Friday 9 March 2012

Diritto penale totalitario nello stato totalitario

(Pubblicato in « Rivista italiana di diritto penale », vol. 11, 1939)

di Giuseppe Maggiore

I. Crisi o rivoluzione?

È un giudizio alquanto superficiale quello che considera come un tipico movimento rivoluzionario, nella storia del diritto penale, il sorgere della scuola positiva in contrapposto alla scuola classica, sulla fine del secolo XIX. L'urto delle due scuole fu piuttosto il segno di una crisi che l'annunzio di una rivoluzione. Una vera rivoluzione ha sempre un motivo e uno sfondo politico. Perché solo sul terreno politico il cozzo delle idee raggiunge quello stato di aspra tensione capace di rovesciare una vecchia situazione di cose e di instaurare un ordine nuovo. I bruschi rivolgimenti economici, giuridici, artistici, scientifici, religiosi si agganciano sempre a interessi politici, presuppongono, cioè, un nuovo modo di sentire e di volere in rapporto alla vita collettiva, che culmina nella vita dello Stato. Ciò deve dirsi in particolar modo del diritto, e del diritto penale, permeati, in altissimo grado, di elementi e di interessi statuali.

Ora, il positivismo politico giuridico-criminalistico fu invece un movimento di esclusivo carattere dottrinale. Esso volle rappresentare, più che il sintomo di un orientamento politico, la inaugurazione di un nuovo metodo: il metodo induttivo, osservazione o galileiano, contrapposto al metodo deduttivo o logico-astratto della scuola classica, nello studio del diritto e del delinquente. Non può dirsi, in verità, che l'elemento politico sia del tutto sfuggito alla scuola positiva. La quale, all'individualismo della scuola classica preoccupata di rivendicare, col Beccaria, i « diritti dell'uomo » conculcati dal potere politico, volle contraporre la necessità di un maggiore equilibrio tra i diritti dell'individuo e quelli dello Stato, si propose, in altre parole, di rispettare le esigenze insopprimibili della difesa sociale contro il delinquente, pur senza disconoscere i diritti imprescrittibili dell'uomo nel delinquente.

Ma agli interessi politici prevalsero gli interessi scientifici e filosofici: quali lo spostamento del fulcro del diritto penale dal delitto, come ente giuridico, al delinquente come soggetto antropologico: la concezione di questo come essere fisicamente e psichicamente anormale; il disconoscimento del libero arbitrio e della colpa morale, e quindi la soppressione del concetto di pena-castigo e di retribuzione, e l'affermazione dell' unico concetto di sanzione (o misura di sicurezza) corrispondente al principio di pericolosità, variamente graduata nella classificazione dei delinquenti; la preminenza della prevenzione sulla repressione nella lotta contro il delitto ecc.

Questi nuovi motivi dottrinari erano certo espressione di una crisi avvertita da tutti contro i vecchi schemi del diritto penale tradizionale, ma non costituivano di per sé un fermento rivoluzionario. Non era un motivo nuovo la considerazione del delinquente sostituita a quella del delitto, giacché la scuola classica non aveva mai negletto la valutazione dell'elemento « uomo » nell'applicazione della pena; non era nuovo il motivo della prevenzione, così energicamente affermato dall' iniziatore del classicismo, il Beccaria; non era una escogitazione senza precedenti la negazione del libero arbitrio, già aspramente contrastato nella storia della filosofia.

D'altra parte mancava alla scuola positiva, almeno in maniera esplicita, una rinnovata visione politica capace di differenziare nettamente il suo punto centrale di vista, sui problemi del diritto penale, da quello della scuola classica. Cresciute l'una e l'altra alle estremità opposte dello stesso secolo, avevano respirato lo stesso clima politico — il liberalismo — e si erano nudrite dei princip1 fondamentali di questo credo politico. In fondo all'una e all'altra restava fermo lo stesso concetto d'individuo, che il classicismo concepiva spiritualisticamente e il positivismo naturalisticamente; e se gli uni si preoccupavano di tutelare i diritti dell'uomo contro gli eccessi della giustizia penale, gli altri proclamarono il delinquente protagonista della giustizia penale. Gli uni e gli altri parlavano di difesa dell'ordine giuridico e dell'ordine sociale, ma erano timorosi di riconoscere, nel magistero penale, l'elemento della difesa dello Stato.

Ed è singolare specialmente seguire le tenerezze individualistiche del positivismo in due punti: nella sua avversione alla pena di morte, e nella sua scarsa valutazione del delitto politico. La pena di morte fu considerata da essi (Lombroso, Ferri) una inutile ed assurda crudeltà, e il delitto politico fu classificato come una forma di criminalità non atavica, ma evolutiva, e perciò poco pericolosa, e perciò guardata con particolare Indulgenza e sottoposta a un blando trattamento penale. Il più grande dei classici, che è il Carrara, aveva addirittura escluso dalla cerchia del diritto penale il delitto politico, considerandolo come materia estranea al diritto.

Non è da meravigliarsi se positivismo e classicismo, dopo una schermaglia, più di parole, talvolta, che di idee, durata trenta e più anni, finirono per vivere in rapporti di buon vicinato, e se i più recenti positivisti — a cominciare dal Ferri — dopo avere tanto combattuto contro il metodo tecnico-giuridico, di origine tipicamente classicistica, finirono per convenirsi al tecnicismo e al dogmatismo; e se infine il legislatore italiano del 1930, quando pose mano alla riforma del codice penale, trovò che il famoso contrasto fra due scuole era, più che disacerbato e sopito, già superato, in modo che la nuova legislazione potè presentarsi come un terreno di conciliazione tra i due indirizzi, che avevano battagliato anni e anni con ostinato spirito polemico.

Nelle paci, a base di reciproche transazioni, le due parti cantarono vittoria. E accadde anche in Italia che positivisti e classicisti si compiacessero del nuovo codice come un trionfo delle loro idee.

In verità bisogna dire che, se c'è nel codice italiano del 1930 qualcosa di poco organico, e bisognevole di una ulteriore elaborazione, codesto rappresenta o un residuo mal sistemato, o un'amalgama tutt'altro che omogenea di avverse concezioni teoriche; se c'è qualcosa di saldo e di vitale, qualcosa destinato a restare come espressione di una rinnovata coscienza giuridica, è quel che risponde alle esigenze e consacra i postulati della rivoluzione Fascista. Forse la nostra legislazione penale è, ancora, in qualche punto bisognevole di ritocchi, e di aggiornamento. Ciò è naturale: la rivoluzione fascista, lungi dall'essere un processo storicamente esaurito, è una rivoluzione perennemente in marcia, e molto cammino in avanti ha percorso dal 1930 ad oggi. Resta fermo tuttavia il principio che senza una grande rivoluzione politica non è possibile alcuna rivoluzione o riforma nel campo del diritto. Tutta la riforma legislativa, anzi addirittura la nuova coscienza giuridica del secolo decimonono, sgorga dalla rivoluzione francese. Per lo stesso motivo il nuovo diritto non può non procedere dall' unica grande rivoluzione ideologica, politica e storica, che domina il mondo moderno: la rivoluzione fascista.

Il diritto penale del secolo XIX — non solo classicista ma anche positivista — fu e rimase figlio della Aufklärung e dell' ideologia liberale. E lo stesso positivismo rimase sterile come movimento riformatore, perché gli mancò l'apporto di una ideologia politica. Si appoggiò, specialmente per opera del suo più grande rappresentante, Enrico Ferri, al socialismo e al marxismo: ma il socialismo marxista non fu capace di operare una rivoluzione politica In Europa, e di suscitare, in conseguenza, una rivoluzione giuridica. L' ideale del vecchio Stato e della vecchia civiltà — figli dell' illuminismo e della rivoluzione francese — rimase fermo fino alla guerra e al dopo guerra, fino a quando cioè la rivoluzione delle camicie nere non infuse nel mondo il fermento di una vita nuova. L'espressione di questo profondo rinnovamento è lo Stato totalitario. Qui è il punto di partenza del nuovo diritto penale.

II. Lo Stato totalitario.

La nuova realtà — che oggi impone la revisione di tutti i valori dello e in primo luogo del diritto — è lo Stato « totalitario ». Si dice che Io Stato totalitario sia uscito dalla guerra. La qual cosa soltanto in parte è vero. Vi sono nazioni, duramente provate dalla guerra, che sono rimaste fedeli alle vecchie forme politiche, e le difendono ancora con le unghia e con i rostri, pronte piuttosto a scatenare un altro cataclisma mondiale che ad accettare il nuovo tipo di Stato. La guerra fu un'occasione non da tutti i popoli messa a profitto. Solo alcuni, guidati da capi geniali, trassero da essa partito per inaugurare, con Io scatto animoso della rivoluzione, un ordine nuovo. Le rivoluzioni sono opera del genio costruttivo di un popolo, guidati da gagliarde tempre di condottieri.

Dopo la guerra solo un popolo, l'italiano, sentì il bisogno di creare un ordine nuovo sulle rovine dell'antico, solo un uomo, Mussolini, fu degno di chiamarsi grande capo. Al genio italiano la storia ha oggi consegnato la fiaccola della civiltà.

Dalla rivoluzione fascista (seguita dalla nazionalsocialista) è sorto il nuovo tipo di Stato: detto « autoritario » o « totalitario ». Preferiamo quest'ultima denominazione perché la qualifica di « autoritario » può ingenerare degli equivoci. Un ritorno all'autoritarismo, dopo un secolo di libertarismo, e di scapigliata licenza, può fare considerare i movimenti fascista e nazionalsocialista come una specie di marcia violenta imposta allo slancio del progresso; un movimento cioè di reazione, restaurazione o controriforma. II concetto di autorità implica inoltre in sé un che di negativo: fa pensare a un potere che schiaccia e infrena ogni iniziativa, personale e ogni nisus di energia. Or come ridurre le due grandi rivoluzioni europee a un quid negativum? Certo il fascismo e il nazionalsocialismo molte forze avverse hanno negato e distrutto. Ma peccherebbe contro la storia chi volesse specificare i due movimenti per via di un semplice prefisso di contrarietà (anti), dicendo che lo Stato totalitario è antindividualistico, antigiacobino, antiliberale, antiborguese, antimassonico, antibolscevico, anticlassista e via discorrendo.

Lo Stato totalitario, prodotto delle rivoluzioni costruttive del dopo guerra, ha invece un contenuto assenzialmente positivo, che lo distingue da ogni altra forma politica. Dei valori positivi stanno alla sua base: quali il popolo, la razza, la religione, l'economia, l'arte, che sono piene affermazioni di vita spirituale. La sua totali tarietà si mostra nell'origine, nella struttura, nella sostanza, nella funzione, nel fine.

Quanto all'origine, il nuovo tipo di Stato è un assoluto prius, non un posterius risultante dalla somma di più individui uniti da convenzione o contratto. Esso viene, per usare una frase aristotelica, logicamente prima di ogni comunità (come la famiglia, la tribù, il clan e la stessa società) ancorché storicamente segua talvolta a coteste forine di aggregazioni. Il dualismo fra Stato e società procede da motivi individualistici. In realtà lo Stato crea la società, perché non c'è società senza un'autorità super-individuale; e in questa trascendenza c'è in germe tutto lo Stato.

Quanto alla struttura, lo Stato totalitario è un sistema di forze storiche concrete, che s'incentrano in un soggetto o persona, e non un ordinamento di forme astratte, che fanno capo a un centro d'imputazione non reale, ma finto, secondo l' infelice costruzione normativistica del Kelsen. Lo Stato è una persona vera non finta, perché s' incarna nella personalità stessa del suo Capo. Esso non si fonda sull'astratta autorità della legge, ma sul prestigio di una persona fisica, armata di volontà e di coscienza, che è quella del Duce, capo della rivoluzione.

Quanto alla sua sostanza, lo Stato totalitario è nazione, popolo, razza. Totalità è il popolo inteso non come numero e quantità, conglomerato cioè di molti individui — ma come una massa omogenea che forma un tutto e si sente tale: nazione. Totalità è la razza perché essa — come eredità sempre viva — va oltre il passato e il presente verso il futuro, rappresentando, nella continuità delle generazioni, un valore eterno. Lo Stato totalitario è stato nazionale perché è uno Stato di razza. Inesattamente si dice che il concetto di razza, caratteristico del nazionalsocialismo, sia estraneo al Fascismo. Fin dal 1919, e precedentemente, Mussolini aveva posto il concetto di razza — l'italianità — al centro dello Stato. Se la lotta contro gli ebrei fu scatenata nell'anno XVII, già fin dai primissimi tempi della rivoluzione fu presente a Mussolini la purezza, l'elevazione e I' onore della razza italiana. Quanto alla funzione, nello Stato totalitario è immanente ogni forma di attività individuale e collettiva, il suo posto — posto d'onore — è dappertutto. Non dunque, chiuso in un apatico agnosticismo, egli si limita a tutelare il diritto e a fare da guardiano notturno all' individuo: ma si compenetra con la vita dell' individuo e della società, e lavora alla loro elevazione morale. Il motto mussoliniano: « Tutto nello Stato, niente fuori dello Stato, nulla contro lo Stato », significa che lo Stato controlla tutte le energie operose della vita individuale e morale: l'economia, il diritto, l'arte, la cultura, la religione. Sopratutto esso, come Stato di lavoro, tende a conciliare tutte le forze della produzione, superando i contrasti delle classi, nell' istituto delle Corporazioni. Le classi dividono, la corporazione unisce. Lo Stato fascista è totalitario perché corporativo.

Quanto ai fini, lo Stato totalitario persegue fini totalitari con mezzi totalitari. Egli non ha scopi vaghi e utopistici di eguaglianza, di fraternità, di felicità, ma compiti concreti di potenza. Potenziare la collettività (con la cura delle malattie, l'educazione fisica e morale, la epurazione della razza) e potenziare l'individuo mediante la formazione dell'uomo integrale, che non è solo l'homo oeconomicus ma il lavoratore, lo scienziato, l'eroe e il santo: questo il suo programma.

Tale programma viene realizzato per via del Regime e del Partito. Il partito unico, che vince e sùpera la molteplicità querula e rissosa dei partiti del morto Stato democratico (unico, quale « milizia agli ordini del Duce e al servizio della nazione fascista ») il partito che penetra capillarmente in tutti i plessi della vita sociale e controlla qualsiasi manifestazione di essa, è l'espressione più eloquente della totalitarietà del nuovo tipo di Stato rivoluzionario.

Per concludere, diremo che il senso ultimo dello Stato totalitario è la totalitarietà della politica. Disse Mussolini che « se il secolo XIX fu il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia, il secolo XX può dirsi il secolo dello Stato ».

Or che è lo Stato se non la politica in atto? E che è la politica, se non la scienza e l'arte della potenza degli Stati?

Nelle altre concezioni (socialismo, democrazia, liberalismo) la politica è solo una parte dell'attività dell'individuo e non la principale. Negli Stati usciti dalla rivoluzione, la politica balza in prima linea, è onnipresente e assorbente: non res subsiciva, ordinaria est.

L'uomo moderno nasce, respira, si muove, si forma e si perfeziona nella politica, in quanto vive non solo nello Stato ma per lo Stato. La politica è la più alta e perfetta forma di attività umana: è la matrice da cui germina ogni altra vita, materiale e morale. Diciamo morale, perché il secolo presente ha distrutto l'equivoco di un preteso dualismo tra morale e politica, di un conflitto tra i doveri verso la patria, e gli altri doveri.

L'avere riabilitato la politica svalutata e vilipesa in nome di una malintesa morale ascetica, che non è neppure quella cristiana, è merito del Machiavelli, iniziatore del mondo moderno; l'avere elevato la politica nobilitandola alla luce del dovere e dell'onore, al sommo dell'attività umana, è merito del Capo della più grande rivoluzione del secolo XX: Mussolini.

III. Politica e diritto.

Nel nuovo mondo espresso dai fianchi delle rivoluzioni totalitarie era fatale che non solo si accorciassero le distanze tra politica e diritto, ma si riconoscesse senz'altro la loro inseparabilità. Apparentemente (ma è un'apparenza che si rivela soltanto agli occhi miopi degli uomini rimasti fermi a mezza strada della storia) cotesto è un passo indietro. Giacché la scienza giuridica moderna si è costituita attraverso un processo di segregazione degli elementi politici dagli elementi giuridici, considerati come un sedimento estraneo — vera materia peccans — nel corpo del diritto puro. Un tal processo è più che mai evidente nella formazione del diritto pubblico moderno, il quale parve assurgere a dignità di disciplina giuridica solo quando fu depurato di ogni traccia di politica, per ridursi a una nuda sistemazione dogmatica delle norme di diritto positivo: la parola d'ordine in tale costruzione fu il diritto ai giuristi (cioè ai tecnici della dogmatica) la politica ai politici. Se non che, tale ricostruzione nascondeva in sé un inganno e un equivoco: l'equivoco che il diritto puro fosse soltanto quello privato, e che sugli schemi privatistici dovesse modellarsi la dogmatica di ogni altro ramo del diritto. Il pregiudizio privatistico ha influenzato, e tal volta avvelenato, nei tempi moderni, la elaborazione del diritto pubblico in specie, facendo sì che questo si dilungasse sempre più dalla realtà e divenisse inadatto a contenere la ricchezza delle istituzioni pubbliche nel loro incessante divenire. La ossessione, diciamo così, privatistica non ha mancato perfino di introdursi nel campo del diritto penale creando in qualcuno l'illusione assai ingenua di avere rivoluzionato il diritto penale avvicinando quanto più fosse possibile i suoi quadri dogmatici a quelli del diritto privato. Come è facile spesso scambiare il concetto di rivoluzione con quello di sovvertimento e di disgregazione!

La verità è che il divorzio tra politica e diritto ha avuto per effetto un depauperamento e intristimento del diritto medesimo. Si è detto: il diritto è quel che è, la politica è quel che deve essere: il diritto è una realtà fatta — fissata cioè in norme precise — e la politica è una realtà in fieri; il diritto è un dato, mentre la politica è un ideale; dunque nulla di comune tra queste due attività spirituali, nessun punto tangenziale tra le due scienze. E si è dimenticato che non si può affermare nulla di reale se non in funzione di un ideale che lo trascende, non si può porre alcun valore se non avendo sott'occhio un valore superiore, che faccia da misura e da norma; si è dimenticato che il giudice, se è un uomo e non una macchina, non deve maneggiare il diritto se non conformandolo a una realtà storica che eternamente diviene, e non può essere un buon interprete senza essere critico al tempo stesso. Ora la critica del diritto positivo, jus positum, si fa sempre in funzione di una valutazione politica. La politica cacciata dalla porta rientra sempre per la finestra, giacché non si può, in contatto con la realtà storica, applicare una legge scritta senza raffigurarsi una legge non scritta e più perfetta capace di meglio governare la realtà stessa che è un perenne mutamento.
 
Cotesto è giocoforza riconoscere oggi, dopo una più oculata valutazione critica della scienza del diritto. Oggi noi sentiaino che lo stacco netto, che una volta erasi operato tra politica e diritto, mettendosi di mezzo un baratro tra l'una e l'altra è un anacronismo. I tempi vogliono altro ritmo. L'ora che scocca sul monda è rivoluzionaria, e la rivoluzione non fa buon viso ai giuristi che sono per abito mentale, conservatori e misoneisti.

Si possono distinguere nella storia periodi politici e periodi giuridici. Nei primi si ha da fare con una realtà incandescente, con il divenire tumultuoso di nuovi bisogni e nuovi ideali, che reclamano un ordine e una legge. È l'epoca degli uomini di Stato e dei legislatori. Nei secondi si tratta di sistemare il già fatto e di interpretare e applicare le norme già imposte dal potere politico. È l'opera dei giuristi, degli esegeti, dei dogmatici. Tra le due epoche c'è lo stesso contrasto che c'è tra azione e pensiero, pratica e teoria. Il mondo vive oggi una fase di fervore pratico, di esasperata attività rivoluzionaria. Siamo dunque in un'epoca politica. Non vogliamo dire che non ci sia perciò più posto per i giuristi: ma essi hanno l'obbligo di divenire più politici perché i politici divengono più giuristi. Se il giurista oggi vuol contare qualcosa, si ricordi di una parola d'ordine: più politica e meno dogmatica.

IV. Il nuovo diritto penale.

La stretta interdipendenza tra diritto e politica è quanto mai perspicua nel campo del diritto penale. Dal diritto privato al diritto pubblico, e dal diritto pubblico al diritto criminale, l'aderenza tra politica e diritto si fa sempre più profonda, perché più si accorcia la distanza tra il diritto e la vita.

Nessun fenomeno sociale è cosi vibrante dello stesso ritmo della nostra vita come quello del delitto e della pena, che nella sua evoluzione storica esce sempre più della cerchia dei rapporti individuali per essere assunto nella cerchia degli interessi pubblici che fanno capo allo Stato. Una questione di proprietà, di eredità, di obbligazioni può interessare una o poche persone; il delitto, che si commette nel seno di un gruppo sociale, commuove la comunità tutta, la mette in allarme, e fa sorgere in chiunque un interesse alla repressione e prevenzione del fatto delittuoso. La comunità non resta mai indifferente di fronte al fenomeno del delitto, anche quando la punizione di questo è lasciata alla vendetta ed alla riparazione privata.

Quando poi la comunità si costituisce a Stato, per un crescente processo di organizzazione politica, è tutta la vita dello Stato che si rispecchia nel diritto penale. La concezione della sovranità, la posizione di un rapporto tra questa e i sudditi, i limiti tra autorità e libertà, tra diritti individuali e statali, le forme di governo si riflettono perfettamente nell'organismo della giustizia penale vigente in una data epoca. Quale la concezione dello Stato, tale la conformazione del diritto penale.

Questo parallellismo è immancabile. Vi è una corrispondenza precisa tra le forme politiche delle democrazie e tirannie del mondo antico, della repubblica e dell' Impero di Roma, dei comuni e delle signorie e dei principati del mondo medioevale e moderno, e le forme giuridiche della giustizia penale. Vi è una consonanza perfetta tra le ideologie e le istituzioni politiche del mondo moderno, del mondo uscito cioè della rivoluzione francese e il diritto penale durato sino a dopo la guerra, sin alla vigilia della rivoluzione totalitaria. Il illuminismo con il suo antistoricismo e la fede sconfinata nel progresso, con il culto feticistico della libertà, la sopravvalutazione dell' individuo, col mito del contratto sociale, con il sospetto verso ogni forma di autorità, prima di tutte quella statale, con la fiducia nell'azione miracolistica dell'ambiente sulla natura umana, e quindi con l'ignoranza e il disprezzo dei valori dell'eredità e della razza, tutto questo patrimonio di idee di principii e di pregiudizi, si riproduce nella costruzione del diritto penale moderno, dal Beccaria ai tempi nostri.

I codici penali che si susseguono lungo il secolo decimonono sono i codici dell' ideologia illuministica tradotta in principi giuridici, rappresentano una marcia progressiva verso il definitivo trionfo della concezione liberale che nell' illuminismo ha la sua base e la sua origine. In Italia la espressione più tipica di siffatta concezione politica fu il codice zanardelliano di diritto penale sostanziale del 1889, e il codice di diritto penale processuale, recante il nome di Finocchiaro Aprile, 1913. Venne la guerra, seguì la rivoluzione. Problemi nuovi, interessi e bisogni nuovi, nuove ideologie, hanno percorso il vecchio mondo e lo hanno fatto tremare sulle sue basi. L'umanità non ha ancora trovato il suo assetto definitivo; ma vi sono forme di vita istituzioni e concezioni perente, che non possono più ritornare. Tutto il mondo uscito dalla rivoluzione Francese, il beato mondo dell'Aufklärung, agonizza negli Stati democratici, che pur si sforzano di tenerlo in vita; ed è definitivamente sepolto negli Stati autoritari, che ormai hanno dato a se stessi una nuova formula politica ed una nuova legge di vita.

Il vecchio diritto penale non può più oggi esistere qual'era.

Rotto l'antico equilibrio politico, un nuovo equilibrio giuridico s'impone conforme a quello: non è concepibile una pacifica coabitazione tra il vecchio diritto penale liberale e le nuove forme della coscienza e della organizzazione politica; non è ammissibile una stridente sfasatura tra l'ordinamento giuridico penale e l'ordinamento statale, tra la scienza criminalistica e la spiritualità della nuova vita politica, che veleggia e si allontana sempre di più dalla visione illuministica e liberalistica. Una revisione dei principi e dei presupposti del diritto penale oggi s'impone, revisione condotta coraggiosamente con criteri politici e non grettamente giuridici, giacché il diritto non si rinnova se non per virtù della politica che opera in esso.

I problemi fondamentali del diritto criminale reclamano oggi un ripensamento critico e una nuova sistemazione. Questi problemi, che esamineremo partitamente, riguardano: 1°) il metodo; 2°) il fondamento del diritto penale; 3°) la legge e il giudice.

1) il metodo.

Il metodo che ha dominato la cultura del secolo decimonono, nel campo, del diritto porta il nome di « giuridico ». Esso consiste nella elaborazione del diritto mediante un processo logico che va dalla semplice esegesi, o dichiarazione letterale della norma, alla costruzione dogmatica. Il trapasso da quella che può chiamarsi giurisprudenza inferiore alla giurisprudenza superiore secondo la espressione dello Jhering – avviene mediante un processo di astrazione e deduzione, per cui la scienza del diritto positivo elaborando il dato si eleva fino al sistema. L'interprete può estendere e dilatare la norma in forza dell'analogia legis e dell'analogia iuris, senza tuttavia potere introdurre nel diritto più di quello che è contenuto nella legge. Egli interpreta il diritto e ricolma, occorrendo, le lacune restando sempre, anche quando ricorre ai « principi generali », nel sistema del diritto codificato. Ogni creazione di diritto nuovo, riservata al legislatore, resta pertanto interdetta alla giurisprudenza.

S'ha da riconoscere che all'impiego del metodo giuridico devesi il progresso delle scienze giuridiche nel secolo decimonono: in forza di esso la elaborazione dogmatica del diritto è salita a una perfezione formale, oltre la quale non è possibile andare.

Ma il pericolo di un tale procedimento è il formalismo: cioè quell'atteggiamento logico, che, a furia di arrischiarsi d'astrazione in astrazione e di sottilizzazione in sottilizzazione, finisce per perdere di vista la realtà storica e di brancolare nel vuoto. Il formalismo dimentica che il diritto è fatto per la vita e non la vita per il diritto.

Oggi tutti i giuristi che non si contentano di prendere il capello in quattro, con compiacenza sofistica, ma vogliono ascoltare il polso della vita, sono di accordo che il puro formalismo ha fatto il suo tempo e che conviene dare alla scienza giuridica il più ricco contenuto di concretezza, dove non c'è posto soltanto per i giudizi e i sillogismi logici, ma per il sentimento, l'irrazionale, la volontà. Oggi tutti coloro che non si sono lasciati addormentare dall'oppio del formalismo panlogistico, sono proclivi ad ammettere che la politica non va espulsa dal grembo del diritto, ma deve, al contrario, restare, col medesimo, in continuo contatto, se non si vuole essere inghiottiti dal gorgo del più sterile astrattismo.

Non è difficile d'altro canto cogliere i cosidetti seguaci della giurisprudenza pura in contraddizione con se medesimi, nell'atteggiamento verso il problema della politica. Essi, partendo da una specie di dottrina di Montoe applicata al diritto (il diritto ai giuristi) concepiscono il metodo giuridico come essenzialmente apolitico ed estrapolitico. Intanto non si accorgono che il metodo giuridico si basa su presupposti nettamente politici. Essi dicono: il diritto sta da sé, è un entità logica che vive in istato di autarchia perfetta, nelle formule inalterabili e astratte dalla legge, divincolatasi dal mondo pratico — in continuo divenire — della legge. Che cosa è questo diritto che vive in se e per se separato dal divenire storico? Nient'altro che il vecchio diritto naturale, quel diritto naturale che è lo spauracchio dei sacerdoti del metodo tecnico giuridico. Il diritto positivo, vive, si forma e determina nel crogiolo della vita politica — rapporti di potenza, urto di interessi, necessità pratiche ecc. — e in essa permanentemente si tuffa per rinsanguarsi e svilupparsi. La politica alimenta il diritto in ogni suo momento: legislazione, interpretazione, esecuzione. E non è forse una concezione politica quella che sta in fondo al procedimento dogmatico e tecnico della giurisprudenza?

Se ben si guarda la spina dorsale di un siffatto metodo è la visione stessa del liberalismo e della democrazia. Questi preoccupati soltanto del diritto dell' individuo, vedono nella legge scritta la salvaguardia di esso, ed è perciò che sopravvalutano la legge e la funzione legislativa a scapito delle altre fonti produttive di diritto. L'assemblea legislativa, uscita per via del gioco delle urne da una presunta volontà del popolo è essa ed essa sola depositaria del diritto, il potere sovrano di fronte a cui tutti gli altri poteri — giudiziario e l'esecutivo — devono cedere. « Les Juges » dice il Montesquieu inventore della teoria della divisione dei poteri « ne sont que la bouche, qui pronome les paroles de la loi, des étres inanitnés qui n'en peuvent modifier ni la force, ni la rigueur ». E Robespierre rincalza: « Le mot jurisprudence doit étre effacé de notre langage. Dans un état qui a sa consiitution, la jurisprudence n'est autre chose que la loi ».

Da queste premesse politiche è uscito tutto il movimento delle codificazioni in contrasto al movimento della scuola storica; dal dogma dello stato liberale-democratico, a base costruttiva, si è sviluppato il metodo tecnico-dogmatico, che è il metodo legalistico o del supremo attaccamento alla legge come rigida misura della sua giustizia. Ad accreditare un tale metodo conferito, per altro, un motivo storico: il predominio del diritto privato, caratteristico della cultura del secolo decimonono. Gli schemi privatistici — più familiari agli studiosi di quel secolo, romanisti la più parte — divennero come il modello e lo specimen di ogni altro ramo del diritto: dai quali schemi procedette una dogmatica essenzialmente privatistica. Solo di cgli studiosi di diritto romano hanno fermata la loro attenzione sul diritto pubblico, e hanno scoperto, nella struttura di questo, finora quasi del tutto inesplorato, l'architettura di una dogmatica nuova che non gravita tanto intorno al concetto di lex, quanto intorno a quello dell'auctoritas, come vivente volontà del principe. Il ripiegamento dei giuristi sul diritto pubblico dell'impero romano apre oggi un nuovo orizzonte al nuovo tipo di dogmatica, dove l'elemento politico esercita un peso di primissimo ordine. Intanto l'evoluzione stessa delle forme politiche, che si sono fatalmente orientate verso un nuovo tipo di Stato — Io Stato autoritario e totalitario — ha avuto per effetto di indebolire la vecchia dogmatica. Col decadere del prestigio dei parlamenti, usciti dal voto popolare, e col rinsaldarsi del principio di autorità, di cui è portatore il capo del governo, con lo spostarsi dalla sovranità dalla potestà deliberativa a quella esecutiva, col dissolversi dello Stato-contratto nello Stato-potenza, il presupposto del metodo giuridico è venuto a cadere e il metodo giuridico stesso resta vuotato di queir importanza che prima riteneva. Oggi, se ancora si vuole parlare di metodo giuridico, bisogna farlo a un patto; a patto che il diritto s'intenda non come un insieme di norme astratte, dalla cui distillazione nel vuoto si estrae la dogmatica, ma come una forma viva concreta e storica che ha la più immediata espressione nella politica.

La felice stagione del puro metodo giuridico è tramontata, per cedere il passo al metodo politico-giuridico.

In ogni settore del diritto, e specialmente in quello del diritto criminale, dovrà regnare quel metodo, che è veramente totalitario.

2) Fondamento del diritto di punire.

In omaggio a questo metodo totalitario, balza in prima linea il problema del fondamento del diritto di punire, che i giuristi pur da un pezzo s'ingegnano di mandare in soffitta.

Costoro hanno proclamato inutile e oziosa la ricerca del fondamento della pena. Al giurista — essi dicono — basta il fatto che il diritto di punire esista ed è sempre esistito: indagare oltre quel fatto — perché Io Stato punisca e a quel titolo — è cario sita da lasciare alla filosofia e alla politica criminale, che vive ai margini della filosofia. Che forse il privatista si è domandato mai il perché si applica I'una e l'altra sanzione di diritto civile? Chi ha mai chiesto perché il debitore abbia a sodisfare la sua obbligazione e il possessore debba essere tutelato nel suo possesso? Per fortuna la scienza e il buon senso non hanno mai condiviso l'apatia conoscitiva del giurista superdogmatico né mai rinun- ziato a porsi la tormentosa domanda: perché si punisce? Com'è noto, tre teorie hanno risposto all'assillante domanda: quella della emenda, quella della difesa, quella della retribuzione.

Ognuna di queste dottrine contiene in sé una parte di verità; non tutta.

La teoria correzionalistica o dell'emenda risponde all'esigenza morale che la pena non ferisca soltanto, ma risani; come la medicina a cui Piatone rassomigliava il castigo tale dottrina è evidente. Che la pena sia educatrice e correttrice, è una giusta esigenza nei rapporti della personalità individuale. Che l'uomo sia redento, non menomato e pervertito dal castigo è cosa che sta a cuore ad ogni uomo. Ma lo Stato mira più lontano, quando infligge la pena al delinquente, né può disarmare la sua mano di fronte al delinquente incorreggibile. Se pur fosse dimostrato che la pena non ha mai emendato e redento un solo reo, lo Stato dovrebbe pur sempre continuare ad esercitare la sua missione intesa a castigare i colpevoli e a premiare i virtuosi.

La teoria della difesa adombra un fatto vero: il fatto che ogni essere vivente turbato nelle sue condizioni di esistenza reagisce e si difende. La pena non sarebbe altro pertanto che una forma più consapevole ed evoluta di quella naturale reazione difensiva dell'individuo.

Ma chi non vede il presupposto individualistico di una siffatta teoria? Essa, prendendo le mosse dell'individuo che si difende, interpreta analogicamente come un puro fatto difensivo il magistero punitivo esercitato dallo Stato.

L'analogia non regge. Anzitutto la difesa è possibile — come è stato bene osservato — contro le aggressioni imminenti o future. Non si dà una difesa post factum. Ci si può vendicare, non difendere dalle aggressioni e dai delitti commessi.

In secondo luogo è grottesco pensare che lo Stato — mostruoso organismo di potenza e di forza, il gran Leviatano, secondo I'immagine di Hobbes — sia messo in pericolo, e debba difendersi, contro uno o pochi delinquenti che uccidono, rubano, stuprano o commettono altre grandi o piccole furfanterie. Lo Stato si difende, con la guerra, dalle aggressioni di uno Stato nemico. Ma è ridicolo parlare di una guerra dello Stato contro l'individuo delinquente, che sta con lui in rapporti di assoluta subordinazione, mai di parità.

Si dice — per girare la difficoltà — che il diritto penale difende la società più che lo Stato. Ma cosi si crea un dualismo tra società e Stato, che ha radici individualistiche. E si giunge all' assurdo di una difesa della società contro lo stesso Stato, quando si incriminano, come reati, i pretesi abusi del potere politico. La società concepita come un ordine di individui, al di fuori dello Stato, diviene un paravento del diritto dell' individuo.

Resta la teoria della retribuzione.

Questa più si accosta ad una visione totalitaria del diritto penale, giacché pone l'accento della penalità tanto sulll'individuo chiamato a rispondere del suo fallo, quanto sullo Stato-portatore dell'ordinamento giuridico verso cui egli deve rispondere. Il principio di retribuzione rispetta le profonde e insopprimibili esigenze della coscienza individuale, per cui solo chi sa moralmente di essere colpevole è tenuto a espiare il suo peccato (« nessuna pena senza colpa ») ma rispetta altresì la esigenza della collettività dello Stato, onde nessuna convivenza umana è possibile ove sia capovolta la massima che a bene segue bene e a male segue male. Una società e uno Stato che premiasse il male e punisse la virtù, sarebbero una tale mostruosità morale, politica e umana, da restare al di sotto della più abietta societas scelerum dove regna sempre, sia pure in forma pervertita, l'etica del merito e della ricompensa. Per questa comprensione dell'aspetto individualistico e superindividualistico della pena, della sua proprietà di contenere in se il meglio delle altre teorie (in quanto la retribuzione della colpa con la pena corregge, rieduca l'individuo e tutela l'ordine giuridico e politico), la teoria della retribuzione ha, più di ogni altra, carattere totalitario.

Ma essa — e perciò, insufficiente — trascura e lascia ancora in ombra il momento politico, che è decisivo, nel fenomeno della penalità. È vero che il delitto è colpa, e come tale va punito secondo il principio «colpa chiama pena». Ma perché è una colpa il delitto? Non soltanto perché offende o espone a pericolo l'individuo o lo Stato (la cui esistenza non ha da temere dalla semplice azione individuale), ma per un motivo superiore: perché attenta all'autorità e maestà dello Stato portatore dell'ordine etico giuridico. Il delinquente non disobbedisce e attenta solo ali' autorità della legge, come pensava il Binding, nella sua costruzione normativistica. La legge, come entità astratta, non può essere offesa. È offeso invece lo Stato, come persona e autorità, che ha posto la legge. Il delinquente con la sua azione avvilisce ed abbassa lo Stato nella sua dignità, e tradisce il dovere di fedeltà e di obbedienza che allo Stato lo lega. Ogni delitto è dunque un delitto di fellonia, un crimen lesae majestatis: ogni delitto è, in fondo, un delitto politico. Il delinquente è anzitutto un ribelle. Ribellandosi all'ordine giuridico-politico costituito dallo Stato, esso aggredisce l'onore dello Stato — consistente nella sua autorità — ma offende patimenti il suo onore di suddito dello Stato: suddito non nel senso di cittadino, ma di persona vivente nel territorio e sottoposto alla sua sovranità. Per questo semplice contegno aggressivo onde egli offende oltre lo Stato se stesso, esso ha da essere punito, e deve espiare la sua colpa. Lo Stato non deve tollerare né il proprio disonore, né che nel suo dominio vivano degli uomini disonorati.

Così viene posto in luce l'aspetto politico del delitto e della pena. Lo Stato non si difende dal delinquente, e neppure — almeno come scopo principale — mira a correggerlo, per bonificarlo in quanto individuo, ma riafferma con la pena la sua autorità e maestà offesa. Il delitto offende l'onore dello Stato e dell'individuo; la pena restituisce questo onore, secondo il giusto principio della retribuzione, che è equilibrio di meriti e di ricompense, di demeriti e di castighi.

Delitto e pena hanno dunque valore politico. Perciò il delitto politico — quello che esplicitamente si rivolge contro lo Stato — resta il delitto tipico, il centro ideale del delitto penale. La concezione totalitaria del diritto penale sta in definitivo agli antipodi di quella liberale. Il nostro grande Carrara metteva a bando del diritto penale la trattazione del reato politico con la malinconica considerazione: « io mi sono ininterrottamente convinto che la politica e giustizia non nacquero sorelle, e che nel termine dei reati contro la sicurezza dello Stato non esista diritto penale filosofico ».

3) La legge e il giudice penale.

Alla concezione dello Stato totalitario spetta di far sentire più urgente il suo peso nei rapporti tra la legge e il giudice.

Qui ci troviamo ancora in pieno tradizionalismo, purtroppo, non romano (che a Roma largo era il potere creativo del giudice di fronte al diritto) ma illuministico. Anche i giuristi, che si dicono più moderni e sensibili alle esigenze della rivoluzione, restano infatti aggrappati, per un capo, alle vecchie superstizioni dell'epoca degli « immortali principii ». Il campo della interpretazione è dominato ancora dalla teoria della divisione di poteri. Come si fa a mutare rotta se non si rovescia — si dice — tale teoria? Non occorre andare tant' oltre. Il torto non è della divisione dei poteri, ma del modo come essa viene concepita.

Si può ammettere che la funzione legislativa giudiziaria ed esecutiva siano distinte. L'errore è però quello di considerare queste funzioni come poteri separati, come tanti scompartimenti stagni, quando il potere dello Stato è uno e indivisibile: consiste nel governo effettivo e nella sua sovranità.

La differenza tra la concezione antica e illuministica e quella moderna sulla teoria della divisione dei poteri è che essi sono, secondo la dottrina costituzionale del liberalismo, altrettante potestà sul modesimo piano, con una preminenza, se mai, del legislativo; laddove nella visione moderna i diversi poteri sono modi di esistere dell'autorità dello Stato, che s'incentra nel governo e nel capo di esso.

« Lo Stato Fascista — dice Mussolini — è il governo Fascista e il capo del governo Fascista è il capo della rivoluzione ».

Noi non rigettiamo quindi la teoria della divisione dei poteri, ma la impostazione individualistica di essa.

Su questa è costruita invece tutta la dottrina delle fonti del diritto tradizionale, i rapporti del giudice con la legge: Il giudice — si insegna — deve professare fedeltà alla legge: il giudice non deve invadere il campo del legislatore e usurpare a questi il privilegio della creazione del diritto. La legge, divinizzata, diviene cosi una forza misteriosa che si libra sopra lo Stato. Essa, da volontà attiva dello Stato si trasforma in un limite che lo Stato pone a sé stesso (autolimite) per la salvaguardia della libertà dell'individuo. La legge quindi è tutto, prevede tutto, è un'entità perfetta, che non ha né manchevolezze né lacune. La sua lettera, più che il suo spirito, patente o latente, è buona a sciogliere tutti gli enigmi, a risolvere tutti i casi della realtà, o direttamente o per mezzo di analogia.

Gli stessi « principi generali » base dell'analogia iuris si trovano senz'altro nel sistema del diritto positivo vigente.

Onde il nuovo codice civile italiano, a scanso di equivoci, si è affrettato a correggere l'antico dogma dei « principi generali del diritto » in quello « dei principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato ».

La teoria tradizionalistica della interpretazione trasportata nel diritto penale si riveste di più stretto rigore col divieto dell' analogia. Il principio nullum crimen, nulla poena sine lege poenali si leva come una muraglia insormontabile avanti l'interprete e appare come il Palladio inviolabile della giustizia, e come una norma valevole per tutti i luoghi e per tutti i tempi: un vero « immortale principio ». Avanti ad esso s'inchina la dottrina e si genuflettono i codici. Anche il nostro codice penale del 1930 ha bruciato il suo incenso all'altare di quel sacrosanto principio e ha ripetuto, con i vecchi codici, e con l'art. 4 delle preleggi del cod. civ., « nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilita ». E il Guardasigilli ha ancora una volta giustificato la disposizione, spiegando che essa « costituisce il presidio massimo per la libertà dei cittadini, la quale non può essere personalmente limitata, se non in seguito ad espresso divieto di legge ».

Tanto profondamente è radicata la forma mentis illuministica nella cultura giuridica, che nemmeno un codice come il nostro, pur aderente per tanti aspetti alla ideologia della rivoluzione, si è potuto sottrarre al fascino della massima nullum crimen sine lege. Bisogna tuttavia dire che anche in Italia, con l'incessante marcia innanzi della rivoluzione, la religiosità fanatica per la famosa massima illuministica perde, sempre più, ogni giorno terreno. Molti sono i giuristi che s'ingegnano di evadere, nel terreno dello stesso diritto positivo, dai cancelli proibitivi dell'analogia; moltissimi sono quelli che reclamano la espunzione dal codice dell'anacronistico principio — giustamente definito la magna charta del delinquente — a somiglianza di quel che ha fatto la legislazione sovietica e la legge tedesca del 28 giugno 1935.

Oggi la questione va posta su un terreno politico anziché giuridico. Bisogna chiedersi: il principio « nessun delitto senza legge » è compatibile con lo Stato totalitario? o sta con esso in termini di contraddizione? La risposta non può lasciar dubbi. Se il magistero punitivo è il massimo potere che lo Stato ha nelle sue mani per esercitare la sua autorità, poiché è un diritto armato, un vero jus gladii, è inconcepibile che lo Stato totalitario consenta spogliarsene per un malinteso riguardo ai diritti dell' individuo delinquente. Uno Stato totalitario che non può tollerare alcun limite alla sua attività, tanto meno può consentire ad esautorarsi, quando quell'autorità è diretta alla persecuzione della delinquenza.

Si dice: al di sopra dello Stato c' è la legge. Ma la legge fatta dallo Stato non può convertirsi in un impedimento alla sua attività, e in una remora alla sua potenza. E, oltre tutto, in tale ragionamento vi è un sofisma: la legge non è lo Stato, ma una espressione, tra le altre, della sua volontà. Quello che conta veramente è la volontà dello Stato, che è la legge di ogni legge. E la volontà dello Stato non può disarmarsi innanzi al delinquente, né proclamare la sua impotenza di fronte al delitto, solo perché una legge elenca i reati e le pene. Se ciò fosse possibile, la legge dello Stato si convertirebbe in una legge contro lo Stato. Nessuna legge può far si che lo Stato abdichi alla sua potenza e lasci trascinare nel fango la sua autorità, quando un fatto si verifichi, lesivo del suo onore e della sua maestà, non previsto espressamente da alcuna disposizione di legge. Giacché la questione resta sempre questa: dato che un fatto nuovo si produca, il quale sia sostanzialmente, ma non formalmente, reato, perché non incriminato da nessuna disposizione di legge, che farà lo Stato? Lo Staio liberale, di fronte a tale eventualità, se ne starà inoperoso paralizzato dall'ordinamento giuridico che gli comanda: me plus ultra, e, pur deplorando il misfatto, tollererà che esso si compia con la completa impunità dei colpevoli; lo Stato totalitario comanderà, invece, ai suoi giudici di punire, creando essi la norma mancante.

Ma cosi — si obbietta — lo Stato delega il suo potere legislativo al giudice, e si cade nel pieno arbitrio di questo, rimanendo sovvertito tutto quanto l'ordinamento giuridico positivo e la sua costituzione. Cosi si scivola nel sistema anarchico e anticostituzionale del « diritto libero » o della « libera creazione del diritto ». Non si allarmino le vestali, gelose custodi del fuoco sacro della legge.

Non si spaventino dell'eventualità di un giudice legislatore, arbitro e despota. Abolito il principio « nullum crimen, nulla poena sine lege », il giudice non porrà il suo criterio personale, e forse il suo capriccio, al di sopra dello Stato. Il giudice resta organo dello Stato e interprete ed esecutore della sua volontà. E questa volontà egli interpreta quante volte, mancando una precisa disposizione di legge, reprimerà quei fatti che attentano all'autorità e maestà dello Stato. Il giudice non sbaglierà mai, né farà un uso arbitrario della sua potestà, quando, interpretando la volontà, sia pure termalmente inespressa, dello Stato e del suo capo, castigherà il delinquente che si ribella contro lo Stato. In caso di incertezza di diritto egli si accosterà al principio in dubio prò republica, che prende il posto, nello stato totalitario, dell'antico in dubio prò reo. Nell'incertezza, diviene fonte di diritto, per la legislazione tedesca, il « sano sentimento del popolo » (gesundes Volksempfinden). Per noi potrebbe avere valore di fonte la volontà del Duce, quale si può ricavare dalla sua parola, dal suo insegnamento, dalla sua dottrina. Ove la legge sia oscura, o taccia addirittura, sarà fonte di diritto penale « la volontà del Capo » che è la legge di ogni legge: il capo, beninteso, di un governo totalitario, che non parla attraverso i parlamenti e le loro leggi, ma si esprime rivolgendosi direttamente al popolo, del cui sentimento e dei cui ideali è I'unico interprete. Conformandosi alle volontà del Duce, è scongiurato il pericolo della cosidetta jurisprudentia cerebrina, o cervellotica, giustamente temuta dai critici del cosidetto « diritto libero ». Non è libero ma vincolato e disciplinato da una legge superiore il diritto che il giudice applica interpretando Io spirito della rivoluzione e la volontà del Duce: applica e non crea, perché la creazione appartiene al Capo dello Stato, espressione, e al tempo stesso interprete genuino, della volontà del popolo. Impropriamente dicesi che il diritto è creato dal giudice: esso è creato soltanto dalla coscienza popolare, dallo spirito della nazione e della razza, che s'impersonano e sintetizzano nel condottiero dello Stato. Quando il Duce quindi ha definito — direttamente o indirettamente — criminoso un fatto, ancorché non si trovi elencato nel codice penale, il giudice può punirlo, applicando quelle sanzioni che egli attingerà, col criterio dell'analogia, ad altre norme già codificate. A tal fine potrebbe porsi senz'altro come primo articolo del codice penale una norma cosi concepita: « È reato ogni fatto espressamente previsto come reato dalla legge penale e represso con una pena da essa stabilita. È altresì reato ogni fatto che offende l'autorità dello Stato ed è meritevole di pena secondo lo spirito della Rivoluzione fascista e la volontà del Duce unico interprete della volontà del popolo italiano. Tale fatto, ove non sia previsto da una precisa norma penale, è punito in forza di una disposizione analoga ».

Una tale norma può aver sapore di eresia in quegli Stati rigidamente conformisti verso il dogma « nulla poena sine lege », liberali la più parte, ma non tutti. Anche il codice italiano del 1930 — codice fascista rimane fedele a questo avanzo di liberalismo. Per fortuna la rivoluzione delle camicie nere è ancora in marcia, e non è da disperare che quest' ultimo relitto di una mentalità sorpassata sia definitivamente gettato alla riva.

Lo sarà di certo, quando la mentalità dei giuristi diverrà meno dogmatica, e quindi conservatrice, e più politica, ossia evolutiva. Com'è fatale l'evoluzione dello Stato legalitario verso lo Stato totalitario, così sarà fatale il sotterramento della vecchia formula individualistica del nullum crimen sine lege per il trionfo del nuovo principio nullum crimen sine poena. Quel che importa nei nuovi regimi rivoluzionari, in cui la sostanza della moralità vale più dell'apparenza della legalità, è che nessun fatto giudicato criminoso dalla coscienza pubblica trovi un compiacente diritto di asilo nel cosidetto prestigio della legge scritta. Più che il prestigio della norma uscita dalle assemblee parlamentari, importa oggi l'autorità dello Stato la quale non comporta menomazione e offesa.

C'è chi vede compromesso da tali idee il principio della « certezza del diritto ». Stia tranquillo. Anche questo principio va inteso nello stile della Rivoluzione.

Per i regimi democratici-liberali « certezza del diritto » è la sicurezza del delinquente di potere agire indisturbato e impunito finché non ci sia una legge che dica: « alt » alla sua libertà.

Per i regimi totalitari « certezza del diritto » è la sicurezza della società politica di non vedere annullate le conquiste della rivoluzione e di non vedere il furfante commettere ogni sorta di ribalderie all'ombra della legge e quasi ai margini del codice penale.

Bisogna scegliere. Per noi il primo sistema di sicurezza — a cui è connesso il sacro orrore per l'analogia penale — costituisce oggi un vero delitto contro lo Stato. Perciò i regimi, che sopravvalutano l' idea di Stato — come il sovietico e il nazionalsocialista tedesco — hanno spalancato senz'altro le porte alla interpretazione analogica. Anche il diritto italiano dovrà mettersi fatalmente per questa via se vuol riprendere in tutto il cammino imperiale di Roma. Il diritto romano ammise infatti largamente la punizione per analogiam di un'azione dimenticata dalla legge. Il divieto dell'espansione analogica della legge penale, proveniente da un malinteso verso il delinquente, ha radici nel diritto canonico che considerò la legge penale come lex odiosa o nel falso umanitarismo illuministico che deificò la libertà dell'individuo. Per lo Stato totalitario, invece, erede dello spirito di Roma, l'analogia è una integrazione necessaria del magistero punitivo. Così il diritto penale diviene veramente totalitario.