Saturday 10 March 2012

Lavorare e combattere

(Pubblicato in « Corrispondenze Repubblicane », 10 gennaio 1944)

di Anonimo

Il popolo italiano è entrato in una fase che si può definire di soddisfacente ripresa, dopo la crisi gravissima iniziatasi il 25 luglio e culminata nell'infausto 8 settembre. Ripresa morale e ripresa materiale, che appaiono sempre più chiare e tendono a riportare gradualmente la vita nazionale verso la normalizzazione.

Dopo il tragico disorientamento e la catastrofe che sembravano aver sommerso per sempre tutti i valori positivi del Paese, i segni di reazione e di volontà ricostruttiva sono riaffiorati nella scia dell'azione del Governo fascista repubblicano, sempre più evidenti e concreti in ogni settore della vita italiana.

La riorganizzazione di tutte le forze nazionali è in atto con risultati sempre più tangibili. L'afflusso dei volontari nei ranghi dell'Esercito e della Guardia nazionale repubblicana, la presentazione delle reclute al bando di chiamata, la favorevole andatura dei titoli di Stato sono i segni indicatori delle facoltà reattive del popolo italiano, che l'azione terroristica di alcuni criminali pagati dal nemico non solo non può abbattere, ma, viceversa, stimola e fortifica. Cosi come le barbariche e sanguinose distruzioni che i « liberatori » angloamericani infliggono alle nostre città, per conto e nel nome del regio Governo badogliano, non riescono a stroncare le possibilità di rinascita della nostra gente.

Tale il consuntivo di questi ultimi mesi. Molto è stato fatto. Moltissimo resta ancora da fare. È su questa azione futura che è impegnato tutto il popolo italiano. E poiché questa azione futura è stata compendiata da alcuni nel dilemma « lavorare o combattere », noi affermiamo invece che tale dilemma va trasformato in un binomio inscindibile: « lavorare e combattere ».

Infatti i popoli e le nazioni che intendono vivere in autonomia politica e amministrativa, che hanno coscienza del proprio destino, che sentono ancora il senso reale della parole onore e dignità, non possono, soprattutto nei momenti cruciali per la storia e l'assetto del genere umano, rinunciare né al combattimento né al lavoro, che sono, inseparabili, i loro strumenti vitali.

Cosi, in questa ora suprema, l'Italia e gli italiani non possono scegliere, ma debbono fare dei due verbi la loro parola d'ordine, il loro comandamento. Se ciò non avvenisse, sarebbe la totale, irrimediabile, definitiva condanna della nazione e del popolo, che hanno dato al mondo tanto contributo di civiltà.

È possibile che la più nobile delle umane attività, il lavoro, diventi asilo del più basso degli umani sentimenti, la vigliaccheria? E ammissibile che una razza che ha dato santi, eroi, navigatori e colonizzatori, soldati e condottieri, passa scadere talmente dinanzi a sé e agli altri, da dimenticare che chi non sa o non vuole difendere con le proprie armi il proprio lavoro è destinato a lavorare alle altrui dipendenze?

Gli italiani debbono oggi riflettere su tali dati irrefutabili, documentati da millenni di storia, pensando che, con le sorti della guerra, noi difendiamo la nostra indipendenza, il nostro avvenire di popolo unitario, il posto nel mondo non solo ddl'Italia, ma degli stessi italiani.

Né possono esserci più illusioni al riguardo, neppure per gli « attendisti » o gli anglofilt più incalliti. È stato scritto su un giornale americano:
« Non sappiamo che farcene di questi italiani che hanno tradito e venduto il loro Paese ».
E, intanto, i primi bastimenti carichi di bimbi strappati dalle braccia delle madri sotto la guardia delle baionette angloamericane, stanno per raggiungere la Russia sovietica, come ci informano radio Londra e radio Mosca. Sono questi i primi sintomi del destino che ci attenderebbe se i « liberatori » trionfassero o, anche, avanzassero sempre più verso il cuore del Paese. Per scongiurare tutto ciò, per tutelare il nostro onore e difendere, nel contempo, ciò che di più sacro ha la nostra gente, i figli, non basta il solo lavoro. È necessario che ogni italiano valido riprenda il suo posto di combattimento.

Noi chiediamo alla gioventù d'Italia, espressione viva della stirpe che con le armi di Roma dominò il mondo, noi chiediamo al popolo che compi il miracolo della Spagna e seppe conquistare un impero, che da Santander a Bilbao scrisse pagine di gloria, che ancora ieri, a Gondar e sul Mareth, in Russia e nel Mediterraneo, seppe compiere gesta memorabili, noi chiediamo: la tua coscienza non freme di desiderio di azione, di volontà di affiancamento all'alleato germanico nella lotta eroica che esso combatte per difendere la tua terra, le tue donne, i tuoi figli, il tuo pane dall'assalto famelico dei barbari? Vuoi tu, italiano, rintanarti nel solo lavoro, mentre altri ti difende col suo sangue e colle sue armi? Questi sono gli interrogativi che ogni coscienza italiana deve porsi. Per tutti indistintamente gli italiani, il lavoro non deve apparire come un riparo dalla guerra o un contributo alla guerra che altri combatte, ma deve essere, invece, uno strumento di guerra, uno strumento per la « nostra » guerra.

Assistere inermi allo scempio che il nemico compie sulle nostre città e sulle nostre popolazioni civili sarebbe impensabile cinismo; attendere, con supina rassegnazione, mentre si combatte sul nostro territorio, che altri decidano del nostro domani, della nostra esistenza, dei nostri beni, sarebbe una forma di rinunzia delittuosa e suicida. L'ora che batte oggi sul quadrante della storia è l'ora decisiva per le sorti dd Paese. Oggi si tratta veramente per l'Italia di essere libera e onorata, o di non essere più. E l'Italia può essere conservata, al mondo e al suo popolo, soltanto con il combattimento e con il lavoro. È, dunque, tempo di azione.

Guerra e lavoro soltanto possono salvarci. Gli italiani intendano, con ferma coscienza e con assoluta determinazione, quale è il loro dovere. Pensino che i popoli i quali non vogliono portare le proprie armi finiscono per portare o subire quelle altrui, e meditino sulla situazione creatasi sul fronte italiano dopo 1'8 settembre. Tale situazione ammonisce che per un'Italia volitiva e rinpovata, libera da interessi dinastici e perciò certa dell'impossibilità del tradimento, finché tutto è in gioco, nulla è perduto.