Ai camerati di Tripoli
di Benito Mussolini
Camerati di Tripoli!
Risale all'aprile del 1926 la mia prima visita alla vostra città e a questa terra. Undici anni sono passati, ricchi di eventi, carichi di destino, fulgidi di gloria.
Oggi la Libia è completamente occupata e il tricolore della Patria vi sventola solenne e rispettato, dalle sponde del Mediterraneo alle profondità desertiche di Cufra. Ma, quello che più conta, la Libia è oggi completamente pacificata.
E le spontanee, entusiastiche dimostrazioni tributate all'Italia fascista dalle popolazioni musulmane in questi giorni, ne costituiscono la irrefutabile definitiva prova.
Le direttive di Roma furono saggiamente e metodicamente applicate da tutti i Governatori e, in quest'ultimo periodo, dall'attività instancabile, geniale e tenace del Governatore Maresciallo e Quadrunviro Balbo.
Le popolazioni musulmane sanno che, col tricolore italiano, avranno pace e benessere e che le loro usanze e, soprattutto, le loro religiose credenze, saranno scrupolosamente rispettate.
Nel 1926 io venni qui per dare quello che fu chiamato, e come tale rimase nelle cronache, uno scossone alla Colonia. I risultati sono visibili agli occhi di chiunque: le città si sono trasformate e abbellite e nelle campagne i forti rurali italiani svegliano, col vomero temprato, una terra che dormiva da secoli. Corona, questa opera di trasformazione, la Litoranea libica, impresa gigantesca, che soltanto ingegneri italiani e operai italiani potevano portare, come hanno portato, a compimento, in termine di tempo rapidissimo.
Questa strada, che attraversa la Sirtica che non fu mai percorsa da ruota di uomo, è un titolo di orgoglio per noi, ma potrebbe e dovrebbe esserlo anche per quegli europei che siano degni di questo, che, almeno una volta, fu un grande nome.
Gli ingegneri e gli operai italiani hanno lavorato durante alcune stagioni in condizioni di clima infinitamente meno leggiadre di quelle abituali sul Lago Lemano, dove la più numerosa e la più potente delle coalizioni ha tentato invano di soffocare l'Italia.
Se c'è qualcuno che pensa che tutto ciò sia dimenticato, (un urlo levasi dalla folla: « No! No! »), si disinganni: Io no!
Ed ora lasciate che io deplori nella forma più esplicita la campagna di allarmismo che, nei paesi soprattutto della cosiddetta democrazia più o meno grande, è stata inscenata a proposito del mio viaggio in Libia.
Questo continuo allarmismo nevropatico, questa seminagione di panico e di sospetto, non serve certamente alla causa della pace, perché turba profondamente l'atmosfera fra i popoli.
Questo viaggio è imperialista nel senso che a questa parola hanno sempre dato, danno e daranno i popoli virili. Ma non ha disegni reconditi e mire aggressive contro chicchessia. Entro il Mediterraneo e fuori noi desideriamo di vivere in pace con tutti e offriamo la nostra collaborazione a coloro che manifestino un'identica volontà.
Ci armiamo sul mare, nel cielo e sulla terra, perché questo è il nostro imperioso dovere di fronte agli armamenti altrui, ma il popolo italiano esige di essere lasciato tranquillo, perché è intento ad una lunga e dura fatica.
Soprattutto voi avete il dovere di vivere e di lavorare nel clima dell'Impero che la Rivoluzione delle Camicie Nere e gli eserciti vittoriosi hanno ridato all'Italia. Camicie Nere! Saluto al Re!