(Pubblicata in « Gerarchia », agosto 1942)
di Paolo Pietri
Quando, il 26 ottobre 1940, il Governo di Roma rimise ad Atene l'ultimatum che doveva preludere alla guerra contro la Grecia, asservita all'imperialismo anglosassone, l'Italia dava praticamente inizio a quel processo di totalitaria revisione, territoriale e politica, della Penisola Balcanica che più conveniva ai suoi interessi, gravemente minacciati durante i 20 e più anni di egemonia franco-britannica, e si ispirava alla improcrastinabile necessità di adempiere alla sua funzione di massima Potenza balcanica, assunta il 7 aprile 1939, allorché le truppe italiane, chiamate dagli albanesi, sbarcavano nella terra amica e preparavano, dopo un duro travaglio secolare, la rinnovata unione dell'Albania a Roma.
L'ultima fase del dramma balcanico, la coi responsabilità, ormai consegnata alla storia, ricade esclusivamente sui governanti di Londra e di Washington e sui loro servi di Atene e di Belgrado, si chiuse — almeno nei suoi momenti più propriamente bellici — col crollo, repentino e catastrofico, della Jugoslavia, che più di 7 giorni non seppe resistere alla travolgente azione delle Forze Armate dell'Asse. Si può cosi dire che, quasi dall'oggi al domani, la situazione in questo tormenta-tissimo settore del nostro Continente veniva rovesciata dalle sue fondamenta, da quelle stesse fondamenta, cioè, che erano state edificate a Versaglia, a danno dell'Italia.
Mentre ancora guizzavano all'orizzonte gli ultimi bagliori del vasto incendio, che, con immagine forse troppo comune ma indubbiamente appropriata, aveva purificato tutta l'atmosfera balcanica; mentre ancora dalle fumanti rovine della città e dei villaggi si levavano grida di dolore e gemiti d'implorazione, ecco che, a poco a poco, si cominciavano a percepire i primi segni della ricostruzione e della ripresa, su ben altri principi e con ben altri metodi, s'intende, di quelli del 1919.
Sarebbe facile a questo punto indulgere ad una ornata retorica e magnificare l'alto senno politico dei due Condottieri dell'Asse, che provvedevano, con consapevole sollecitudine, a gettare le basi del riassetto territoriale e politico di quei Paesi balcanici che erano stati travolti dalla propria demenza e dal proprio smisurato orgoglio. Ma questa opera di Mussolini e di Hitler non va sciupata con espressioni accademiche; va, invece, considerata nei suoi aspetti rigidamente realistici e valutata nella sua portata storica quando sarà compiuta, quando, vale a dire, saranno palesi tutti quei risultati che i due Capi si sono prefissi con la armonica distribuzione dei compiti dei loro Paesi nella Penisola balcanica e di quelli assegnati ai Paesi balcanici stessi, nella cerchia dei popoli europei gravitanti, nel Nuovo Ordine di domani, verso l'uno o l'altro dei due nuclei imperiali: l'italiano e il germanico.
Possono, intanto, gli stessi popoli interessati cominciare a rendersi conto della importanza dei benefici che già debbono avere avvertito, e non attendere che i loro sentimenti debbano essere sollecitati o forzati, per riconoscere i vantaggi della nuova situazione, in qualche settore, non sia ancora determinata in modo stabile e definitivo.
Tutti sanno che oblio e ingratitudine sono eterni motivi umani, ma, forse appunto per questo, non sarà male che alcuni ambienti balcanici, anche ufficiali, (alludiamo, per esempio, a certi settori croati) non dimentichino lo stato di peggiore schiavitù nel quale fu gettato il loro Paese dalla dominazione dei regimi serbi e dal quale fu liberato, grazie alla operante simpatia dell'Italia fascista. Né si dica che espressioni di gratitudine sono rivolte al Duce e al Governo italiano ogni volta che se ne presenti l'occasione, perché le parole restano lettera morta se non sono corroborate da fatti che dimostrino realmente come la riconoscenza si manifesti con una concreta volontà cooperatrice.
Nell'aprile del 1941, cioè immediatamente dopo l'inglorioso crollo della Jugoslavia, Italia e Germania agirono, dunque, con rapide decisioni e, in perfetto accordo tra i loro Capi, iniziarono l'attuazione dei loro piani di riassetto e di ordine nella Penisola balcanica, secondo principi geografici, storici e di ordine economico e di comunicazioni, che meglio potessero adattarsi non solo ai loro propri interessi di grandi Potenze, ma anche a quelli degli stessi popoli che venivano invitati alla collaborazione. È noto quale sia stato questo preliminare assetto: per i Paesi rivieraschi del Mediterraneo, l'Italia aveva già provveduto — con un regime di unione personale con l'Albania — mentre, con la Grecia sistemava i suoi rapporti in modo da saper ben tutelati la sua particolare posizione e i suoi interessi. Quanto alla Bulgaria e alla Romania — altri importantissimi capisaldi balcanici sui quali le Potenze dell'Asse sanno di poter contare con piena fiducia — le posizioni furono presto ben precisate o definite, senza troppa difficoltà in quanto gli uomini rappresentativi di questi due Paesi prontamente adeguavano, con illuminato spirito realistico, i loro atteggiamenti alla fatalità dell'ora storica. Con la Bulgaria, attraverso l'Albania, l'Italia ha ormai frontiere comuni che le permettono di iniziare un più vivo e intenso ciclo di scambi che non potrà non essere di utilità reciproca per i due Paesi. Con i Romeni i vincoli di solidarietà e di affinità trovano profondissime radici nelle più antiche tradizioni storiche e in quella somiglianza di tendenze, di gusti e di sentimenti che sorge spontanea dalla consanguineità dei due popoli, per non parlare della identità di ideali politici che oggi più che mai accomuna insieme Italiani e Romeni.
L'avvenimento diplomatico e politico di vastissima portata che si registrò all'indomani dello sfacelo della Jugoslavia, fu la resurrezione di una Croazia indipendente, contemporanea alle annessioni italiane sulla sponda orientale dell'Adriatico.
La simpatia italiana per la causa della indipendenza croata, così tenacemente difesa da Pavelic e da un pugno di fedeli seguaci che in Italia avevano trovato comprensione piena delle loro sofferenze e delle loro aspirazioni, era stata determinata sia da ragioni ideali, ma sia anche da imperiose esigenze della politica imperiale di Roma, che, nella affermazione dei suoi diritti nella Penisola balcanica, vedeva in una Croazia libera ed indipendente un importantissimo fattore di stabilità e di ordine.
I motivi ideali trovavano radici lontane nel pensiero e nella azione dei maggiori esponenti del nostri Risorgimento i quali avevano ardentemente patrocinato l'appoggio italiano ai movimenti nazionali di liberazione degli Slavi dagli imperialismi absburgico ed ottomano, e radici più prossime nella essenza dell'Ustascismo, subito proclamatosi seguace della dottrina e dei metodi del Fascismo, opportunamente adattati alle particolari condizioni ambientali del Paese.
Quanto agli interessi italiani, essi sono di natura così chiara ed evidente da non rendere necessaria una esposizione troppo lunga, e dipendono dalla funzione dell'Italia nel settore balcanico. Tale funzione non è ispirata a cervellotiche mire espansionistiche o ad esorbitanti istinti di dominio. Non è certo l'Italia che può temere simili accuse. L'Italia, nei Balcani, ha invece legittimi interessi suoi da difendere, interessi dettati da un duplice ordine di motivi. Primo: la contiguità territoriale, dalla quale scaturiscono molteplici vasti problemi, oltre che di carattere politico-economico, anche e soprattutto di sicurezza territoriale, nel senso che in un settore che fino a ieri era stato sconvolto da torbidi interni ed aveva soggiaciuto ad intrighi e sobillazioni di Potenze extra-balcaniche, essa, che di tale stato di cose aveva subito ripercussioni e danni seri, ha un interesse diretto a promuovere nuove situazioni che le diano piena garanzia di tranquillità e di ordine, e la certezza che sia per sempre esclusa ogni possibilità e di ordine, e la certezza che sia per sempre esclusa ogni possibilità di ritorni all'antico, stroncata ogni velleità di crearle difficoltà, o anche semplicemente inciampi, nel suo cammino imperiale. Secondo: il riconoscimento di spazio vitale dell'Italia del settore adriatico-mediterraneo dei Balcani, ciò che le impone la collaborazione più intima possibile con le genti che abitano tale settore. La natura mediterranea dell'Impero Fascista è affermazione che non necessita spiegazioni o dimostrazioni. E che all'Italia soltanto, senza equivoci e senza riserve mentali, spetti il dominio del Mediterraneo, è cosa riconosciuta da Bismarck fino a Hitler.
Se, come abbiamo detto, l'Italia ha un interesse specifico alla indipendenza e alla consolidazione del giovane Stato croato, non meno evidente e perentorio è quello della Croazia ad appoggiarsi sulla forza italiana, come del resto risulta dalla volontà, prontamente dimostrata dal Poglavnik, di assicurare l'avvenire e la prosperità del tuo Paese inquadrandolo nella comunità imperiale di Roma e giungendo fino a chiedere che un Principe di Casa Savoia fosse designato Re di Croazia e cingesse la corona di Zvonimiro; proprio per far rinascere, anche nella forma, assicurandone la continuità quella unità statale indipendente che, da oltre 1000 anni era stata cancellata dai regimi ungherese ed absburgico e che, ora, si riconosce di poter validamente difendere da limitazioni e aberrazioni di terze Potenze, mediante incondizionato appoggio all'Italia.
Vittime di situazioni storiche che per secoli e secoli avevano travolto le tradizionali prerogative dell'antichissimo Regno di Croazia, i croati, insomma, vollero, come primo atto fondamentale della loro politica internazionale, stipulare con l'Italia una serie di Patti, nei quali la loro indipendenza nazionale era assicurata e garantita l'unità, mentre nello stesso momento si impegnavano a riconoscere la prevalente collaborazione italiana in ogni campo.
I Patti di Roma del 18 maggio 1941, che il Poglavnik ha voluto rievocare nel primo anniversario della loro firma con espressioni di inequivocabile chiarezza, se costituiscono, dunque, per la Croazia uno strumento di assoluta sicurezza e, attraverso gli accordi economici successivamente stipulati come conseguenza diretta dei Patti, premessa di sano sviluppo delle energie economico-nazionali, è ovvio che debbano rappresentare, anche per l'Italia, vantaggi tangibili e frutti sicuri, altrimenti non si spiegherebbe perché il Governo di Roma abbia accondisceso a concessioni per la Dalmazia, che non assicurano del tutto alla economia e allo sviluppo industriale di quella regione i benefici che avrebbero dovuto venirle dalla assegnazione, entro i confini nazionali, di un proporzionato e conveniente retroterra.
Ma, il Governo italiano ha fatto volentieri tali sacrifici perché sicuro che essi sarebbero stati giustamente apprezzati dai fattori di Zagabria, i quali non avrebbero mancato di ricambiare l'amicizia dell'Italia con una collaborazione franca e leale, che — come già s'è accennato — in definitiva torna di vantaggio soprattuto ai croati.
Per parte sua, il Governo di Roma ha, con coscienza scrupolosa ed onesta, osservato i Patti finora stipulati e, del resto, il funzionamento di questi è relativamente ancora troppo breve per poter stabilire una specie di bilancio del dare e dell'avere.
Noi non ci dissimuliamo le gravi difficoltà nelle quali i Croati si dibattono, difficoltà inerenti alla natura stessa dei problemi che sono chiamati a risolvere e alle eccezionali condizioni dell'ora, dipendenti dalla esistenza di un conflitto che sconvolge ormai il mondo intero e del quale le ripercussioni non possono non avvertirsi anche nel settore balcanico.
Riteniamo però che, se il Paese vorrà assicurarsi la propria esistenza, dovrà incondizionatamente seguire con costante fiducia il suo Capo e guardarsi da interessate o tendenziose manovre di forze, di influenze o di gruppi che agiscano contro il suo vitale interesse in senso centrifugo. Dovrà dare alla propria organizzazione interna una stabile e solida struttura, ritrovare quanto prima l'assestamento della sua indipendenza politica e una concorde unità delle sue caratteristiche nazionali.
« L'Adriatico unisce e non divide i popoli delle due sponde »; questa felice formulazione del Poglavnik è e deve restare come la principale direttrice della politica creata, la quale non deve neppure perdere di vista l'avvertimento del Duce che il problema dalmata « deve essere inquadrato nella soluzione del problema della sicurezza adriatica ».
Dopo di che, non resta altro da dire. La Croazia e, con essa, gli altri popoli balcanici che per necessità geografiche, politiche o economiche gravitano verso il mondo romano debbono sentire come imperativo della loro coscienza di nazioni risorte a vita libera e chiamate ad adempiere una funzione storica nel settore dove la natura li ha posti, il monito e l'obbligo della più leale amicizia. L'Italia uscirà da questa guerra più forte e più grande di quanto non lo fosse prima. Essa ha nei Balcani una grandissima missione di civiltà da compiere; di questa potranno avvantaggiarsi quei Paesi che se ne saranno dimostrati degni.