Saturday 3 March 2012

Discorso di Napoli, 24 ottobre 1922


di Benito Mussolini

Fascisti! Cittadini!

Può darsi, anzi è quasi certo, che il mio genere di eloquenza determini in voi un senso di delusione, in voi che siete abituati alla foga immaginosa e ricca della vostra oratoria. Ma io, da quando mi sono accorto che era impossibile torcere il collo alla eloquenza, mi sono detto che era necessario ridurla alle sue linee schematiche ed essenziali.

Siamo venuti a Napoli da ogni parte d'Italia a compiere un rito di fraternità e di amore. Sono qui con noi i fratelli della sponda dalmatica tradita, ma che non intende arrendersi; sono qui i fascisti di Trieste, dell'Istria, della Venezia Tridentina, di tutta l'Italia settentrionale; sono qui anche i fascisti delle isole, della Sicilia e della Sardegna, tutti qui ad affermare serenamente, categoricamente, la nostra indistruttibile fede unitaria che intende respingere ogni più o meno larvato tentativo di autonomismo e di separatismo.

Quattro anni fa le fanterie d'Italia, maturata a grandezza in un ventennio di travaglio faticoso, le fanterie d'Italia, fra le quali erano vastamente rappresentati i figli delle vostre terre, scattavano dal Piave dopo avere battuto gli austriaci, con l'ausilio assolutamente irrisorio di altre forze, si slanciavano verso l'Isonzo; e solo la concezione assurdamente e falsamente democratica della guerra poté impedire che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero sul ring di Vienna per le vie di Budapest!

Un anno fa, a Roma, ci siamo trovati in un momento avviluppati da un'ostilità sorda e sotterranea, che traeva le sue origini dagli equivoci dalle infamie che caratterizzano l'indeterminato mondo politico della capitale. Noi non abbiamo dimenticato tutto ciò. Oggi siamo lieti che tutta Napoli, questa città che io chiamo la grande riserva di salvezza della nazione, ci accolga con un entusiasmo fresco, schietto, sincero, che fa bene al nostro cuore di uomini e di italiani; ragione per cui esigo che nessun incidente, neppure minimo, turbi la nostra adunata, poiché, oltre che delittuosa, sarebbe anche enormemente stupido: esigo che, ad adunata finita, tutti i fascisti che non sono di Napoli abbandonino in ordine perfetto la città.

L'Italia intera guarda a questo nostro convegno perché - lasciatemelo dire senza quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli - non c'è nel dopoguerra europeo e mondiale un fenomeno più interessante, più originale, più potente del fascismo italiano.

Voi certamente non potete pretendere da me quello che si costuma chiamare il grande discorso politico. Ne ho fatto uno a Udine, un altro a Cremona, un terzo a Milano. Ho quasi vergogna di parlare ancora.
Ma data la situazione straordinariamente grave in cui ci troviamo, ritengo opportuno fissare con la massima precisione i termini del problema perché siano altrettanto nettamente chiarite le singole responsabilità.

Insomma noi siamo al punto in cui la freccia si parte dall'arco, o la corda troppo tesa dell'arco si spezza!
Voi ricordate che alla Camera italiana il mio amico Lupi ed io ponemmo i termini del dilemma, che non è soltanto fascista, ma italiano: legalità o illegalità? Conquiste parlamentari o insurrezione? Attraverso quali strade il fascismo diventerà Stato? Perché noi vogliamo diventare Stato ! Perché il giorno 3 ottobre io avevo già risolto il dilemma.

Quando io chiedo le elezioni, quando le chiedo a breve scadenza, quando le chiedo con una legge elettorale riformata, è evidente a chiunque che io ho già scelto una strada. La stessa urgenza della mia richiesta denota che il travaglio del mio spirito è giunto al suo estremo possibile. Avere capito questo, significava avere o non avere la chiave in mano per risolvere tutta la crisi politica italiana.

La richiesta partiva da me, ma partiva anche da un Partito che ha masse organizzate in modo formidabile e che raccoglie tutte le generazioni nuove dell'Italia, tutti i giovani più belli fisicamente e spiritualmente, che ha un vasto seguito nella vaga ed indeterminata opinione pubblica.

Ma c'è di più, o signori. Questa richiesta avveniva all'indomani dei fatti di Bolzano e di Trento, che avevano svelato ad oculos la paralisi completa dello Stato italiano, e che avevano rivelato, d'altra parte, la efficienza non meno completa dello Stato fascista. Occorreva, o signori, affrettarsi verso di me, perché io non fossi più ancora agitato dal dilemma interno.

Ebbene: con tutto ciò il deficiente Governo che siede a Roma, ove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell'ora. Facta stanno tre anime nere della reazione antifascista – alludo ai signori Taddei, Amendola ed Alessio - questo Governo mette il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell'ordine pubblico!

L'impostazione del problema è fatalmente errata. Degli uomini politici domandano che cosa desideriamo. Noi non siamo degli spiriti tortuosi e concitati. Noi parliamo schiettamente: facciamo del bene a chi ci fa del bene, del male a chi ci fa del male. Che cosa volete, o fascisti? Noi abbiamo risposto molto semplicemente: lo scioglimento di questa Camera, la riforma elettorale, le elezioni a breve scadenza. Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca, conservata tra le forze della nazione e le forze dell'antinazione. Abbiamo chiesto dei severi provvedimenti di indole finanziaria, abbiamo chiesto un rinvio dello sgombero della zona dalmata ed abbiamo chiesto cinque portafogli più il Commissariato dell'aviazione.

Abbiamo chiesto precisamente il ministero degli Esteri, quello della Guerra, quello della Marina, quello del Lavoro e quello dei lavori pubblici. Io sono sicuro che nessuno di voi troverà eccessive queste nostre richieste. Ed a completarvi il quadro aggiungerò che in questa soluzione legalitaria era esclusa la mia diretta partecipazione al Governo; e dirò anche le ragioni che sono chiare alla mente quando pensiate che per mantenere ancora nel pugno il fascismo io debbo avere una vasta elasticità di movimenti anche ai fini, dirò così, giornalistici e polemici.

Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora, si è risposto in un modo ridicolo. Malgrado tutto, nessuno degli uomini politici d'Italia ha saputo varcare le soglie di Montecitorio per vedere il problema del paese. Si è fatto un computo meschino delle nostre forze, si è parlato di ministri senza portafogli, come se ciò, dopo le prove più o meno miserevoli della guerra, non fosse il colmo di ogni umano e politico assurdo. Si è parlato di sottoportafogli: ma tutto ciò è irrisorio.
Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi fascisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali!

Perché noi abbiamo la visione, che si può chiamare storica, del problema, di fronte all'altra visione, che si può chiamare politica e parlamentare.

Non si tratta dì combinare ancora un governo purchessia, più o meno vitale: si tratta di immettere nello Stato liberale - che ha assolti i suoi compiti che sono stati grandiosi e che noi non dimentichiamo di immettere nello Stato liberale tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria. Questo è essenziale ai fini dello Stato, non solo, ma ai fini della storia della nazione. Ed allora?

Allora, o signori, il problema, non compreso nei suoi termini storici, si imposta e diventa un problema di forza. Del resto, tutte le volte che nella storia si determinano dei forti contrasti d'interessi e d'idee, è la forza che all'ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni perché se l'urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi. Noi ne siamo degni, tocca al popolo italiano che ne ha il diritto, che ne ha il dovere, di liberare la sua vita politica e spirituale da tutte quelle incrostazioni parassitarie del passato, che non può prolungarsi perennemente nel presente perché ucciderebbe l'avvenire.

E allora si comprende perfettamente che i governanti di Roma cerchino di creare degli equivoci e dei diversivi; che cerchino di turbare la compagine del fascismo e cerchino di formare una soluzione di continuità tra l'anima del fascismo e l'anima nazionale; che ci pongano di fronte a dei problemi. Questi problemi hanno il nome di monarchia, di esercito, di pacificazione.

Credetemi, non è per rendere un omaggio al lealismo assai quadrato del popolo meridionale, se io torno a precisare ancora una volta la posizione storica e politica del fascismo nei confronti della monarchia.
Ho già detto che discutere sulla bontà o sulla malvagità in assoluto ed in astratto, è perfettamente assurdo. Ogni popolo, in ogni epoca della sua storia, in determinate condizioni di tempo, di luogo e di ambiente, ha il suo regime.

Nessun dubbio che il regime unitario della vita italiana si appoggia saldamente alla monarchia di Savoia. Nessun dubbio, anche, che la monarchia italiana, per le sue origini, per gli sviluppi della sua storia, non può opporsi a quelle che sono le tendenze della nuova forza nazionale. Non si oppose quando concesse lo Statuto, non si oppose quando il popolo italiano - sia pure in minoranza, una minoranza intelligente e volitiva - chiese e volle la guerra.

Avrebbe ragione di opporsi oggi che il fascismo non intende di attaccare il regime nelle sue manifestazioni immanenti, ma piuttosto intende liberarlo da tutte le superstrutture che aduggiano la posizione storica di questo istituto e nello stesso tempo comprimono tutte le tendenze del nostro animo?

Inutilmente i nostri avversari cercane di perpetuare l'equivoco.

Il Parlamento, o signori, e tutto l'armamentario della democrazia, non hanno niente a che vedere con l'istituto monarchico. Non solo, ma si aggiunga che noi non vogliamo togliere al popolo il suo giocattolo (il Parlamento). Diciamo « giocattolo » perché gran parte del popolo italiano lo stima per tale. Mi sapete voi dire, per esempio, perché su undici milioni di elettori ce ne sono sei che se ne infischiano di votare? Potrebbe darsi, però, che se domani si strappasse loro il giocattolo, se ne mostrassero dispiacenti. Ma noi non lo strapperemo. In fondo ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità, è il nostro metodo. La democrazia crede che i principi siano immutabili in quanto siano applicabili in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni evenienza.

Noi non crediamo che la storia si ripeta, noi non crediamo che la storia sia un itinerario obbligato, noi non crediamo che dopo la democrazia debba venire la superdemocrazia!

Se la democrazia è stata utile ed efficace per la nazione nel secolo XIX, può darsi che nel secolo XX sia qualche altra forma politica che potenzi di più la comunione della società nazionale. Nemmeno dunque, lo spauracchio della nostra antidemocrazia può giovare a determinare quella soluzione di continuità, di cui vi parlavo dianzi.

Quanto poi alle altre istituzioni in cui si impersona il regime, in cui si esalta la nazione - parlo dell'esercito - l'esercito sappia che noi, manipolo di pochi e di audaci, lo abbiamo difeso quando i ministri consigliavano gli ufficiali di andare in borghese per evitare conflitti!

Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. E una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede, che è coraggio. Il nostro mito è la nazione, il nostro mito è la grandezza della Nazione! E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto.

Per noi la nazione è soprattutto spirito e non è soltanto territorio. Ci sono Stati che hanno avuto immensi territori e che non lasciarono traccia alcuna nella storia umana. Non è soltanto numero, perché si ebbero nella storia degli Stati piccolissimi, microscopici, che hanno lasciato documenti memorabili, imperituri nell'arte e nella filosofia.

La grandezza della nazione è il complesso di tutte queste virtù, di tutte queste condizioni. Una nazione è grande quando traduce nella realtà la forza del suo spirito. Roma è grande quando da piccola democrazia rurale a poco a poco allaga del ritmo del suo spirito tutta l'Italia, poi si incontra con i guerrieri di Cartagine e deve battersi contro di loro. E’ la prima guerra della storia, una delle prime. Poi, a poco a poco, porta le aquile agli estremi confini della terra, ma ancora e sempre l'Impero Romano è una creazione dello spirito, poiché le armi, prima che dalle braccia, erano puntate dallo spirito dei legionari romani. Ora, dunque, noi vogliamo la grandezza della nazione nel senso materiale e spirituale. Ecco perché noi facciamo del sindacalismo.

Noi non lo facciamo perché crediamo che la massa, in quanto numero, in quanto quantità, possa creare qualche cosa di duraturo nella storia. Questa mitologia della bassa letteratura socialista noi la respingiamo. Ma le masse laboriose esistono nella nazione. Sono gran parte della nazione, sono necessarie alla vita della nazione ed in pace ed in guerra. Respingerle non si può e non si deve. Educarle si può e si deve; proteggere i loro giusti interessi si può e si deve!

Si dice: « Volete dunque perpetuare questo stato di guerriglia civile che travaglia la nazione? ». No. In fondo, i primi a soffrire di questo stillicidio rissoso, domenicale, con morti e feriti, siamo noi. Io sono stato il primo a tentare di buttare delle passerelle pacificatrici tra noi ed il cosiddetto mondo sovversivo italiano.

Anzi, ultimamente ho firmato un concordato con lieto animo: prima di tutto, perché mi veniva richiesto da Gabriele d'Annunzio; in secondo luogo, perché era un'altra tappa, o ritengo che sia un'altra tappa, verso la pacificazione nazionale.

Ma noi non siamo, d'altra parte, delle piccole femmine isteriche che sogliono ad ogni minuto allarmarsi di quello che succede.

Noi non abbiamo una visione apocalittica, catastrofica della storia. Il problema finanziario dello Stato, di cui molto si parla, è un problema di volontà politica. I milioni e i miliardi li risparmierete se avrete al Governo degli uomini che abbiano il coraggio di dire no ad ogni richiesta. Ma finché non porterete sul terreno politico anche il problema finanziario, il problema non potrà essere risolto.

Così per la pacificazione. Noi siamo per la pacificazione, noi vorremmo vedere tutti gli italiani adottare il minimo comune denominatore che rende possibile la convivenza civile; ma d'altra parte non possiamo sacrificare i nostri diritti, gli interessi della nazione, l'avvenire della nazione a dei criteri soltanto di pacificazione che noi proponiamo con lealtà, ma che non sono accettati con altrettanta lealtà dalla parte avversa. Pace con coloro che vogliono veramente pace; ma con coloro che insidiano noi, e, soprattutto, insidiano la nazione, non ci può essere pace se non dopo la vittoria!

Ed ora, fascisti e cittadini di Napoli, io vi ringrazio dell'attenzione con la quale avete seguito questo mio discorso. Napoli dà un bello e forte spettacolo di forza, di disciplina, di austerità. E bene che siamo venuti da tutte le parti a conoscervi, a vedervi come siete, a vedere il vostro popolo, il popolo coraggioso che affronta romanamente la lotta per la vita, che non crea un argine per il fiume, ed il fiume per un argine, ma vuole rifarsi la vita per conquistare la ricchezza lavorando e sudando, e portando sempre nell'animo accorato la potente nostalgia di questa vostra meravigliosa terra, che è destinata ad un grande avvenire, specialmente se il fascismo non tralignerà.

Né dicano i democratici che il fascismo non ha ragione di essere qui, perché non c'è stato il bolscevismo. Qui vi sono altri fenomeni di tristizia politica che non sono meno pericolosi del bolscevismo, meno nocivi allo sviluppo della coscienza politica della nazione.

Io vedo la grandissima Napoli futura, la vera metropoli del Mediterraneo nostro - il Mediterraneo ai mediterranei - e la vedo insieme con Bari (che aveva sedicimila abitanti nel 1805 e ne ha centocinquantamila attualmente) e con Palermo costituire un triangolo potente di forza, di energia, di capacità; e vedo il fascismo che raccoglie e coordina tutte queste energie, che disinfetta certi ambienti, che toglie dalla circolazione certi uomini, che ne raccoglie altri sotto i suoi gagliardetti.

Ebbene, o alfieri di tutti i Fasci d'Italia, alzate i vostri gagliardetti e salutate Napoli, metropoli del Mezzogiorno, regina del Mediterraneo!

(Il capitano Padovani, segretario provinciale politico, bacia Mussolini, poi grida ad alta voce: “Bacio Mussolini, duce di oggi e di domani, e formulo l'augurio che i due vertici dei grigioverdi e delle camicie nere possano ricongiungersi sulla medesima strada per raggiungere gli scopi comuni”.)

Oggi, senza colpo ferire, - continuò Mussolini - abbiamo conquistata l'anima vibrante di Napoli, l'anima di tutto il Mezzogiorno d'Italia. La dimostrazione è fine a se stessa e non può tramutarsi in una battaglia, ma io vi dico con tutta la solennità che il momento impone: o ci daranno il Governo o lo prenderemo calando su Roma. Oramai si tratta di giorni e forse di ore. È necessario per l'azione che dovrà essere simultanea e che dovrà in ogni parte d'Italia prendere per la gola la miserabile politica dominante, che voi riguadagniate sollecitamente le vostre sedi.