Saturday, 3 March 2012

Discorso di Roma, 21 aprile 1924

Per la cittadinanza di Roma

di Benito Mussolini

Voi mi rendete oggi l’onore più alto, forse, che possa capitare a un uomo e a un italiano e non vi stupirà se vi dico che si avvicendano nel mio spirito sensi di trepidazione e di orgoglio e che la commozione turba il mio cuore per triplice via. Mi è consentito di dire “civis romanus sum”, oggi, annuale di Roma, oggi, festa del lavoro italiano e su questo colle che, dopo il Golgota, è certamente da secoli il più sacro alle genti del mondo civile.

Ond'è che io mi domando: « Merito io questo riconoscimento solenne? sono degno di essere annoverato tra i figli della città incomparabile? ». In verità, avrei preferito che Roma madre mi avesse accolto cittadino del suo popolo, a opera finita. Che cosa ho fatto per l'Italia? Poco. Per Roma? Nulla o quasi. L'opera è appena incominciata. Mi premiate in anticipo. Ma se questo gesto eccezionale e inaspettato intende essere la vostra testimonianza del mio amore grandissimo per Roma, allora io lo accolgo con coscienza grata e tranquilla.

Sino dai giorni della mia lontana giovinezza, Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita, é dell'amore di Roma ho sognato e sofferto e di Roma ho sentito tutte le nostalgie. Roma! e la semplice parola aveva un rimbombo di tuono nella mia anima. Più tardi, quando potei peregrinare tra le viventi reliquie del Foro e lungo la Via Appia o presso i grandi templi, sovente mi accadde di meditare sul mistero di Roma, sul mistero della continuità di Roma. Mistero è l'origine. La cosiddetta critica storica può industriarsi a sfrondare la leggenda, ma sempre una zona d'ombra rimane, dove la leggenda - insostituibile dal freddo e spesso assurdo ragionamento - torna superbamente a fiorire. La erifica non può dirci per quali doti segrete, o per quale disegno di una intelligenza suprema, un piccolo popolo di contadini e di pastori poté grado a grado assurgere a potenza imperiale e tramutare, nel corso di pochi secoli, l'oscuro villaggio di capanne sulle rive del Tevere in una città gigantesca che contava i suoi cittadini a milioni e dominava il mondo con le sue leggi.

Altro elemento di mistero, nella storia di Roma, la tragedia di Cristo, che a Roma trova la sua consacrazione, nuovamente universale e imperiale. Crolla l'impero, i barbari valicano le Alpi, passano e ripassano lungo la penisola devastandola. Roma ridiventa un villaggio di appena diciassettemila anime che si aggruppano disperatamente ai ruderi, che tengono vivo il nome, poiché il nome di Roma è immortale: la nave che fu lanciata « ver l'imperio del mondo », emerse ancora sui flutti delle età oscure, attendendo le luminose ore che verranno: ecco Dante e la Rinascenza, ecco Roma giganteggiare ancora e sempre nello spirito dei popoli. L'Italia è ancora per secoli divisa, ma Roma è la Capitale predestinata: è l'unica città d'Italia e del mondo che abbia una storia universale.

Nel Risorgimento si grida: « Roma o Morte! » È il grido che sale dalle profondità della stirpe, che in Roma e solo in Roma si riconosce: è il grido che sarà ripreso, dopo Vittorio Veneto, dalle generazioni delle trincee, che spezzano definitivamente ogni inciampo, disperdono ogni equivoco, frantumano i residui orgogli di un localismo, retaggio di età ingrate, e innalzano a Roma un altare splendente nel cuore di tutto un popolo e del Natale di Roma fanno il Natale della Nazione, che lavora e cammina.

Ecco che il Fascismo si trova di fronte al problema della Capitale. I problemi di Roma, la Roma di questo XX secolo, mi piace dividerli in due categorie: i problemi della necessità e i problemi della grandezza. Non si possono affrontare questi ultimi, se i primi non siano stati risoluti. I problemi della necessità sgorgano dallo sviluppo di Roma e si racchiudono in questo binomio: case e comunicazioni. I problemi della grandezza sono d'altra specie: bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica, ma accanto alla antica e alla medioevale, bisogna creare la monumentale Roma del XX secolo. Roma non può, non deve essere soltanto una città moderna, nel senso ormai banale della parola; dev'essere una città degna della sua gloria e questa gloria deve rinnovare incessantemente per tramandarla, come retaggio dell'età fascista, alle generazioni che verranno.

Non è questo il momento per scendere a dettagli. I buoni artieri non mancano, e voi siete il più alacre, signor Senatore, né, fra qualche tempo, mancheranno gli ingenti mezzi necessari. Basti il dirvi che il problema di Roma sarà affrontato e risolto.

Già la visione di questa Roma futura sorride al mio spirito. Vive già come una certezza. Occorre, perciò, la virtù tipicamente romana: la dura silenziosa tenacia. Questa virtù deve diventare sacro patrimonio di tutto il popolo italiano.

E’ questo l'auspicio che traggo oggi, annuale del giorno in cui Romolo tracciò, col solco nella terra e col comandamento dei compagni della sua tribù, il segno del primo infallibile destino.

Salve, Dea Roma! Salve per quei che furono, sono e saranno i tuoi figli pronti a soffrire e a morire, per la tua potenza e per la tua gloria!