Sunday 4 March 2012

Discorso di Roma, 18 novembre 1940

Alle gerarchie provinciali del PNF

di Benito Mussolini

Camerati!

Voi comprendete che non a caso ho scelto questa giornata per convocare a Roma le gerarchie provinciali del Partito. È una giornata di vittoria per l'Italia fascista, di disfatta per la coalizione societaria dei cinquantadue Stati assedianti.

Il 18 novembre del 1935 appare come una data decisiva nella storia d'Europa. È il primo e ultimo tentativo d'assalto in grande stile sferrato dal vecchio mondo, rappresentato, nei suoi egoismi feroci e nelle sue ideologie superate, dalla Società delle Nazioni, contro le nuove forze europee, giovani e rivoluzionarie, rappresentate dall'Italia e dalla Germania.

Da quel giorno ha inizio la separazione, l'antitesi, la lotta, che doveva, dopo i compromessi di Monaco, accettati dalle democrazie al solo scopo di guadagnare tempo, sboccare nella guerra dichiarata dalla Francia e dalla Gran Bretagna contro la Germania.

Non bisogna mai dimenticare che l'iniziativa della guerra è partita da Londra, seguita, con un intervallo di poche ore, da Parigi.

Affermo solennemente, e senza tema di essere smentito, né oggi né mai, che la responsabilità della guerra ricade esclusivamente sulla Gran Bretagna.

La pace poteva essere conservata se la Gran Bretagna non avesse, con la supina complicità della Francia, iniziato, invece della costruttiva revisione dei trattati, la sua politica di accerchiamenti; fatta, non allo scopo di lasciare ai polacchi la tedeschissima Danzica, ma allo scopo di abbattere la rinascente potenza politica e militare della Germania. La pace poteva essere salvata se l'Inghilterra non avesse rigettato tutti i tentativi di avvicinamento compiuti dalla Germania, la quale s'era spinta a firmare un Patto navale che le faceva una situazione di netta e permanente inferiorità.

La pace poteva essere salvata anche nelle ultime ore dell'agosto 1939, se l'Inghilterra, sotto la pressione dell'ambasciatore polacco, che si recò al Foreign Office alle ore 23 del giorno 1° settembre, non avesse avanzato, per aderire alla conferenza proposta dall'Italia, una condizione assolutamente inaccettabile, perché umiliante, e cioè che le truppe tedesche, già in marcia, non solo si fermassero, ma retrocedessero alle linee di partenza.

Quanto è accaduto nei mesi successivi, noi tutti lo abbiamo vissuto ed è superfluo ricordarlo.

Mai si, vide nella storia del genere umano più colossale ondata di mistificazioni e di menzogne, come quella scatenata dagli organi governativi e pubblicisti della Gran Bretagna durante le campagne di Polonia, Norvegia, Belgio, Olanda, conclusesi con la disfatta dell'Esercito britannico e di quello francese; disfatta, quest'ultima, senza precedenti per le sue immense proporzioni e per la sua quasi impensabile rapidità. Se la pratica della menzogna è il sistema più idoneo per istupidire e rendere coriaceo lo spirito di un popolo, si può tranquillamente affermare che il popolo di Gran Bretagna ha raggiunto un indiscutibile e insuperabile primato.

La Francia barcollava, ma era ancora lungi da essere in ginocchio e nessuno al mondo poteva prevedere che l'Esercito celebrato come il più forte di Europa si sarebbe liquefatto come neve al sole, quando il 10 giugno l'Italia entrò in guerra per tenere fede alla lettera e allo spirito dell'alleanza e per spezzare, finalmente, le sbarre della sua prigione nel suo mare. Dopo due settimane, era l'armistizio, e la Francia abbandonava la lotta, che ha ripreso saltuariamente in seguito, ma solo per difendersi dagli attacchi proditori della ex-alleata, come ad Orano e a Dakar.

Dal 10 giugno a oggi, sono passati oltre cinque mesi di guerra seriamente guerreggiata su fronti lontani e multipli, per terra, per mare, nel cielo, in Europa e in Africa.

Lasciate che io rivolga un saluto pieno di ammirazione agli italiani che hanno in questo momento il privilegio di impugnare le armi. L'Esercito, sul fronte alpino e su quello africano, ha dimostrato che la sua tempra è quale noi volevamo.

La disfatta degli inglesi nella Somalia Britannica è stata totale; come a Dunkerque, così a Berbera, gli inglesi sono fuggiti e si sono vendicati rimproverandoci di avere commesso, battendoli, un irreparabile errore strategico.

Le Forze Armate dell'impero africano, impero che nelle previsioni nemiche doveva saltare, hanno preso dovunque l'iniziativa e i tentativi inglesi di sobillazione all'interno sono pietosamente falliti.

Anche nella Libia siamo stati noi ad attaccare e la fulminea occupazione di Sidi el Barrami deve essere considerata non una conclusione, ma una premessa. Gli atti di valore compiuti da ufficiali e da soldati italiani dell'Esercito sui fronti terrestri sono tali da inorgoglire legittimamente la nazione.

Gli ufficiali e gli equipaggi della Marina compiono silenziosamente e spesso eroicamente il loro dovere sui molti mari e oceani - dall'Indiano all'Atlantico - dove sono impegnati. Essi obbediscono a una severa consegna e duri colpi sono stati inflitti alla Marina nemica. È la Marina che tutela le nostre lince di comunicazione mediterranee ed adriatiche, in modo così efficace che la Marina nemica non è riuscita ad interromperle e nemmeno a disturbarle.

L'Aviazione italiana è sempre, e più di sempre, all'altezza del suo compito. Essa ha dominato e domina i cieli e i suoi bombardieri attingono le mete più lontane. I suoi cacciatori recidono la vita assai dura alla caccia nemica. Gli uomini sono veramente quelli del nostro tempo la loro caratteristica è una calma intrepidità. Quanto alle macchine, ne escono al mese dalle nostre officine quattro volte più che prima della guerra. Fra poco, con la costruzione in massa di nuovi tipi, saremo forse all'avanguardia, certamente alla pari, con le macchine più moderne degli altri paesi.

Ma dopo le Forze Armate, lasciate che io oggi elogi la disciplina, il senso del dovere, l'imperturbabile fermezza del popolo italiano. Esso accetta con tranquillità le privazioni che conseguono allo stato di guerra, privazioni ancora tollerabili, ma che potranno diventare successivamente più gravi. E, guidato dal suo intuito politico millenario, sente che questa è una guerra decisiva; è come la terza guerra punita, che deve concludersi e si concluderà con l'annientamento della Cartagine moderna: l'Inghilterra.

Un forte popolo come l'italiano non teme la verità; la esige. Ecco perché i nostri bollettini di guerra sono la documentazione della verità. Noi segnaliamo i colpi che diamo e quelli che riceviamo, gli apparecchi che noi abbattiamo e quelli che il nemico abbatte, le giornate favorevoli e quelle che lo sono poco o niente. Pubblichiamo mensilmente le perdite degli uomini e quelle dei mezzi. Mi sentirei diminuito dinanzi al popolo e dinanzi a me stesso, se adattassi altro metodo quale quello di coprire o addolcire la realtà, buona o cattiva che sia. Farlo equivarrebbe a diseducare ed umiliare il popolo. Non lo farò mai.

Ho già prescritta nella maniera più categorica ai Comandi militari del fronte e alle autorità civili della periferia di non mandare a Roma, da dove poi debbono essere diffuse, notizie che non siano state rigorosamente e personalmente - dico personalmente - controllate.

A questo proposito voglio ricordare che grida di gioia si sono levate alla Camera dei comuni quando Churchill ha potuto dare finalmente una buona notizia: quella concernente l'azione compiuta nel porto di Taranto dagli aerosiluranti inglesi. Effettivamente tre navi sono state colpite, ma nessuna di esse è stata affondata e solo una di esse, come fu annunziato dal bollettino delle nostre Forze Armate, è stata seriamente danneggiata e il suo ricupero richiederà lungo tempo. Le altre due saranno, a parere unanime dei tecnici, sollecitamente ripristinate nella loro antica efficienza. È falso - dico falso - che due altre navi da guerra e due navi ausiliarie siano state affondate o colpite o, comunque, anche leggermente danneggiate.

Segno di cattiva coscienza questo ingigantire e moltiplicare per sei un successo che noi per primi abbiamo riconosciuto. Il signor Churchill avrebbe potuto, per completare il quadro, dare ai suoi onorevoli qualche indicazione sulla sorte toccata al Liverpool e al Kent e su quella delle altre grandi unità silurate recentemente nel Mediterraneo centrale o nel porto di Alessandria da sottomarini o aerosiluranti italiani.

La nostra entrata in guerra ha dimostrato che l'Asse non era e non è una vana parola.

Dal giugno, ad oggi, la nostra collaborazione con la Germania è veramente cameratesca e totalitaria. Marciamo a fianco a fianco. Questa unione di due popoli diventa sempre più intima e si estende a tutti i campi della loro attività militare, economica, politica, spirituale. L'identità di vedute per quanto riguarda il presente e il futuro è perfetta.

I miei incontri col Fuhrer non sono che la consacrazione di questa completa fusione delle nostre concezioni. Quando io mi incontro col Fuhrer, non vedo soltanto in lui il capo creatore della grande Germania, il comandante di eserciti che ha visto confermate dalla vittoria le sue geniali concezioni strategiche, talora ritenute più che audaci, temerarie, ma anche, e vorrei dire in particolar modo, il suscitatore del movimento nazionalsocialista, il rivoluzionario che ha risvegliato il popolo tedesco, lo ha fatto protagonista di una nuova concezione del mondo, grandemente affine a quella del fascismo italiano.

L'identità di vedute è il risultato di questa premessa rivoluzionaria scaturisce dall'incontro di due rivoluzioni che sono e nel campo internazionale e in quello sociale appena all'inizio del loro cammino.

Tolto quanto riguarda gli sviluppi del Patto tripartito a occidente o nel bacino danubiano è seguito di comune accordo. Così per quanto riguarda la posizione avvenire della Francia.

È ormai chiaro che l'Asse non vuole fare una pace di rappresaglia o di rancori, ma è altresì inteso che talune rivendicazioni devono essere soddisfatte.

Tali rivendicazioni, più che legittime, potevano essere oggetto di discussione anche prima della guerra, se non ci si fossero opposti i ridicoli e tragici a un tempo « jamais ».

Quando si accennò a toglierli era ormai troppo tardi. L'Italia aveva già scelto, fina dal maggio del 1939, la sua via. I dadi erano gettati. Ma appunto per il loro carattere di legittimità le nostre rivendicazioni dovranno essere accolte senza compromessi o soluzioni provvisorie, che noi sin da questo momento in maniera categorica respingiamo.

Solo dopo questo totale chiarimento, sarà possibile, nell'orbita della nuova Europa quale sarà creata dall'Asse, iniziare un nuovo capitolo, nella storia, che fu così agitata, dei rapporti fra Italia e Francia.

È superfluo confermare che, come l'armistizio, così la pace sarà comune, cioè sarà la pace dell'Asse. A consacrare la fraternità delle armi italo-germaniche ho chiesto e ottenuto dal Fuhrer una diretta partecipazione alla battaglia contro la Gran Bretagna con velivoli e sottomarini.

Aggiungo subito che la Germania non aveva bisogno del nostro concorso. II valore dei suoi combattenti di terra, di mare, di cielo, la sua potenza industriale, la sua capacità organizzativa e tecnica, il rendimento della sua mano d'opera sono elementi ben noti. Le cifre di produzione di aeroplani e di sottomarini raggiunte dalla Germania sono veramente eccezionali ed in continuo progresso. Ciononostante, io sono grato al Fuhrer di aver accettato la mia offerta: nulla più del sangue versato in comune o del sacrificio comune sopportato rende solidi e duraturi i rapporti fra i popoli, quando siano animati da una lealtà assolata e da un'identità di interessi e di ideali. Sono sicuro che i nostri aviatori e i nostri sommergibilisti faranno onore alla nostra bandiera.

Dopo un lungo pazientare, abbiamo strappato la maschera a un paese « garantito » dalla Gran Bretagna; un subdolo nemico: la Grecia. È un conto che attendeva di essere saldato.

Una cosa va detta, e forse non mancherà di sorprendere taluni inattuali classicisti italiani. I greci odiano l'Italia come nessun altro popolo. È un odio che appare a prima vista inspiegabile, ma è generale, profondo, in tutte le classi, nelle città, nei villaggi, in alto, in basso, dovunque. Il perché è un mistero. Forse perché Santorre Santarosa andò dal nativo Piemonte a morire ingenuamente e eroicamente per la Grecia a Sfacteria? Forse perché il garibaldino forlivese Antonio Fratti ripetè lo stesso gesto di sublime ingenuità settant'anni dopo cadendo a Domokos? Interrogativi, ma il fatto esiste.

Su questo odio, che si può definire grottesco, si è basata la politica greca di questi ultimi anni, politica di assolute complicità con la Gran Bretagna. Né poteva essere diversamente, dato che il re è inglese, la classe politica è inglese, la borsa, nel senso figurato e nel proprio, è inglese.

Questa complicità, estrinsecata in molti modi, che a suo tempo saranno irrefutabilmente documentati, era un atto di ostilità continuo contro l'Italia.

Dalle carte trovate dallo Stato Maggiore germanico in Francia, a Vitry-la-Charité, risulta che sin dal maggio la Grecia aveva offerto ai franco-inglesi tutte le sue basi aeree e navali. Bisognava porre fine a questa situazione. È ciò che si è fatto il 28 ottobre, quando le nostre truppe hanno varcato il confine greco-albanese.

Le aspre montagne dell'Epiro e le loro valli fangose non si prestano a « guerre-lampo », come pretenderebbero gli incorreggibili che praticano la comoda strategia degli spilli Sulle carte. Nessun atto o parola mia o del Governo e di nessun altro fattore responsabile l'ha fatto prevedere.

Non credo che valga la pena di smentire tutte le notizie diramate dalla propaganda greca e dai suoi altoparlanti inglesi. Quella divisione alpina Julia che avrebbe avuto perdite enormi, che sarebbe fuggita, che sarebbe stata polverizzata dai greci, è stata visitata dal generale Soddu, il quale, a visita ultimata, mi ha telegrafato il 12 novembre:
« Recatomi stornane visitare divisione alpina « Julia ». Devo segnalarvi, Duce, magnifica impressione riportata di questa superba unità, fiera e salda più che mai nei suoi granitici alpini ».
C'è qualcuno di voi, o camerati, che ricorda l'inedito discorso di Eboli, pronunciato nel luglio del 1935, prima della guerra etiopica? Dissi che avremmo spezzato le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta - ripeto assoluta - vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia. In due o in dodici mesi poco importa. La guerra è appena incominciata. Noi abbiamo uomini e mezzi sufficienti per annientare ogni resistenza greca. L'aiuto inglese non potrà impedire il compimento di questo nostro fermissimo proponimento, né evitare agli elleni la catastrofe che essi hanno voluta e dimostrato di meritare.

Pensare o dubitare qualche cosa di diverso, significa non conoscermi. Una volta preso l'avvio, io non mollo più sino alla fine. L'ho già dimostrato e, qualunque cosa sia accaduta, accada o possa accadere, tornerò a dimostrarlo. I trecentosettantadue caduti, i milleottantuno feriti, i seicentocinquanta dispersi nei primi dieci giorni di combattimento sul fronte dell'Epiro saranno vendicati.

Camerati!

In quest'ora storica, veramente solenne, che allinea nel contrasto e nell'intesa i continenti, il Partito, difensore e continuatore della Rivoluzione, deve intensificare al massimo tutte le forme della sua attività.

Allo scoppio della guerra, un certo rallentamento dell'attività del Partito fu in relazione al fatto obiettivo della partenza di tutti i gerarchi. Ora non più.

Non c'è e non ci sarà una mobilitazione generale. Le classi richiamate sono due. Ce ne sono ancora disponibili una trentina.

Abbiamo alle armi un milione di uomini; ne possiamo chiamare, in caso di necessità, altri otto.

In queste condizioni, il Partito deve riprendere la sua funzione con immutato, crescente vigore, impegnando strenuamente la sua battaglia sul fronte interno, sul piano politico, economico, spirituale, sul piano dello stile.

Il Partito deve liberarsi e liberare la Nazione dalla superstite zavorra piccolo-borghese, nel senso più lato che noi diamo a questo termine. Deve mantenere e accentuare il clima dei tempi duri, andare più e meglio di prima verso il popolo, tutelandone la salute morale e l'esistenza materiale.

Certo pacifismo a sfondo cerebraloide e universalistico va attenta mente vigilato e combattuto. È sfatato, almeno per quanto riguarda questa epoca di ferro e di cannoni. Nient'altro esiste e deve esistere all'infuori dello scopo supremo per il quale siamo in armi.

Fra germanici e italiani siamo un blocco di centocinquanta milioni di uomini, risoluti, compatti e piantati, dalla Norvegia alla Ligia, nel cuore dell'Europa. Questo blocco ha già nel pugno la vittoria.