(Pubblicato in « Critica fascista », 15 febbraio 1939)
di Adolfo Dolmetta
Lo spunto per questo articolo ce lo ha fornito, pochi giorni or sono, il bando dei Littoriali della Cultura e dell'Arte per l'anno XVII, in cui abbiamo trovato, accanto alla organizzazione dei ludi maschili, anche quella dei Littoriali femminili, dettata dalla maturazione politica e disciplinare già da qualche anno raggiunta dalle Fasciste Universitarie inquadrate nei ranghi femminili dei G.U.F.
Tale manifestazione, improntata a quel senso di politicità e di spiritualità che informa tutte le manifestazioni del Regime, si volge allo studio della missione e dei compiti di natura essenzialmente spirituale che la donna ha assunto nell'organismo dello Stato e del Regime, dopo sedici anni di rivoluzione, con riferimento speciale ai tre argomenti di maggiore attualità: Impero, Razza ed Autarchia.
Ma a ben impostare e risolvere il problema crediamo sia necessario anzitutto fissare di questi argomenti il naturale presupposto, delineare cioè i principi che l'etica fascista ha posto nei riguardi della posizione — umana, sociale e giuridica — della donna. Col che si viene altresì a mettere il dito su una piaga di fresca data, quella aperta nella suscettibilità muliebre dai provvedimenti del Consiglio dei Ministri sulla riduzione dell'impiego della mano d'opera femminile.
La concezione fascista della vita è essenzialmente concezione morale: la vita del fascista deve essere alta e piena, vissuta per sé ma sopratutto per gli altri, lontani e vicini, presenti e futuri. Di fronte all'arido ed egoistico calcolo individuale sta la valutazione dell'interesse collettivo e nazionale, considerato come fine etico, cioè come fine dei fini per le attività di tutti gli individui e di tutti i gruppi che vivono nello Stato: questo diventa pertanto il limite e la norma di ogni diritto singolare, il criterio di valutazione degli interessi e degli impulsi privati.
Applicando questi principi al problema femminile ne discende — logico corollario — che nell'etica fascista è precluso il passo al manifestarsi del femminismo, cioè di quel fenomeno morboso e malsano che si sintetizza in una emancipazione dell'individuo-femmina perfettamente identificabile all'emancipazione dell'individuo-maschio. Sorto in altri tempi, ma dilagato in modo impressionante soltanto in questo inizio di secolo anche come conseguenza della Guerra mondiale che allontanando per molto tempo l'uomo dagli affari e dalla casa ha permesso alla donna di occuparne il posto nell'uno e nell'altro luogo, ci si presenta come la celebrazione di un'autonomia individuale che renderebbe la donna capace di dettare a sé da sé stessa tutte le forme del suo operare e del suo vivere in una visione e con un calcolo nettamente egoistici ed edonistici dell'esistenza. Basta, del resto, por mente alle manifestazioni femministiche più facilmente identificabili: il lavoro fuori casa, in posti anche non convenienti al fisico e al morale della donna, per un guadagno che il più delle volte, se non sempre, è essenzialmente di comodo; l'aspirazione alla mascolinizzazione più assoluta che si compendia in una presunzione di uguaglianza di titoli e di diritti nei confronti dell'uomo, che si esalta nella pratica degli « sports » anche meno convenienti alla grazia muliebre; che si rispecchia infine in uno stupido mimetismo (fisico e mentale) tale da travolgere un non ridicolo pudore e calpestare una ben seria virtù; il desiderio di costituire con l'uomo non la vita coniugale che arreca le noie della maternità e i pesi di un vincolo giuridico, ma molto più semplicemente una società di godimento e di piaceri, a parità di condizioni reciproche, più o meno prolungata nel tempo e nello spazio.
Contro questa concezione il Fascismo ha reagito sino dal suo sorgere, riaffermando ed esaltando le virtù e le grazie che più onorano la donna, distogliendola dalle deviazioni sessuali di cui goffamente inorgoglisce in quelle democratiche repubbliche che offrono la più lampante prova della loro decadenza nel progressivo rammollimento dei maschi: sono documenti concreti di questa lotta la creazione dell'Opera per la protezione della Maternità e dell'Infanzia, resa via via sempre più cònsona allo spirito e alle esigenze della politica demografica; il nuovo trattamento penale per i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, contro la integrità e la sanità della stirpe e contro la famiglia; la celebrazione della « giornata della madre e del fanciullo », esaltazione profondamente umana e cristiana della maternità; l'allontanamento della donna da quegli impieghi e da quei lavori, che l'hanno trasformata in un fascio di nervi, cercante inutilmente una forma di seduzione sempre più insoddisfacente.
Il Fascismo vuole bandite dalla vita nazionale le eredi e le discepoli di quella Olimpia de Gouges e Luisa Lacombe che nel 1793 presentarono alla Comune i diritti della donna, proclamando che chi ha il dovere di salire il patibolo, ha anche il diritto di salire la tribuna; e tanto meno c'è posto nel nostro Regime per le tarde nipoti di quella George Sand che esigeva il diritto della donna all'emancipazione sessuale o di quelle Ada Olberg e Wally Zepler, per la cui opera il movimento femminista — a tendenze e a scopi inizialmente politici ed economici — invase il campo morale giungendo, come mèta estrema, alla negazione del matrimonio e della maternità, in quanto ostacoli sociali « ad ogni pieno sviluppo della personalità della donna ».
Ai due tipi di donna moderna ed internazionale — la donna agiata ad abitudini edonistiche anticasalinghe che, col lusso dei gioielli e degli abbigliamenti, fa esulare ogni anno verso l'estero somme favolose di denaro italiano, e la donna povera lavoratrice delle officine, dei negozi e degli uffici che disprezza i lavori manuali e domestici, cioè quelli più propriamente femminili — la nostra dottrina contrappone il tipo di donna fascista che è donna nel senso pieno della parola, cioè prima di tutto madre, il cui compito pertanto non è già quello di fuggire, in un modo o nell'altro, la maternità ma di procreare e di educare la prole a sentimenti forti e sani verso la Patria; il cui posto di combattimento — perché nei regimi rivoluzionari anche le donne hanno un posto di combattimento — non è già l'ufficio o la fabbrica, ma la casa concepita come il tempio sacro nel quale la donna può e deve nobilitare sé stessa e quelli che vivono intorno a lei, assolvendo l'alta missione che natura e vita sociale le hanno affidato. E se vogliamo più oltre ancora precisare le caratteristiche della donna fascista possiamo aggiungere altresì che essa è la donna geneticamente sana che con la sua forza vitale e la sua morale eredità compensa i difetti ereditari ed acquisiti del marito; ed è la donna risparmiatrice soprattutto in quelle materie voluttuarie che si importano dall'estero.
Così nella nostra concezione la donna trova la pienezza della sua esistenza non nel concentrarsi scioccamente in sé stessa, ma nel proiettare la sua personalità fuori di sé; non nel cercare sé in sé stessa ma in quelli che da lei prendono vita ed origine; nell'orientare la sua vita, il suo pensiero, la sua volontà, tutte insomma le sue energie, non verso di sé, ma fuori e sopra di sé: solo in tal modo la donna si pone come collaboratrice fedele del Regime, elemento prezioso ed insostituibile ai fini della solidarietà nazionale. Giacché essa diventa veramente il centro di irradiazione della bontà, del sacrificio, dell'ordine, dell'amore, dell'armonia, della fierezza, di tutti quei nobili e forti sentimenti cioè che fanno grande e forte la Patria.
Che questo risultato sia conseguibile — che cioè ogni donna italiana possa pervenire a questa nozione della sua funzione e a questo senso della sua missione — è facilmente dimostrato dalla storia recente da essa vissuta: storia che va dalla reazione antisanzionista alla fervida collaborazione prestata sul terreno autarchico, alle molteplici e vaste attività capillari, svolte nei diversi settori sociali, con l'apporto di una intelligente e operosa comprensione. Gli strumenti per tanta opera esistono e sono validissimi: si tratta dei Fasci Femminili, superba espressione di forza e di amore sprigionata dall'attività del Partito, attraverso cui la donna italiana, pur rimanendo donna, affina il proprio spirito ed il proprio temperamento, sempre adeguando la propria azione in funzione diretta degli alti spunti ideali della grande macchina del Regime.
E quando questa concezione sarà universalmente accolta ed attuata, la donna nostra di ogni ceto e di ogni cultura, di ogni età e di ogni posizione, sentirà tutta la bellezza dei propri doveri; riuscirà ad avvicinare sempre e ad ogni battaglia le tranquille virtù della propria femminilità; potrà partecipare, in silenzio e in modestia, alla vita della Nazione, niente perdendo di quel senso di equilibrio e di quello amore alla casa, che indubbiamente costituiscono motivo di divina ricchezza familiare; soprattutto capirà la grandezza di una vita fatta tutta di raccoglimento e di austerità per i tempi che viviamo e per quelli che ci attendono.
E allora essa potrà comprendere come le somme guadagnate sottraendo il posto a padri di famiglia e spese nel belletto, nelle sigarette e nella permanente, allo scopo di ritardare vieppiù le rughe e con esse l'età della «virtù coatta», serviranno invece a dare uomini e soldati alla Patria; potrà comprendere che l'unica azione della donna è il figlio e che non ha bisogno di organizzazione, almeno per le vere donne, che v'è un solo « sport » femminile: l'amore; un solo traguardo: la maternità.
Ed è proprio in forza di questa superiore concezione della vita muliebre che il nostro principio morale – a differenza del sistema marixista e socialista della mascolinizzazione che, anziché elevare la donna, come essa illusoriamente crede, la rende maggiormente schiava delle sue naturali e fisiologiche differenze — richiamandola ai suoi compiti, alla sua funzione, alla sua missione, la eleva al di sopra della contingenza e della instabilità e la fa assurgere al grado di un eroico superamento di sé stessa, per la vita, l'avvenire, la felicità altrui.