Wednesday 7 March 2012

Il « dato » irrefutabile

(Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 31 luglio 1935)

di Benito Mussolini

Alcuni motivi polemici, che in ritorsione ad altri della stampa straniera, sono stati illustrati dalla stampa italiana a proposito del conflitto italo-etiopico, sono motivi di ordine marginale sui quali non è necessario insistere oltre.

Che in Etiopia esista la schiavitù — cioè la compra-vendita degli uomini — è ammesso dallo stesso negus. Che tale commercio asswna forme atroci, è documentato in mille inchieste, soprattutto di fonte inglese, l'ultima delle quali risale al 1932. Che l'Etiopia, entrando a Ginevra, avesse solennemente promesso di abolire la schiavitù, è anche vero, e che non ne abbia fatto nulla, è riconosciuto pacificamente dovunque, Londra compresa. Ciò stabilito bisogna subito aggiungere che non è per abolire il commercio degli schiavi che l'Italia si è preparata e si prepara militarmente nelle sue colonie dell'Africa Orientale. L'abolizione della schiavitù non è un obiettivo, ma sarà una logica conseguenza della nostra politica. Insistendo su questa nota c'è il caso di sentirsi replicare dagli abissini ad honorem d'Europa, che la schiavitù è fenomeno legato a una determinata fase della evoluzione di un popolo, che l'antichità classica conobbe la schiavitù, giustificata, fra gli altri, da Aristotele, praticata, fra gli altri, da Catone il censore; e che anche nell'Europa contemporanea ci sono gli schiavi, e sarebbero i proletari, i quali, secondo la frase del barbuto profeta di Treviri, non avrebbero nulla da perdere, all'infuori delle loro catene. (Ciò si riferisce, naturalmente, a quelli del 1848).

Altro motivo non essenziale: quello della razza. Anzi tutto gli etiopi ancora non si considerano negri, ma semiti. In secondo luogo ci sono decine di migliaia di negri, che militano sotto le nostre bandiere e si sono sempre magnificamente battuti per noi e con noi. Così dicasi degli arabi, tra i quali si sta organizzando la « gioventù araba del Littorio ». Noi fascisti riconosciamo l'esistenza delle razze, le loro differenze e la loro gerarchia, ma non intendiamo di presentarci al mondo come vessilliferi della razza bianca in antitesi con le altre razze, non intendiamo di farci banditori di esclusivismi e di odi razziali quando dobbiamo constatare che le peggiori opposizioni ci vengono non dai negri di Harlem — i quali potrebbero utilmente occuparsi dei loro colleghi quotidianamente e cristianamente linciati negli Stati Uniti — ma da molti autentici bianchi di Europa e d'America.

Parimenti il tema della « civiltà » non va eccessivamente sfruttato. Anche la civiltà nel suo duplice aspetto morale e materiale non è un obiettivo, ma sarà una conseguenza della nostra politica.

Gli argomenti essenziali, assolutamente irrefutabili e tali da chiudere qualsiasi tentativo di polemica sono due: i bisogni vitali del popolo italiano e la sua sicurezza militare nell'Affrica Orientale. Sul primo argomento lo stesso Ministro degli Affari Esteri britannico ha fatto delle ammissioni esplicite, il secondo argomento è il decisivo.

Nel 1928 l'Italia firma un trattato di amicizia col Governo etiopico. Quasi immediatamente dopo, al riparo di questo trattato l'Etiopia inizia la riorganizzazione del suo esercito. A chi lo affida per riorganizzarlo? Forse a ufficiali di quell'Italia con la quale aveva firmato un trattato di amicizia? Affatto. Il capo riorganizzatore è un generale svedese, gli ufficiali istruttori belgi. Tutto l'orientamento della preparazione è a carattere anti-italiano. Nel 1931, una mobilitazione regionale nell'Ogaden, concentra improvvisamente sulle frontiere italiane decine di migliaia di etiopi: lo stesso era accaduto nel 1911 e durante la guerra mondiale. È di un'evidenza luminosa che la situazione strategica delle nostre Colonie, precaria in tempi normali, diventerebbe insostenibile in tempi eccezionali, qualora l'Italia fosse impegnata sullo scacchiere europeo. La soluzione del problema non può essere che totalitaria. Un'espansione che non sia presidiata dalle armi, un protettorato che non sia accompagnato da misure militari, può concludersi come quello di Uccialli: d'altra parte, finché non sia eliminata l'incombente minaccia militare abissina, ogni sicurezza delle nostre Colonie sarà aleatoria. Dei limiti di questa sicurezza, sola giudice è l'Italia: in casi pericolosi noi non avremmo aiuti di sorta da nessuno; anzi, è probabilissimo il contrario.

Posto in termini militari, il problema italo-abissino è di una immediata semplicità, di una logica assoluta: posto in termini militari, il problema non ammette — con Ginevra, senza Ginevra, contro Ginevra — che una soluzione.

Tutti gli altri motivi polemici sono importanti, ma non decisivi: è in questo dato di fatto che la politica dell'Italia fascista trova la sua suprema; giustificazione storica ed umana.