Saturday 3 March 2012

Discorso di Venezia, 4 giugno 1923

Al popolo di Venezia

di Benito Mussolini

Veramente il luogo sacro e memorabile e il discorso alato pronunciato testé dal primo magistrato della Serenissima mi consiglierebbero l'assoluto silenzio.

Ma io non vi infliggerò un discorso. La più profonda eloquenza è oggi nelle cose, nei fatti, in questa sublime e quasi leggendaria realtà, della quale siamo insieme e spettatori e protagonisti. Realtà che si esprime dalla superba parata di stamane; che si esprime dalle truppe del gloriosissimo Esercito di Vittorio Veneto che è stato dal '70 ad oggi il potente crogiolo della razza italiana; che si esprime dal passo energico e ritmico dei marinai che attendono ancora cimenti e glorie.

E si esprime ancora dalle squadre delle Camicie Nere, dalla nuova Milizia, la quale non è ormai più l'espressione di un partito, ma è realmente una creazione della coscienza nazionale, che non ammette ritorni dacché ha aperto innanzi a sé la strada luminosa dell'avvenire.

E si esprime infine dalle migliaia e migliaia di bambini il cui spettacolo poco fa mi commoveva fino alle lacrime. Sono essi la primavera della nostra stirpe, l'aurora della nostra giornata, il segno infallibile della nostra fede.

Altri popoli invidierebbero e invidiano questa Nazione proletaria, prolifica e intelligente, saggia, laboriosa, serrata in una piccola e divina penisola, troppo angusta ormai per la nostra razza.

Tutti gli italiani della mia generazione sentono l'angustia del nostro territorio, in cui tutti ci conosciamo, dalle Alpi alla Sicilia. Per cui se sogniamo talvolta di poterci espandere, ciò è espressione di una realtà storica ed immanente: un popolo che sorge ha dei diritti di fronte ai popoli che declinano. E questi diritti sono incisi a caratteri di fuoco nelle pagine del nostro destino.

Questa terra che i poeti di Roma chiamano sacra agli Dei, è certamente una delle creazioni più straordinarie dello spirito umano e della storia. Noi eravamo già grandi quando in molte parti del mondo i popoli non erano ancora nati. Avevamo agitato fiaccole luminose di meravigliose civiltà quando il mondo conosciuto era immerso nelle tenebre della barbarie.

Parve, dopo i superbi fastigi dell'Impero, che un lungo periodo di tenebre dovesse sommergere la nostra civiltà. Ma in quelle tenebre maturavano i germogli della nuova vita ed ecco, dopo l'eclisse, il Rinascimento glorioso, ecco per la seconda volta l'Italia pronunciare parole di significato universale.

Altri secoli d'eclisse dovranno passare, ma ecco di nuovo prodursi il prodigio della rinascita.

È appena un secolo, dal 1820, che l'Italia ha ripreso a camminare sulle strade segnatele dal destino.

Quanti sacrifici, quanti sogni, quanta passione, quanto calvario, quanto sangue! Dalla sintesi del secolo che abbiamo vissuto possiamo avere l'impressione direi quasi plastica di qualche cosa di soprannaturale che sorge dal profondo, grandeggia, s'impone, trionfa. Trionfa per i morti che abbiamo salutato il 24 maggio sulle pietraie carsiche, nel cimitero di Redipuglia e sul San Michele.

Tutti i popoli che hanno dovuto sostenere e vincere una grande guerra, anche gli inglesi dopo Waterloo, hanno conosciuto una crisi di depressione, di sfiducia, per il naturale rilassamento dei nervi e dei muscoli tesi nello sforzo spasmodico di combattere e vincere. Ma poi si produce il fenomeno contrario, si risente la nostalgia delle grandi giornate che si son vissute, si risente l'orgoglio dell'epopea di cento leggende, e quelli che non vi furono vorrebbero esservi stati, poiché là era il privilegio supremo della morte e della gloria.

Di questi sentimenti è intessuta la nostra opera di partito e di Governo. State sicuri, veneziani, che quest'opera sarà condotta sino alla fine.