(Pubblicato in « Gerarchia », giugno 1943)
di Gianni Calza
Anche a rifiutarsi di credere che la storia e la vita politica dei popoli abbiano le loro ore — cioè il tempo del bene e quello del male, ti tempo degli eroismi e quello degli egoismi, il tempo delle grandi tensioni ideali e quello dei pigri abbandoni — non si può fare a meno di osservare che le supreme crisi di trapasso fra l'una e l'altra civiltà sono contrassegnate, oltre che dalle esplosioni rivoluzionarie, anche dai caparbi ritorni offensivi della reazione. Ogni epoca ha avuto la sua reazione ed ogni epoca l'ha rivista almeno una volta all'attacco, prima dell'estrema dissoluzione, tesa a imbrigliare il futuro nétta regola della resistenza passiva, nell'apologià dell'ordine legale, nella frenesia delle santità di principio e dette onorabilità di natura. Nella crisi di trapasso dall'89 democratico e borghese al '22 fascista, l'ora detta reazione coincide evidentemente con questi anni di guerra rivoluzionaria. O la reazione ritarda oggi i tempi della rivoluzione o la rivoluzione la travolgerà prima di essere stata negata; o la reazione affronta oggi l'idea nascente della nuova civiltà o si scoprirà a parlare essa stessa il nuovo linguaggio prima di avere smesso l'antico. E confonderà i termini senza confondere le idee, confonderà gli uomini senza confondere la rivoluzione. O la reazione si dichiara oggi antifascista in nome della democrazia ottantanovarda o l'89 sparirà dalla vita civile dei popoli prima di essere stato brandito come arma ideale dell'anti-rivoluzione.
Perchè non v'è dubbio: nessuno può rimandare il conflitto ideale; nessuno può costringere i popoli a combattere ancora entro l'89, invece che per esso o contro di esso; nessuno può illudersi di far tacere la rivoluzione nella guerra, affermando che la guerra difende le future possibilità rivoluzionarie del nostro popolo. E' già troppo difendere il passato: figurarsi l'avvenire. Nessuno può illudersi di far sparire la rivoluzione dalla guerra e — con la guerra — dulia vita dei popoli, affermando che tutte le guerre sono rivoluzionarie perchè mutano qualcosa: gli animi o i corpi, le idee o le leggi, i regimi o i confini; oppure affermando che la rivoluzione è di ogni giorno e di ogni atto umano: dello Stato che muta territorio, del popolo che muta regime, dell'individuo che muta vestito. Vi è un solo modo d'essere rivoluzionari: quello di negare la civiltà che tramonta; e perchè questa negazione fosse molteplice, bisognerebbe che la civiltà contro la quale si combatte non fosse tutta e soltanto democratica, non si rispecchiasse — per noi e per tutti, per Roma e per Londra e per Mosca — nell'Enciclopedia, ftiosoficamente, e netta Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, politicamente. Diceva De Maistre — dunque un reazionario! — che la rivoluzione è un'epoca; e non poteva dire parola più grande per indicare la tremenda grandezza e l'universale estensione del fenomeno rivoluzionario.
Non si difende l'anti-ottantanove di casa combattendo per un più grande '89 fuori di casa. L'aver cominciato ad operare tra noi per la rivoluzione non ci dà più diritti dell'avversario a continuare fuori di noi contro la rivoluzione. Borghesia e proletariato, classe e popolo, dobbiamo infine accettarli come concetti equivalenti, se accettiamo di equivalerci con gli avversati nelle aspirazioni e nelle « esigenze », se ci distinguiamo da esisi nello Stato per tornare a identificarci con essi quando lo Stato agisce, come deve agire, sul piano internazionale.
Non si difendono le interne conquiste sociali difendendo le soglie di casa; se mai si difendono i confini difendendo la rivoluzione. Ma poi, di quale difesa si parla? Le rivoluzioni si fanno, non si difendono ad ogni passo. Non sono la follia di un giorno, ma la costruzione dura di tutti i giorni, siano essi di pace o di guerra. Chi ha cuore saldo per non fermarsi a mezza strada, per vedere l'oggi in funzione del domani, e più il domani che l'oggi, non può credere che alla guerra spetti il compito di salvaguardare il corso delle faccende domestiche e di difendere le conquiste di casa come pezzi da museo. Ammesso che la difesa dei risultati raggiunti sia la premessa di ogni ulteriore conquista, non è la difesa spiciola e contingente di ogni interesse particolarmente costituito — anche se la « particolarità » è poi la Nazione — che può facilitare il raggiungimento degli scopi ultimi. La nostra barca, pur navigando tra i flutti procellosi della guerra, non fa acqua. E le piccole o grandi difese non fanno le rivoluzioni.
Ma — si chiede — e il nostro tradizionale realismo politico? L'idea, sta bene; ma c'è anche la prassi. La spinta ideale del popolo, bene anch'essa; ma c'è il freno dell'azione politica. La rivoluzione, ottima cosa; ma c'è la diplomazia. Ebbene, occorre scegliere tra le rinunce ideali e quelle diplomatiche? Se sì, per noi non v'è dubbio: le rinunce occorre farle sul terreno diplomatico. Occorre magari affrontare l'accusa d'ingerirsi negli affari di casa altrui (la più tremenda, accusa che una diplomazia borghese possa muovere), ma non rinunciare spontaneamente atta forza esplosiva dell'idea. Se anche non fosse vero che si difende la rivoluzione estendendola, è sempre vero che non si può soffocare l'universalità dell'idea, quando esiste, per salvare l'internazionalità della forma, che può esistere soltanto nel codice cifrato della borghesia, e per i borghesi.
Ma — si obietta ancora — l'affermazione del carattere rivoluzionario della guerra nasconde il tarlo roditore di ogni politica ideale: la retorica. Rispondiamo: se un pericolo v'è nell'affermazione del contenuto rivoluzionario della guerra, non è già quello di perdersi nella palude delle parole per uscire dal mare della guerra guerreggiata, ma è invece il pericolo di non usare parole sufficientemente alte e precise per simile intento. Se retorica c'è, dunque, importa espellere dal nostro discorso le parole che sono da meno, invece di sminuire l'argomento del discorso perchè non sia di troppo rispetto al linguaggio.