Wednesday, 7 March 2012

Preludio al « Machiavelli »

(Pubblicato in « Gerarchia », 30 aprile 1924)

di Benito Mussolini

Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola — dalle legioni nere di Imola — il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli « Cum parole non si mantengono li Stati ».

Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo « Commento dell'anno 1924, al Principe di Machiavelli », al libro che io vorrei chiamare: « Vademecum per l'uomo di governo ». Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi e nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.

Quella che mi onoro di leggervi non è quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi.

Non dirò nulla di nuovo.

La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe è circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduto, o non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli è viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.

Se la politica è l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, è l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo « uomini » dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito « sotto la specie della eternità »?

Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, è l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli come verrò fra poco documentando — nei loro aspetti più negativi e mortificanti.

Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime:
« Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati volubili simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e si rivoltano... E quel principe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore è tenuto da uno vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai ».
Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue:
« Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione è pronta; perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' può bene riavere il suo podere ».
E al capitolo III dei Discorsi:
« Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine ».
Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli.

È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne è passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe è lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato.

Le rivoluzioni dei secoli XVII e XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo. C'è una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna.

I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione.

Vi imaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia — che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra forza organizzata dello Staio e il frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio oramai famoso articolo « Forza e consenso » Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32:
« Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati ».