(Pubblicato in « Gerarchia », giugno 1942)
di Roberto Pavese
Per quanto si cominci a notare un più vivo interessamento da parte del Regime per il problema razziale in genere e per quello ebraico in ispecie, è tale la noncuranza del nostro pubblico, cosiddetto benpensante, e talmente radicato il preconcetto dell'irrilevanza del problema ebraico in Italia, che sarebbe veramente auspicabile un'azione chiarificatrice ed una propaganda specifica intese a rompere una buona volta il duro nocciolo delle frasi fatte.
L'argomento principale in appoggio della suddetta tesi semplicistica è di natura puramente quantitativa. Si dice: rispetto ad altre Nazioni, quali la Germania, l'Ungheria, la Polonia, la Romania, per le quali, giustamente, la questione ebraica aveva una notevole importanza, in ragione della percentuale elevata di giudei nelle rispettive popolazioni, il numero di ebrei in Italia è talmente esiguo da non destare alcuna preoccupazione, tanto più se si consideri il nostro rilevante potere di assimilazione di fronte alle altre razze.
Argomento, codesto, che non regge, per varie ragioni:
1) perchè, a ben guardare, la cifra ordinariamente riconosciuta di circa 52.000 ebrei residenti in Italia (cifra, di fatto, relativamente esigua rispetto ai 694.000 esistenti in Germania, ai 280.000 in Francia, ai 3.300.000 in Polonia, ai 985.000 in Romania, secondo i dati riportati dalla rivista Deutsche Volkswirtschaft), è da ritenersi notevolmente inferiore al vero, anche dato l'interesse, e non da oggi, dei giudei a nascondere la loro origine razziale.
Infatti la suddetta cifra si riferisce al censimento del 1932, che ha fornito anche la base dei dati statistici esposti in un comunicato apparso nella stampa lo scorso ottobre, secondo cui, tenuto conto di circa 7300 ebrei tra italiani e stranieri che hanno lasciato l'Italia fino al 1° ottobre 1941, resterebbero nel Regno ancora 43.000 ebrei, di cui 35.000 circa di cittadinanza straniera. Ma dal 1932 ad oggi il numero degli ebrei in Italia è sensibilmente aumentato ed il censimento del 22 agosto 1938 darebbe una cifra complessiva di circa 70.000 ebrei.
Comunque, alla cifra sovrariportata sarebbero da aggiungere gli ebrei arianizzati dopo la promulgazione delle leggi razziali e gli ebrei discriminati, che non figurano nei dati del suddetto comunicato.
C'è poi da considerare che, appunto in ragione della forte capacità di assimilazione della nostra razza, i caratteri somatici degli ebrei abitanti in Italia sono assai meno evidenti che altrove, sicchè molti di essi non hanno difficoltà a farsi passare per ariani, dopo di aver convenientemente alterato il proprio nome.
2) Ancora per lo scarso rilievo somatico degli ebrei nostrani, non ha avuto modo di manifestarsi tra noi quel senso di repulsione che solitamente intercede tra individui di razza spiccatamente diversa.
Di conseguenza, le unioni ed i matrimoni misti sono stati notevolmente più frequenti in Italia che altrove, dando luogo ad un numero rilevante di meticci, legittimi ed illegittimi, la maggior parte dei quali — fecondo l'esperienza insegna — resta biologicamente e soprattutto moralmente vincolata al ceppo ebraico.
Non si è quindi lontani dal vero col supporre che, tra ebrei e mezzi ebrei, la predetta cifra di 50.000 elementi, debba almeno triplicarsi.
3) Ma la cosa non finisce qui: non è certo codesto elemento quantitativo a rendere particolarmente grave il problema ebraico in Italia. Ciò che aggrava seriamente le cose è il fattore qualitativo. Ogni ebreo italiano, dal punto di vista del suo rango, della sua cultura, della sua attività razziale, della sua assenza di scrupoli e dell'assoluta libertà d'azione di cui ha fruito e in parte continua a fruire malgrado le recenti leggi razziali, non è esagerato di affermare che, agli effetti del danno materiale e morale recato alla compagine politico-sociali della Nazione, equivale a dieci di quegli ebreuzzi del piccolo commercio, che pullulano nella massa giudea delle Nazioni a forte percentuale di semiti.
Non sarà privo di interesse notare in proposito che il grosso dell'immigrazione ebraica nella Penisola è costituito di ebrei spagnoli del gruppo « Sephardin » (Sephard = Spagna) che è notoriamente il più virulento ed oltranzista agli effetti delle realizzazioni del sionismo.
In Italia, a differenza delle altre Nazioni europee — esclusa forse soltanto la Francia, che è dall'altra parte della barricata — è dunque dell'elemento qualitativo che bisogna tenere il massimo conto nella valutazione del problema ebraico. La popolazione ebraica della Germania, Ungheria, Polonia, Romania ha una fortissima percentuale di individui dediti al piccolo, sudicio commercio di rivenduglioli, rigattieri, usurai. Il parassitismo, il vampirismo di costoro non andava oltre la sfera strettamente economica, ed anzi intaccava soltanto gli aspetti inferiori e superficiali della medesima. Nella nostra popolazione ebraica codesto tipo di giudeo dedito al piccolo commercio è lungi dal rappresentare la stragrande maggioranza come nelle Nazioni sopracitate. Da noi si ha invece una percentuale fortissima di professionisti: funzionari, industriali, professori, banchieri: di elementi insomma capaci di prendere in mano le leve del comando della Nazione, capaci di insinuare negli organi vitali dello Stato il veleno della loro azione disgregatrice e sovvertitrice. L'azione di costoro, rispetto a quella del popolume ebreo dei ghetti, è paragonabile all'azione superficiale esercitata sul corpo umano dai parassiti, rispetto all'azione interna e profonda del verme solitario.
In un'atmosfera di candida, beata fidanza da parte della nostra classe colta, neoaspirante ai fasti borghesi, nonchè dei governi responsabili, i giudei nostrani hanno avuto modo e tempo, durante i settant'anni dall'unificazione del Regno, di occupare, o far occupare da quegli ebrei d'elezione che sono i massoni, tutti i gangli della vita nazionale, per una più o meno completa scalata al potere.
Scandalizzarsi per codesto arrembaggio in grande stile? Oibò! Non era giusto che individui più intelligenti di noi avessero i posti di comando? Non era che un doveroso compenso per aver insegnato ai nostri borghesi a farsi furbi, a « saper vivere » e fare i propri affari in barba alla legge, e se necessario ai margini del Codice. Non, era codesta un'arte da imparare a scuola. Veniva così ritolta, mediante la mano sinistra di Giuda, cioè attraverso l'insidia giudeo-massonica, quella libertà esteriore che la mano destra, delle armi e dei trattati, aveva fruttato all'Italia. La farsa della sovranità si confondeva con la tragedia di una rinnovata schiavitù ai poteri occulti dell'Internazionale pluto-massonica, da cui solo con la guerra etiopica potemmo riscattarci, almeno nel gesto.
Ai tempi in cui frequentavo il Politecnico di Milano, sette su dieci dei professori di ruolo erano ebrei. E ciò non era un'eccezione, perchè le Università erano completamente infeudate al giudaismo. Di fronte all'agnosticismo politico e religioso degli insegnanti italiani vi era una forte percentuale di insegnanti ebrei il cui principale obiettivo era di sabotare la nostra tradizione culturale storica religiosa, di agire con l'arte più sottile e diabolica contro la romanità, fino a cancellarne lo stesso ricordo dalla coscienza dei giovani. La laurea si compendiava in un diploma di ateismo, nelle scuole sì imparava, anche se non si insegnava esplicitamente, lo scetticismo, il pessimismo, l'arrivismo senza scrupoli. La borghesia nostrana, formatasi e cresciuta nel clima molle di codesta scuola e di codesta cultura materialistiche, rappresenta il capolavoro dell'intelligenza giudaica: il più interessante esempio del come si possa rendere vecchio un popolo giovane, svuotarlo di ogni nobile passione e di ogni virilità, farne un gregge di individui contenti di barattare per un piatto di lenticchie borghesi i loro diritti di primogenitura di fronte alla razza, alla storia, alla civiltà. Altre Nazioni hanno trovato la loro salvezza nel fatto di non aver chiuso gli occhi davanti al pericolo ebraico. Per citare un esempio, in Romania quelle leggi razziali — anzi leggi molto più dure — che da noi sono state promulgate nel 1938 vennero emanate in epoca assai anteriore. Da oltre un quarantennio in Romania l'ebreo non ha diritto di cittadinanza, non ha diritto di possedere beni immobili, di esercitare professioni cosiddette liberali, quali l'avvocato, l'ingegnere, il professore; non ha neppure la libertà di risiedere dove vuole, in quanto può abitare soltanto nei comuni classificati per « commerciali » e non in quelli rurali. Se, dopo la grande guerra venne alquanto alleggerito il peso di codeste leggi per gli ebrei che avevano combattuto nei ranghi dell'esercito rumeno, le leggi stesse vennero poi ripristinate e rincrudite, dopo l'avvento al potere del generale Antonescu. È solo a tal patto che la Romania, dopo le dolorose prove dell'ultimo decennio che l'avevano più di una volta condotta sull'orlo del precipizio — ha potuto trovare la salvezza. — Non così la Francia: la quale sa oggi perfettamente a chi deve la sua rovina. Sono state recentemente pubblicate le cifre percentuali degli ebrei che immediatamente prima della presente guerra occupavano in Francia i posti di responsabilità e di comando, in ispecie tra i membri del Governo e del Parlamento. Esse dànno un'idea di come una Nazione cosiddetta libera e sovrana possa essere completamente asservita ad una cricca di lestofanti e di avventurieri, per di più stranieri.
Se oggi è universalmente ammesso, almeno in Europa, che la presenza dell'elemento ebraico non porta con sè soltanto l'impoverimento del popolo, ma anche la corruzione del costume, la distruzione di ogni morale commerciale e professionale, l'annullamento di tutti quei valori dello spirito, senza i quali non è possibile trascendere la propria persona, per la società e la Nazione, si deve ben capire quali effetti disastrosi possa avere nella formazione delle coscienze dei giovani italiani l'essere più o meno direttamente educati all'insegnamento giudaico. E perchè in codesta raffinata insidia giudaica di inviare contro di noi la più agguerrita pattuglia di punta dell'imperialismo semita, quando ancora — ad unità appena formata — l'Italia non era del tutto uscita dal sonno secolare, non dovremmo scorgere un segno della consapevolezza giudaica che in Roma era da vedersi il maggior pericolo per le finalità egemoniche della razza, ed assieme la fredda determinazione di eliminare una volta per sempre tale pericolo? Non dimentichiamo che il primo tentativo di bolscevizzazione venne operato proprio in Italia e che senza il Duce chi sa come sarebbe finita. Ma gli Italiani hanno pessima memoria: non ricordano neppure che il nostro comunismo del primo triennio dal dopoguerra era l'ultimo atto di un dramma iniziatosi fin dallo scorcio del secolo scorso e che prima della grande guerra altri attentati del genere alla salute nazionale vennero compiuti in Italia, come nel 1898 coi moti di Milano e l'ineffabile tentativo di creare una « repubblica ambrosiana » come, più recentemente, la repubblica catalana in Ispagna; ciò che dimostra gli intenti squisitamente politici, più che sociali, del movimento. E gli Italiani hanno anche dimenticato che il primo atto di guerra del Duce fu, in ultima analisi, contro gli ebrei, creatori della massoneria, e che gli ebrei stessi dopo tre lustri di guerriglia antifascista hanno raccolto, tre anni fa, ufficialmente il guanto di sfida, per bocca dei loro compari inglesi.
Questa è la guerra degli ebrei: che non saranno i soli a perderla, ma sarebbero certamente i soli a vincerla; questa è la guerra dell'oro contro il sudore ed il sangue dei popoli proletari; è la guerra che dovrebbe dar alla Sinagoga il dominio mondiale attraverso la bolscevizzazione dell'Europa. Ecco perchè dobbiamo accettare senza riserve mentali o sentimentali l'esistenza di un problema ebraico schiettamente italiano, e andarne in fondo con intelligenza, tenacia e risolutezza.