Sunday 4 March 2012

Discorso di Bogliaco, 23 marzo 1945

Nel ventiseiesimo annuale della fondazione dei Fasci

di Benito Mussolini

Quanti erano gli italiani che il 23 marzo 1919, raccogliendo il mio appello, si riunirono a Milano nella piazza San Sepolcro?

Un centinaio. Chi erano?

I superstiti dell'interventismo, i ritornati dalle trincee, coloro che avevano sempre combattuto e non avevano mai disperato. Non c'erano a quell'assemblea quelli che io bollai come i « maddaleni pentiti », qualche cosa di simigliante agli alibisti dell'epoca nella quale viviamo. Da quali classi venivano? Da tutte. Erano poeti, artisti, professionisti, studenti, impiegati, operai.

Quale programma? Programma audace. Un programma che tendeva a risolvere i problemi più urgenti, più immediati della vita nazionale, e apriva ampi varchi per tutte le possibilità dell'avvenire.

Chi avevamo di fronte? Gli stessi di oggi. I venduti al nemico, i predicatori di una pace ad ogni costo, i vessilliferi della rinuncia, gli speculatori sul sangue e sul sudore del popolo. Parevano i dominatori dell'epoca ed avevano inaugurato la corsa al più rosso. Anche allora folle di illusi e di mentecatti guardavano a Mosca, come se da Mosca dovessero venire il verbo e la felicità per il genere umano. Eravamo pochi, ma decisi. E quantunque gli altri vantassero di avere dietro di sé delle masse compatte, noi li affrontammo. con estrema energia e ci convincemmo che, fatta astrazione di qualche decina di criminali autentici, dietro ai capi non c'era che una massa esaltata ma conservatrice. Li affrontammo nelle piazze, li andammo a cercare nei loro rifugi e cominciò la battaglia che dura tutt'oggi.

La situazione di allora aveva degli strani aspetti, simiglianti all'attuale. Anche allora un Governo di confusionari e di rinunciatari, un Governo che il Poeta bollò con frasi roventissime, che si incidevano per sempre nel più vivo delle carni.

Tre anni di battaglie, durante le quali fu sparso preziosissimo sangue, il miglior sangue della migliore gioventù italiana. Caddero a migliaia i nostri martiri. Poi, nell'ottobre del 1927, occupammo piazze e strade d'Italia, entrammo a Roma ed iniziammo la nuova vita del regime, nato dalla rivoluzione delle camicie nere.

Quello che abbiamo fatto in vent'anni è consegnato alla storia, è consegnato alle pietre e più ancora agli spiriti. Nessuna forza umana riuscirà a cancellare quella che è la documentazione della nostra indomabile volontà di creazione e di ricostruzione.

Oggi la storia ci afferra per la gola e ci pone dinanzi a nuovi compiti, ad una situazione durissima, provocata da un tradimento miserando, ontoso, per cui bisogna chiamate a raccolta tutte le sane energie della nazione, per spingerle di nuovo accanto ai camerati germanici, sulla linea del fuoco, dove solo si può riscattare l'onore del popolo italiano. (Alte, prolungate acclamazioni).

Io richiamo la vostra attenzione su questa immagine plastica, che ci darà l'idea di quello che eravamo e di quello che siamo. Cinque anni fa il tricolore dell'Italia era issato sul « ghebbi » del Negus di Addis Abeba. Oggi, dopo cinque anni, i traditori hanno portato i negri nella terra di Toscana, di quella Toscana che ha dato al mondo una fioritura di geni come nessun altro popolo della terra diede mai.

Io so, io sento, e dovrei dubitare della vostra qualità di italiani, di fascisti, di legionari se ciò non fosse, io sento che questa immagine, questa constatazione brucia ai vostri cuori, tende le vostre volontà e vi fa dire che, piuttosto che durare in una situazione come questa, vale mille volte meglio morire.

(Un solo urlo risponde: « Sì! »).

E morire in combattimento, come tutti gli uomini liberi e degni di questo nome preferiscono di morire. No, l'uomo libero, l'uomo forte non desidera di finire i suoi giorni, di trascinarli in un letto, inchiodato da una delle troppe malattie che tormentano il genere umano. I veri soldati, i veri guerrieri desiderano di misurarsi col nemico, di guardarlo, se possibile, nel bianco degli occhi, abbatterlo e convincerlo che vi sono degli italiani, moltissimi italiani, per fortuna, i quali non accetteranno mai e poi mai l'onta e il disonore del tradimento, ma faranno di tutto, in ogni istante della loro vita, in ogni movimento dei loro pensieri, per capovolgere la situazione, per inaugurare il nuovo capitolo della storia, che ci deve riportare là dove eravamo e dove vogliamo tornare.

(Altissime acclamazioni).

Per questo occorre tendere tutte le energie, convogliare tutti gli sforzi, armonizzare tutte le volontà. E fare in ogni istante il proprio dovere. Non compiere il proprio dovere da rimorchiati. Fare il proprio dovere da uomini consapevoli, obbedire non perché ciò sta scritto nel regolamento di disciplina, ma perché ciò corrisponde a un intimo convincimento della coscienza, a un imperativo categorico della vostra fede. Questa è l'obbedienza dei veri soldati, dei veri combattenti, degli uomini liberi.

E voi soprattutto, che costituite la mia legione, dovete compiere il vostro dovere in una misura che io non esito a reclamare perfetta. La vostra condotta deve essere irreprensibile. Dovete essere di esempio a tutti nell'adempimento del vostro dovere quotidiano e, domani, nell'ora della battaglia. Forse è quest'ora che voi soprattutto desiderate. Uscire dai binari di quella che è la necessaria normalità della vita per vivere le ore che non si dimenticano più. Convincetevi che un uomo il quale evita scrupolosamente tutte le guerre, sarà tutto fuori che un uomo. Perché solo la battaglia completa l'uomo, solo chi rischia la propria vita, solo chi non teme di dare il proprio sangue, quegli è uomo. Se così non fa, è uno schiavo che merita le catene. Vi prego di riflettere a quello che vi ho detto e di preparare i vostri muscoli, le vostre volontà e la vostra fede per l'ora della riscossa.

(Il discorso, di frequente interrotto da applausi e da segni di vivo consenso, è stato da ultimo salutato da un'ardente manifestazione di entusiasmo, mentre gli uomini in armi levavano il alto le insegne).