Friday 9 March 2012

Roosevelt e l'americanismo

(Pubblicato in « Gerarchia », febbraio 1943)

di Matteo Cerini

Delano Roosevelt, nella sua smisurata e volgare presunzione, nella sua superficiale mentalità, nel suo esibizionismo, nella sua elementarità politica, al cui fondo sta un'insaziabilità e una brutalità affaristica, è ti genuino rappresentante dell americanismo. Non vi sono scissioni o fratture fra lui e ti suo popolo, almeno quello delle colossali metropoli, delle colossali industrie, dei mastodontici grattacielo, dei giganteschi scioperi, dei mostruosi giornali, della rèclame sensazionale, della ciarlataneria rumorosa e banale, delle scoperte e delle invenzioni grottesche.

Egli è l'esponente della così detta civiltà americana, brutale, materialista, frenetica, puerile, che ha costruito l'uomo meccanico, si è messa in comunicazione con Marte, ha calcolato cento volte la fine del mondo e il numero dei capelli sul cranio umano, ha figliato i gangster e le girls. L'uomo meccanico è la più schietta espressione di questa civiltà che ha per suo sovrano imperatore dio il dollaro, per l'amore del quale si è foggiato il decalogo della vita perfetta e si sono compilati i canoni della morale americana. Il dollaro è l'emblema di nobiltà nella repubblica stellata, dove l'unico valore che conti è quello della moneta. Quando gli americani facevano incetta di opere d'arie in Europa, apprezzavano un Raffaello, un Rubens, un Van Dyck secondo il prezzo sborsato: la gerarchia del valore artistico era regolata sul valore monetario. Il quadro o la statua erano I espressione di una ricchezza, la dimostrazione di una capacità economica. Se avessero potuto, i miliardari d'oltre Oceano avrebbero comperato il Duomo di Milano o la Basilica di S. Marco di Venezia per esporti nei loro giardini col cartello del prezzo pagato. Roosevelt è il rappresentante di questa civiltà che disprezza le civiltà latina, germanica, giapponese, fondate sui valori spirituali, sul pensiero, sulla cultura, sull'arte, sulla tradizione, sulla fede. Ed è perciò legittimamente alleato di Stalin, sebbene l'alleanza paia mostruosa. Roosevelt e Stalin credono nello stesso idolo, il metallo, affidano la speranza e la certezza della vittoria al numero: numero di aereoplani, di carri armati, di cannoni, di uomini. Entrambi corrono verso il più grande, ti mastodontico, l'enorme: carri armati grandi come case, aereoplani grossi come navi, bombe enormi come gasometri. Tutti i problemi della guerra sono posti e risolti a chilometri, a metri cubi, a tonnellate. La Russia sognava la conquista del mondo, dall'Imalaia dei suoi piani quadriennali, quinquennali, decennali di preparazione meccanica, come gli Stati Uniti la sognano dalla vetta della loro potenza industriale e finanziaria; e l'uno e gli altri, adoratori dello stesso bestiale Moloc, compagni di fede e d'illusione, credono chimera lo spirito di un popolo, la sua forza morale, la sua tradizione, e bagaglio inutile la sua storia e la sua gloria.

Roosevelt, interprete dell'americanismo e persuaso di essere il messia di una nuova civiltà, è il continuatore di Wilson. Nel 1918 Wilson credette che gli Stati Uniti avessero vinto la guerra e s'illuse di sedere arbitro della pace a Versaglia. Egli, ti presidente, traversò l'Atlantico per tagliare, secondo la giustizia salomonica, i confini d'Europa e assestare i popoli definitivamente. I quattordici punti brillarono come stelle nel cielo politico del mondo e Washington sfolgorò come il centro della sapienza. La povera Europa sconquassata, incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi, aveva trovato in Wilson ti suo ordinatore e disciplinatore, ti suo mentore e il suo maestro. Poi Wilson si ritirò sotto la tenda, e l'Europa, inquieta e ingrata, frantumò e dissolse il bel castello costruito o almeno disegnato dalla sapienza americana. Roosevelt volle riprendere, con maggiore energia, la tutela dell'Europa senza pace, si fece paladino della democrazia e della plutocrazia pericolanti, smaniò di far udire la sua voce, lanciò i suoi messaggi, diffuse le sue promesse, i suoi consigli, le sue minacce, i suoi incitamenti. Senza che nessuno lo chiamasse, volle essere il patrono d'Europa, ti tutore degli immortali principi, l'ordinatore e il disciplinatore della otta dei popoli, il giustiziere universale, il patriarca della politica internazionale.

Roosevelt sogna che la caput mundi sia Washington e la Casa Bianca il nuovo Campidoglio foggiatore del nuovo diritto delle genti.

Questi i limiti agognati dell'imperialismo americano, che vuole soppiantare la civiltà dell'Europa ormai decrepita e moribonda. Anzi decrepita e moribonda ormai da decenni. Bisogna confessare che a stimolare tale presunzione e tale illusione contrìbuirono gli stessi europei adoranti e scimmiottanti l'americanismo. Anclie nel nostro continente il metallo, la macchina, l'oro, la cifra, il numero cominciarono ad essere considerati elementi essenziali della civiltà, e il pensiero, l'arte, la poesia, la cultura ad essere svalutate. E la letteratura e l'arte, come la essenziali della civiltà, e il pensiero, l'arte, la poesia, la cultura ad essere svalutate. E la letteratura e l'arte, come la musica e il cinematografo, la moda e il costume si americanizzarono. Le canzonette tipo americano, i halli americani erano di moda come il razionalismo e il funzionalismo che uccidevano l'arte con la geometria e negavano il hello per l'utile, invece di conciliarli. Si scambiava per grandioso il colossale, per e negavano il hello per l'utile, invece di conciliarli. Si scambiava per grandioso il colossale, per magnifico I enorme, per augusto l'iperbolico, per geniale l'improvvisato, per moderno il deforme, per sublime il sensazionale, per retrivo e antiquato l'armonioso, il meditato, l'elaborato. Hollywood era, con tutte le sue stelle, i suoi astri, i suoi soli che oscuravano la grandezza di tutte le Duse e di tutti gli Zacconi, un centro d'arte insuperabile, e il grattacielo il capolavoro dell'architettura moderna.

Indubbiamente l'Europa ammirava l'America del Nord. Oggi ci siamo accorti che la civiltà americana è l'espressione di una mentalità grossolana e rudimentale, di un praticismo e di un meccanicismo brutali, che l'anima americana, degli americani anglosassoni, è primitiva e barbara, che dall'America non ci è venuta nessuna idea universale, che l'America non ha prodotto nulla di immortale nè nell'arte nè nella scienza nè nella filosofia nè nella politica.

Noi Europei possiamo stupirci o scandalizzarci delle f rottole, delle menzogne, delle gonfiature della propaganda di guerra statunitense, percliè ci paiono di una impudenza superlativa, ma esse sono conformi ai metodi reclamistici americani, e la propaganda di guerra è trattata nello stesso modo di quella commerciale ed elettorale. L'invenzione delle notizie sensazionali, l'esagerazione sino all'assurdo e la deformazione puerile dei fatti, le fotografie fabbricate in redazione, le cifre sempre più astronomiche sugli armamenti sono il frutto di una banale mentalità commerciale. E' la rèclame. trasferita dal campo commerciale a quello bellico, per cui è lecita, perchè utile, ogni spudorata menzogna, ogni ingunnatrice e stuzzicante menzogna. Vedete il presidente Roosevelt che, senza temere di far scompisciare dalle risa i suoi governati, proclama che la sua guerra ha lo scopo d'istituire il regno di Cristo credendo probabilmente con ciò di rispondere al discorso natalizio di Pio Xll. Egli sa di dire una enorme sciocchezza, ma sa pure che bisogna colpire il pubblico suonando ferocemente la grancassa, stupirlo, stordirlo, sbalordirlo, ammannirgli ogni giorno una nuova sensazione violenta, fabbricargli draglie sempre più eccitanti, stimolanti sempre più energici. E' un pubblico quello di Nuova York, di Boston e di Filadelfia barbaro e bambino che esige spettacoli abbaglianti, squillo alto di trombe, scossoni brutali, colori sgargianti, e non ha capacità critiche, forza di riflessione, voglia di pensare e di Nuova York, di Boston e di Filadelfia barbaro e bambino che esige spettacoli abbaglianti, squillo alto di trombe, scossoni brutali, colori sgargianti, e non ha capacità critiche, forza di riflessione, voglia di pensare e di giudicare. La propaganda di guerra è quella delle agenzie pubblicitarie, e le operazioni belliche sono presentate come gli effetti di una crema per la barba o di un lucido per le scarpe.

Roosevelt proclama oggi che dalla sua vittoria uscirà il regno di Cristo, come ieri ha proclamato coi quattro punti il trionfo democratico, ma così, per far chiasso, senza dare importanza alle sue parole, ben sapendo ch'esse non esprimono il suo pensiero, nè i suoi propositi. Così prometteva solennemente la pace al suo popolo prima delle elezioni pur covando dentro di sè la decisione della guerra. Questa sua marioleria è americana al cento per cento. Egli concepisce la guerra come il lancio di una nuova impresa potenziata dalle banche dei vari successori di Morgan e compagni, un gigantesco affare che deve conquistare tutti i mercati del mondo e sottomettere tutte le terre alla autorità economica degli Stati Uniti. E mentre grida ai quattro venti che combatte pel trionfo della giustizia universale, difenile la società supercapitalista e cerca d'imporre la tirannide della plutocrazia. Perciò la guerra è antirivoluzionaria e conservatrice.