Friday 9 March 2012

Dentro la guerra

(Pubblicato in « Civiltà fascista », gennaio 1936)

di Indro Montanelli

Non sto a Asmara.

Premetto questo a scanso di equivoci: sia per personale dignità di combattente, sia per giustificare – ove occorra – la mia, la nostra, colossale ignoranza sugli avvenimenti. Questo vale per tutti i soldati in linea, ma vale particolarmente per noialtri delle Truppe Eritree che operiamo per Battaglioni isolati, all'avanguardia dei reparti bianchi, lontani da ogni influenza e suggestione, impermeabili e taciturni.

Non potremmo offrire testimonianze sulla guerra in genere, noi che ci siamo dentro, perchè non vediamo che il nostro breve e variabile settore, d'importanza sempre limitata. Potremmo soltanto offrire testimonianze sulla «nostra» guerra, su come la vediamo e su cosa ne prevediamo. Ma una tale testimonianza non deluderà un poco i lettori metropolitani se diciamo che questa guerra finora non è stata niente più di una semplice guerriglia, non per nostro volere, e che ne siamo alquanto delusi noi stessi? La realtà di quaggiù è tale che ha creato un autentico squilibrio psicologico fra gli Italiani dei due continenti. Coloro che ci scrivono dovrebbero tenerne conto, ma questo è forse inumano pretenderlo. Riduciamo dunque i nostri desiderata a questo solo: che l'eloquenza guerriera della Madrepatria si adegui meglio alla realtà delle cose nostre. Come Ufficiale di Truppe Eritree, che costituiscono la sacra « buffa » di questa guerra, dichiaro che niente è più inadeguato delle « fulminee avanzate », delle « quadrate legioni », delle « folgoranti offensive » e di altro prezzemolo letterario di cui s'infiora la nostra stampa quotidiana. Mai come in questo momento noi abbiamo sentito l'uggia di questo malvezzo delle parole grosse e vuote: mai come in questo momento il sottoscritto, che è giornalista, ha sentito uno stimolo di rivolta contro quegli esemplari della sua categoria che si abbandonano all'esercizio retorico, salvo poi a sorriderne essi stessi tra loro o con quelli di noi che fanno un salto, per una ragione o un'altra, nelle retrovie.

Ci pare, insomma, che l'Italia, se vuole davvero essere, com'è, un'Italia di soldati, debba molto lavorare, molto sudare, punto discutere e ridurre le sue parole a un bollettino ufficiale.

Che cosa pensiamo delle cose europee, così come ci vengono riferite dalla epistolografia metropolitana? Nulla. Non se ne parla. L'Inghilterra, la veneranda Società, cose che non c'interessano. Una volta, quando eravamo sull'altro settore – quello di Adua –, arrivò, fabbricata non si sa come nè da chi, la notizia che si cambiava fronte e che si marciava contro altro nemico. S'improvvisò un banchetto durante il quale si pensò, a vero dire, molto più a mangiare (chè ne avevamo bisogno da vari giorni) che a discorrere. Alla fine il Comandante del Battaglione si levò e semplicemente, com'è suo costume, disse: « Son sicuro che il Battaglione farà, contro il nuovo nemico, il suo dovere, come ha fatto sinora. Viva il Re! ».

Che cosa pensiamo degli abissini, così come li vediamo, come soldati? Ma non ne vediamo! Finora vediamo talvolta qualche rimasuglio di bande fuggiasche. Ed è convinzione nostra e nostro timore che, in massa, non li vedremo mai. È possibile che non sia vero, ma ad ogni modo il nostro disprezzo per gli abissini, come soldati, è grande. Come banditi, li consideriamo abbastanza audaci e meravigliosamente celeri. Tirano con una certa precisione e raramente si fan cogliere. Sono quegli stessi che, dopo mezz'ora, circolano tra le nostre fila, in qualità di amici, e s'inchinano sino a terra al nostro passaggio.

Venendo qui in veste di soldato, mi sono preventivamente vietata ogni critica. E come tale non dev'essere interpretata nessuna delle mie parole. Mi limito solo a queste semplici osservazioni:

1°) La nostra condotta verso queste popolazioni è straordinariamente blanda.

2°) Il soldato italiano, singolarmente preso, bene è che ecceda in dignità razziale.

Il primo fatto può trovare giustificazione nella nostra tesi diplomatica e nella posizione che abbiamo assunto di fronte al mondo. Non mi riguarda. Il secondo, se si pecca in difetto, è grave ed è sintomo di manchevolezza che va immediatamente corretta. Ci sono due razzismi: uno europeo – e questo lo lasciamo in monopolio ai capelbiondi d'oltralpe, e uno africano – e questo è un catechismo che, se non lo sappiamo, bisogna affrettarsi a impararlo e ad adottarlo. Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finchè non si sia data loro una civiltà. Parla uno che comanda truppe nere e che ad esse è oramai attaccato e affezionato quanto alla sua famiglia. Ma non cediamo a sentimentalismi. Del resto, non occorre un intuito psicologico freudiano per avvedersi che un indigeno ama il bianco solo in quanto lo teme o in quanto lo tiene infinitamente superiore a sè. Niente indulgenze, niente amorazzi. Si pensi che qui debbon venire famiglie, famiglie e famiglie nostre. Il bianco comandi. Ogni languore che possa intiepidirci di dentro non deve trapelare al difuori.

Col mio Battaglione l'ho battuto tutto, il Tigrai, da ovest ad est. Conto – io contadino, e quindi un po' intenditore – che alcuni milioni di Italiani ci posson vivere largamente, anche se nel principio non comodamente. Ma questo «non comodamente » mi fa piacere: questa terra sarà finalmente il necessario banco di scuola di un'Italia rude, callosa e sublime. Il clima duro non sarà più una parola nè un'invocazione.

Salvo qualche mezzacoscienza, nessuno di noi si augura che la guerra finisca. Potrà essere sciocco, ma è così. Noi, soldati, non abbiamo che un desiderio: continuare, afferrare finalmente questo nemico fantomatico e stroncarlo. Lo faremmo senza batter ciglio. E lo diciamo noi delle Truppe Indigene che tutti, chi più chi meno, un po' di fuoco lo abbiamo assaggiato e sappiamo già cosa sia. Desideriamo chiudere i conti – e ci pare che quella per via diplomatica non sarebbe mai una vera e propria chiusura. Dirò di più: sentiamo talvolta uno strano senso per l'aviazione e l'artiglieria che, con le loro mirabili azioni preliminari alle nostre avanzate, ci fanno il vuoto barometrico davanti e ci condannano quasi sempre ad un'uggiosa sterilità.

Salvo qualche mezzacoscienza, nessuno di noi pensa che un trattato di pace – qualunque esso sia – possa esaurire il nostro compito qui. Non abbiamo messo in bilancio, venendo, dei mesi di vita, ma degli anni. È una terra sterminata questa, e non facile a domare. Imporrà una selezione molto rigida, sarà un esame alquanto duro che, a superarlo, richiederà non comuni energie, sia fisiche che morali.

Questo potrà far sorridere chi non sta alla fronte. Ma gli Italiani che vedono l'Africa di lontano o da certe metropolitette di britannico stampo, possono fare a meno di venire o di restare qui. Possono tornare in via Veneto a fare, magari, i reduci con distintivo.