Friday 9 March 2012

Italia e Irlanda

(Pubblicato in « Gerarchia », 1941)

di Pier Fausto Palumbo

La rappresentanza diplomatica, stabilita per corrispondere a un voto del Parlamento di Dublino del 14 dicembre 1937 tra Italia e Irlanda, non ha dato inizio ma ha piuttosto rinnovato e posto su diversa base i secolari rapporti tra i due popoli, ispirati da ragioni religiose e culturali.

Ma lo scambio di una rappresentanza ufficiale tra i due Paesi avviene in un momento storico che non si può non rilevare: quando ormai l'Isola nordica ha potuto rivendicare i suoi diritti di libertà e di autonomia, a conclusione di una tenace lotta di secoli, seguendo in questo la via che l'Italia aveva mostrata, col suo mirabile risorgere.

Oggi che quel senso tormentato e tempestoso di libertà che aveva animato in uno spazio tante volte secolare il popolo irlandese nella disperata resistenza e nella ansiosa attesa può alfine avere il suo esaudimento, o esser prossimo ad esso, Roma che diffuse nell'Isola la luce più grande — quella della fede —, l'Italia, che dell'emigrazione missionaria irlandese costituì la tappa più notevole e conclusiva, non possono non tornare intimamente vicine all'Irlanda rinnovata e rinsaldata dalla lotta e dalla vittoria.

Non sconosciuta ai Romani, se anche rimasta appartata dal costituirsi dell'Impero al contrario della vicina Britannia, l'Irlanda (i geografi antichi le pongono il nome, che poi andrà dimenticato, d'Hibernia), in cui si era radicata profondamente la civiltà celtica, non senza influssi tuttavia romani. Ultima terra del vecchio Occidente, essa è attratta — anche a tralasciare la teoria dell'origine mediterranea dei suoi abitanti — nell'orbita della latinità e della sua massima espressione, Roma, dalla diffusione del Cristianesimo. Da allora una stretta frequenza di rapporti si ingenera tra la Sede Apostolica e l'Isola celtica, che del primato di Roma fu fedele assertrice. Allora, per virtù della grande idea comune, la lontananza geografica si mutò in vicinanza: da allora, e per secoli, tutte le vie dell'Irlanda portarono a Roma.

Nella seconda metà del V secolo, l'Irlanda riceveva dall'antico schiavo, rimasto affascinato dall'isola smeraldina, Patrizio, il dono miracoloso della fede cristiana: rapidi e incessanti, da quel momento, i progressi della civiltà nell'Irlanda. Da Roma le giunge, trasmessale insieme alle istituzioni religiose, la cultura classica: di cui l'anima nazionale si imbeve, tanto da avvicinarsi, sulla guida inimitabile della cultura e della fede di Roma, più d'ogni altra Nazione, al clima spirituale del mondo latino e mediterraneo. Nella splendida fiorita di asceti e di pensatori, che dal VI al XII secolo contribuì intensamente alla formazione dello spirito monastico ed allo stabilirsi della Scolastica, fede e cultura si fondono in un solo grande amore. Un fervido moto di espansione religiosa si accenna, sùbito, da quei chiostri irlandesi, in cui si erano raccolte schiere di asceti e di dòtti. La fede precede la cultura. L'irraggiarsi del movimento missionario ha un fine unico: quello dell'affermazione vittoriosa della fede, nel suo senso più alto, presso i popoli non ancòra, o insufficientemente, tòcchi dalla parola divina. A gruppi o ciascuno per proprio conto, monaci irlandesi si stabiliscono in Francia, in Spagna, in Svizzera, ancor più che nella vicina isola britannica: si rivolgono a rinvigorire la fede, ai loro occhi in declino, con il loro entusiasmo ascetico. Ma mèta più d'ogni altra ricercata ed ambita, anche tra i maggiori disagi, è l'Italia. Dove giungono, e fondano conventi insigni o divengono vescovi celebrati per abnegazione e pietà, S. Colombano e S. Frediano, S. Donato e S. Emiliano, Dungallo e Marcello.

A questo movimento d'espansione che motivi ascetici ispirano succede, dopo che l'invasione danese e poi le prime incursioni e affermazioni autocratiche inglesi si effettuano nell'Isola, un intenso moto emigratorio di dòtti, di poeti, di patrizi, che riversano in altre patrie il loro fervore di attività e la loro potenza intellettuale. Così avviene che s'incontri alla corte di Carlo Magno, ad Aquisgrana, una schiera di pellegrini del sapere, di dòtti, che il grande imperatore stima ed ama e cui affida importanti uffici: Sedulio Scoto e Scoto Eriugena, Giuseppe e Clemente. Alla corte imperiale, questi dòtti irlandesi si incontravano con insigni rappresentanti della cultura italiana, come Pietro da Pisa, il diacono Paolo, il vescovo Paolino. Ed anche Carlo Magno fa in modo di stringere ancor più i già stretti legami tra le due Nazioni, equidistanti dal centro del suo impero ed ugualmente lontane inviando Irlandesi in Italia: un Dungallo, ad esempio, a fondare lo Studio di Pavia.

Dietro questi araldi della pietà e della dottrina irlandese, una piccola folla si profila: sono gli emigrati dall'isola verde, costretti dalle angherie e dalle stragi del nuovo dominatore inglese a lasciare per sempre la patria. Un forte gruppo di esuli si stabilisce in Italia. Mentre il numero dei monaci scoti aumenta nei chiostri che nei secoli precedenti illustri compatrioti avevano fondato, le maggiori città italiane vengono ciascuna ad avere una piccola colonia irlandese. Anche Roma: la diffusione del cognome Scotti ne è la maggior prova. Pure ispirato dalla Chiesa e da Roma era stato un nuovo rapporto, stabilitosi tra l'Italia e l'Isola lontana, nel vasto movimento che aveva recato al diffondersi per il mondo del canto gregoriano. Che, con la liturgia romana e la cultura classica, è il terzo fattore di una vicinanza, ugualmente sentita nei secoli del Medio Evo nei centri della Penisola ed in quelli dell'Irlanda. Le forme della musica chiesastica, del resto, i modi del gregoriano, avrebbero esercitato sulla musica popolare irlandese una secolare, profonda influenza.

D'altra parte, anche in questo più recente Medio Evo, la cultura irlandese non rimane supinamente soggetta alla latina e chiesastica: ma nella cultura e nella musica afferma la sua originalità e il suo calore espansivo. Ben rappresentano l'Irlanda in questo tempo gli autori ignoti della Navigatio Sancti Brandani e della Visio Tugdali — a gloria dei quali è l'esser stati, come a tutto il Medio Evo, noti a Dante —, o gl'innovatori del modus musicae Sedulio Scoto e Scoto Eriugena.

Non però ai secoli del Medio Evo si fermano questi rapporti: giunto il tempo, per l'Isola nordica, della peggior schiavitù, e aggiuntesi, sotto Enrico VIII e i suoi successori, alle persecuzioni politiche quelle religiose, tra le masse di fervidi patrioti e cattolici che abbandonano la patria taglieggiata, insanguinata e divisa, forti gruppi di pellegrini si dirigono verso Roma. Sotto il mal governo di Giacomo I Stuart uno stuolo di questi esuli compie a Roma il suo viaggio senza ritorno: così è che nella pace di una chiesa romana, S. Pietro in Montorio, sono sepolti alcuni dei maggiori campioni del patriottismo irlandese: l'eroico O'Neill, suo figlio Ugo e due membri della famiglia O'Donnell.

A Luca Wadding, che giovane lasciò l'Irlanda e venne esule a Roma, sono dovuti quegli Annali dei Francescani, cui attese con cura paziente e che costituiscono ancòra una delle testimonianze maggiori del fervore di studi del Seicento romano, e i due istituti religiosi che ancor oggi ricordano nell'Urbe l'Isola lontana, fedelissima a Roma: il Collegio Irlandese e il Convento francescano di S. Isidoro.

La vicenda religiosa e culturale rende, come s'è visto, vicini i due Paesi lontani. Ma non solo il fattore spirituale colma il distacco, oggi non più grave, dello spazio. Anche la stessa affinità della vicenda nazionale e politica. L'ltalia ha preceduto di un ottantennio, sulla via della libertà e della unità, l'Irlanda. Ma i due risorgimenti, le due rivoluzioni nazionali, si erano fino al 1860 sviluppati coerentemente. Nella sanguinosa vigilia, sul principio del 1848, gli Italiani attendono ansiosi notizie dall'Irlanda, gli Irlandesi dall'Italia. Più lunga l'età della servitù politica per l'Isola, oppressa sotto una dominazione più grave perchè più vicina e strapotente: ma le ultime tappe verso la libertà si svolgono per gradi e, si potrebbe dire, di conserva. Tra il 1847 e il 1848 Mazzini guarda ad O'Connell, O'Connell a Mazzini.

Questo amore degli Italiani per l'Isola sorella nella sventura non si era destato in quel meriggio dell'Ottocento. L'interesse davvero vigile e ansioso di alcuni papi per la causa irlandese — causa di fede e di giustizia —, le speranze riposte da Gregorio XIII nell'Isola fervidamente cattolica come in una certa alleata ed in una base sicura per la lotta contro il protestantesimo e la ricattolicizzazione dell'Inghilterra, i tentativi effettuati da Urbano VIII, a mezzo del nunzio Scarambi e del vescovo Rinuccini, per assicurare l'efficacia della reazione cattolica nell'Isola, sono le più sincere premesse per quell'allergeni delle simpatie per l'Irlanda, nel nostro popolo, negli anni decisivi del Risorgimento. Le sventure dell'Isola infelicissima non potevano non incontrare comprensione e compatimento in un'Italia fervidamente protesa con tutte le sue forze al riscatto imminente.

Si annunciava, per l'Irlanda dopo l'abrogazione del Poyning Act e lo stabilirsi dell'Act of Union, per l'Italia dopo la vicenda napoleonica e i moti del 1820-21, la vigilia della libertà. La stessa causa ne aveva, nei secoli andati, prodotto la perdita: le lotte tra i vari dominanti e la mancanza di una salda coesione nazionale, con in più l'incosciente appello allo straniero a dirimere contrasti locali. Una stessa, inesausta passione nazionale, aveva, dal momento triste della conquista straniera, preparata l'ardua riscossa. Ma di questa intimità e di questa vicinanza storica tra l'Italia e l'Irlanda lasciamo la testimonianza all'ultimo gesto dell'eroe nazionale irlandese, Daniele O'Connell. Egli, morendo vittima della tragica epidemìa del 1848, che, con la sua morte, valse a stroncare e a rimandare di un secolo l'avvio irrefutabile all'autonomia e alla libertà, volle che il suo cuore fosse conservato nella città, che è il Pantheon universale: Roma: forse ad affidare la continuazione della lotta e la certezza della vittoria ai destini immortali dell'Urbe.

Il suo voto non ha mancato di compiersi. Anche se oggi la situazione politica dell'Irlanda, privata delle sue province settentrionali, è assai simile a quella dell'Italia dopo il Sessanta: dell'Italia, la cui unità era stata proclamata, e che pur rimaneva priva di Venezia e di Roma. Ma nessun dubbio è ormai possibile che l'Irlanda ripeta — sacro d'ogni popolo il cammino alla libertà —, anche se con un secolo di doloroso ritardo, il destino stesso d'Italia. Questo l'augurio che dalla nuova giovinezza italiana si rivolge all'Isola lontana, che ancóra soffre ed attende il giorno del compimento della sua autonomia.

L'entrata in vigore della nuova Costituzione, elaborata da De Valera, non poteva, difatti, sanare tutte le piaghe e comporre tutti i problemi, che secoli di oppressione e di servitù avevano fatto insorgere con inaudita violenza. Se una ben diversa forma d'autonomia, da quella sancita nello Statuto del 1921, scaturisce dalla nuova Costituzione, e l'alta signoria della corona inglese e la sua rappresentanza per mezzo di un governatore nonché il tributo obbligatorio riconoscente l'antico diritto dei landlords (proprietari inglesi delle terre dell'Isola), decadono e si dissolvono, lo Stato irlandese rimane sempre in una situazione precaria e di dipendenza rispetto alla maggior isola vicina per il permanere dell'Ulster provincia inglese e per la impossibilità pratica di scindere l'ancor primitiva economia irlandese dagli scambi con l'Inghilterra.

Ma anche un altro problema l'Irlanda — e l'Italia, pure in questo, offre la via — deve affrontare e risolvere: l'organizzazione dei suoi figli sparsi, a milioni, per il mondo, parte viva e integrante della Nazione. Da questi, come dagli Irlandesi in patria, l'Irlanda deve attendere la sua nuova esistenza.

Ma questo sorgere a nuova vita della Nazione irlandese è oggi ritardato e contrastato da un evento di ben piò vasta portata: la guerra europea e già forse mondiale. Nelle ultime settimane la guerra si è venuta avvicinando alle coste dell'isola: nell'ora fatale che si avvicina, l'Inghilterra cerca di creare un diversivo nella minore isola vicina, base ormai presso che sola di rifornimenti e di controllo per assicurare i sempre più urgenti soccorsi americani o, forse anche, la possibilità di un trasferimento del Governo inglese nel lontano Dominion canadese.

La minaccia si aggrava ogni giorno di più sull'Irlanda. II suo piccolo esercito è pronto al tentativo disperato di ricacciare in mare la nuova, impreveduta, invasione. Ma, dinanzi alla imminenza del suo stesso pericolo, l'Inghilterra non avrà scrupoli che non ebbe mai nel passato, quando nessuna ragione vitale poteva spingerla. Tuttavia, accanto al pericolo estremo, una più sicura visione di avvenire può proprio ora chiarirsi al popolo irlandese, e al mondo per esso. La guerra ha creato la situazione nuova, che potrà rendere possibile una sicura esistenza alla nuova Irlanda; la guerra ha creato le premesse della totale indipendenza dell'Isola e della sua autonomia, anche economica e politica, dalla maggiore isola vicina.

La fine della guerra, con l'indebolimento che fatalmente recherà dell'Inghilterra, renderà possibile quello che fino al settembre 1939 non poteva non ritenersi impossibile: un'Irlanda veramente, e per sempre, agli Irlandesi. Non v'è chi non veda come anche in questo più alto significato della immane lotta in corso un uguale destino collega Italia ed Irlanda.