Saturday 3 March 2012

Discorso di Roma, 11 marzo 1923

Alla nuova sede dei mutilati

di Benito Mussolini

Miei cari commilitoni!le vostre accoglienze fraterne, e soprattutto per i discorsi che ho ascoltati in questo momento, quello dell'avo. Romano così vibrante e quello meraviglioso come sempre del vostro grande Delcroix. Sono venuto qui non soltanto come capo del Governo, come Presidente del Consiglio: sono venuto qui soprattutto come vostro compagno ditrincea e di sacrificio. Quando io sono dinanzi a voi mi riconosco in voi e rivivo quelle che sono certamente le pagine della mia vita alle quali tengo di più: le pagine della trincea, quando ho potuto vedere col mio occhio il travaglio sanguinoso della stirpe italiana, constatare lo spirito di devozione, vedere come sbocciava dai suoisedimenti, che parevano millenari e perduti, il fiore stupendo della nostra magnifica storia. Ci riconosciamo tutti.Ognuno di noi è certamente stato infangato da quella terribile terra rossa del Carso, ognuno di noi ha sofferto i geli ed i venti delle altitudini alpine, ognuno di noi ha vissuto in dimestichezza quotidiana colla vita e la morte. Vi ammiro, o miei commilitoni, e vi rispetto. Intendo di aiutarvi fraternamente: quando avete temuto che si portasse ferita o diminuzione ai vostri imprescrittibili diritti, ho dichiarato che i diritti del sangue e del sacrificio non potevano essere toccati; voi avete visto che la mia parola è stata mantenuta. Sarebbe enorme colpire coloro che hanno fatto la grandezza della Patria, mentre molti lestofanti e filibustieri sono ancora a piede libero; ma non è detto che vi resteranno per molto tempo ancora. Io considero icombattenti, i mutilati, le famiglie dei caduti, come l'aristocrazia grande, pura e intangibile della nuova Italia. Questa è la bussola che mi guida nella dura e difficile navigazione.Sono sicuro che nessuno di voi mi invidia per il posto che occupo. Voi sentite che governare una nazione, reggere il destino di quaranta milioni di uomini, avviare la Nazione verso periodi di libertà, di giustizia, di prosperità e di grandezza è impresa ardua, che fa tremare le vene e i polsi. Ma mi considero al mio tavolo di capo di Governo come quando sullo Javorcek o a quota 144 ero comandato di vedetta o di pattuglia. Obbedivo come obbedisco oggialla coscienza della Nazione, in quest'opera assidua, aspra e quotidiana, nella quale si assommano problemi che i Governi di prima non hanno mai osato di affrontare e, rinviandoli, li hanno incancreniti. In quest'opera mi è sommo conforto il pensare che non mi manca la solidarietà dei miei compagni di pensiero.È quasi automaticamente - per una necessità profonda - che, superando la volontà più o meno meschina degli uomini, si è determinata in Italia una netta unione di forze e di spiriti. Da una parte la vecchia Italia, che si attarda ancora a bamboleggiare formule, che rimpiange certi miti che la realtà storica si è incaricata essa stessa di frantumare irreparabilmente obliqui personaggi che hanno sempre una lagrima per il loro passato o per iloro sedicenti mali, politicanti che quando danno qualche scarso segno di vita, mi fanno l'impressione di larve che escano dai cimiteri della preistoria. Dall'altra parte tutte le forze della gioventù, tutte le forze sane e pure della Patria, tutti i combattenti, i milioni e milioni di cittadini che hanno fatto la guerra, che hanno oggi l'orgoglio di averla sostenuta sino alla vittoria, che sentono di appartenere a una nuova generazione, che vogliono difendere quello che nobilmente il vostro eroico Delcroix chiamava la santità del sacrificio.Sebbene tutte queste generazioni si orientino necessariamenteverso il Governo Nazionale e in ciò è il sigillo di nobiltà e di forza del mio Governo, io non vi nascondo che è un Governo duro, perché i cómpiti sono duri e io non sono un medico eccessivamente pietoso. Vedo la realtà come si presenta sotto ai miei occhi, non posso ingannare me stesso e i miei cittadini dipingendo una realtà fittizia e artificiosa. La realtà è questa: che la Nazione ha bisogno di disciplina, di calma. La realtà è questa: che i vecchi partiti non hanno più parole e più vangelo da predicare allemoltitudini; quanto di giusto, di pratico, di effettuabile, levecchie dottrine contenevano è applicato coraggiosamentedal mio Governo.Quel postulato delle otto ore di lavoro, pel quale si sono versati fiumi d'inchiostro e di chiacchiere, è oggi legge dello Stato fascista. È assai difficile quindi voler dipingere questo come un Governo di biechi reazionari, di gente che vuole comprimere i diritti del popolo che lavora. Tutto ciò, anche prima di essere delittuoso, è ridicolo. È perfettamente comprensibile, logico e umano, che io colpisca coloro che mentiscono sapendo di mentire. Come del resto io potrei essere un nemico del popolo che lavora, dico che _« lavora » ? Il Delcroix ha ricordato le mie origini, delle quali ho l'orgoglio. Essere contro il popolo, che ha fatto la guerra? Quando dico « popolo » intendo comprendere anche quella media borghesia che è l'ossatura salda della Nazione. Questa piccola borghesia che ha dato i plotonisti, gli aspiranti, i meravigliosi giovanetti, che ho visto combattere nelle trincee e sfidareintrepidamente il pericolo e la morte, questo popolo è il saledella Patria? Questo popolo cifra i suoi membri a milioni.Non sarebbe stolto e rovinoso un Governo, che non tenesse conto delle giuste aspirazioni di questo popolo? Come si può pensare di costituire la grandezza della Patria, se si ignora questa parte preponderante ed integrante, che forma la Nazione stessa?Ma, detto questo, io distinguo; e quando vedo i falsi pastori, che vogliono ancora mistificare il popolo, che vogliono ancora fargli credere ad utopie, nelle quali essi non credono più, quando questi mestieranti della dottrina, questi pseudoscientifici della teoria pretendono avere la libertà di sabotare la Nazione, io dichiaro che questa libertà non l'avranno mai.Il Governo fascista non imita i vecchi Governi, i quali avevano sempre paura di essere un poco coraggiosi. Il Governo che dirigo, miei cari commilitoni, non dovete credere che sia un Governo venuto e nato nell'ottobre del 1922. Vista a cinque mesi di distanza, la Marcia su Roma ha già l'aspetto mirabile, grandioso della leggenda. Molti di voi, certamente, erano in quelle colonne, che marciavano suRoma. Roma testimonianza e documento imperituro della vitalità della nostra razza. Ed a Roma queste colonne confluivano con un sentimento che io conoscevo, con un sentimento assai affine a quello che dovevano avere certi popoli di altre epoche, che si precipitavano verso la città eterna. Un sentimento di rancore e di infinito amore; di rancore, perché vedevano in Roma non soltanto la Roma dei secoli, ma una Roma di abbietti politicanti, di burocrati tardigradi, di mestieranti e di affaristi. Accanto tuttavia a questo sdegno, era anche l'infinito amore per questa Città dalle origini lontane emisteriose, uno dei centri dello spirito in tutte le epoche della storia, popolata di quattro milioni di uomini al tempo di Augusto, da poche migliaia nei tempi oscuri del medioevo, mentre oggi si avvia a diventare il cuore potentissimo della nostra vita mediterranea.Abbiamo afferrato il Governo in quella occasione, ma il fiume che sboccò a Roma a travolgere con la sua irresistibile fiumana i ripari, nei quali si intorpidiva una classe di politicanti miserabili, è un fiume dalle origini più lontane. Le origini rimontano al maggio del 1915: le sue origini rimontano a Vittorio Veneto. Tutte queste forze, tutti questi torrenti della nostra vita nazionale, a un dato momento, si sono ingrossati di tutte le fedi, di tutte le speranze, di tutte le passioni, di tutti i sacrifici ed hanno conquistato Roma e l'Italia. Oggi noi la teniamo saldamente e la terremo a qualunque costo contro chiunque.Ci sono dei problemi che devono essere risolti, abbiamo sulle braccia un'eredità pesante da liquidare. In fondo, tutto ciò che il Governo fa oggi è lavoro arretrato, è spazzamento di tutte le scorie e detriti, che ingombravano la coscienza nazionale. Poi verrà il lavoro gioioso, grande e solenne della ricostruzione. Non falliremo al nostro cómpito, se io e gli artieri che dividono le mie fatiche e la mia responsabilità saremo sostenuti dalla vostra solidarietà, se sentiremo di non essere soli, se avremo in voi dei fiduciosi collaboratori. La Patria conta ancora su di voi ed io, capo del Governo, sento che questa speranza non è fallace, sento che, se domani fosse necessario, tutte le vostre schiere si stringerebbero ancora, tutti i vostri spiriti si esalterebbero ancora e basterebbequesto per gridare, con spirito di assoluta passione, una sola parola: Italia!