le sofferenze alle quali il popolo italiano è stato sottoposto possono dirsi inaudite. Ma le hanno meritate coloro i quali il 25 luglio si abbandonarono all'orgia di distruzione dei nostri simboli, credendo di distruggere ciò che non può essere distrutto: le opere e lo spirito. Meritate le hanno coloro che, dopo l'8 settembre, per un fenomeno di quasi incredibile incoscienza, hanno suonato le campane a stormo, improvvisato cortei, accesi i fuochi di gioia sulle montagne, mentre quella era e doveva essere una giornata di profondissimo lutto nazionale.

Così doveva essere accolto un falso armistizio con clausole tanto schiaccianti e draconiane che ancor oggi, dopo dieci mesi, non si ha il coraggio di renderle di pubblica ragione.

Ora bisogna raccogliere violentemente tutte le forze rimaste intatte nel nostro spirito e bisogna dire: in queste condizioni non è più importante vivere. In queste condizioni importa una cosa sola: combattere. Chi non combatte oggi, si illude di vivere. Chi non combatte oggi, è un uomo già moralmente morto o che merita di esserlo.

Camerati!

Il ricordo di questo mio incontro io penso che rimarrà a lungo nei nostri cuori. Ci rivedremo in Italia, quando avrete finalmente la gioia di far fuoco sui nemici che bivaccano all'ombra dei nostri monumenti secolari ed universali.

Così riprenderemo la battaglia per tornare ad essere un popolo. Perché l'Italia si trova di fronte sempre a questo tremendo dilemma: o è grande o non è.

Le armi, o camerati, vi sono state date perché i nostri ideali diventino realtà.

(Le parole del Duce hanno entusiasmato e commosso. Gli ufficiali si stringono intorno a lui e gli gridano la loro riconoscenza, la loro dedizione, la loro fede incandescente nella rinascita della patria).