(Pubblicato in « Corrispondenze Repubblicane », 17 gennaio 1945)
di Anonimo
Quando ci fu l'armistizio, incredibile mistificazione e supremo inganno del nemico vero, nonché dì quello annidato nell'interno del Paese, si fece credere al popolo siciliano, come a tutto il popolo italiano, che ci sarebbe stata la pace, cioè la fine della guerra. E perciò tutti i siciliani e tutti gli italiani pensarono che se anche avessero dovuto esservi conseguenze indirette di una guerra che sarebbe continuata su altri fronti, tuttavia non si sarebbero pretesi da loro ulteriori e anzi più gravi sacrifici di sangue. Viceversa, grazie ai traditori complici del nemico, gli italiani di Sicilia si sono sentiti chiedere la partecipazione alla guerra contro gli alleati di ieri e al servizio di coloro che hanno scientificamente distrutto l'isola. È soprattutto per questo che il popolo siciliano, tradito per la seconda volta dai cosiddetti liberatori e loro complici, insorge contro le forze del Governo bonomiano e particolarmente contro il supremo provveditore di carne da cannone per la Russia, che risponde al nome di Palmiro Togliatti, Vicepresidente del Consiglio della monarchia di Savoia. Il profondo disagio in cui si dibatte quella popolazione ha un duplice aspetto, politico ed economico. L'uno e l'altro sono in funzione reciproca. I moti di Palermo e di Catania furono determinati soprattutto dalla fame e dall'insufficienza degli stipendi e dei salari; quelli molto più gravi che stanno svolgendosi adesso in alcune parti dell'isola sono una vera e propria insurrezione contro il Governo Bonomi e la sua politica, che spinge sino alle più intollerabili conseguenze il danno e la vergogna del tradimento e della capitolazione.
Quella del separatismo è una gonfiatura dei circoli governativi romani per confondere le idee del popolo sulla vera situazione siciliana: Pochi paglietta e azzeccagarbugli della vita provinciale dell'isola, foraggiati dallo straniero e senza seguito, costituiscono i quadri di un esercito il quale non esiste che nelle loro malvage intenzioni. In realtà, come ha detto giustamente il Duce nel suo recente discorso a Milano, i siciliani non vogliono separarsi dall'Italia, ma da Bonomi e dalla cricca dei traditori, i quali hanno aiutato il nemico a invadere il suolo della Patria, perché il nemico, a sua volta, li aiutasse a prendere il potere per servir lo. È stato il dramma degli interessi creati: gli antifascisti hanno chiamato lo straniero in casa nostra per distruggere il fascismo, e lo straniero si è valso della criminalità partigiana di alcuni pessimi italiani, capeggiati dal re e da alcuni suoi cortigiani in feluca, in marsina o in cravatta rossa, per distruggere il fascismo, suo capitale nemico.
Passata la pazza euforia del primo momento, della quale i siciliani furono vittime al pari di tutti gli altri italiani, e capito, una buona volta, che l'armistizio non era l'annunciatore del regno della pace e dell'abbondanza, ma la porta da cui entravano la guerra, la miseria e la fame, il generoso popolo dell'isola, la cui coscienza unitaria è stata sempre viva e operante, per il primo, nell'Italia invasa, ha dato il segnale della riscossa e ha impugnato le armi. Finché s'è trattato di protestare contro il Governo affamatore, infeudato agli interessi della plutocrazia anglosassone e delle classi capitalistiche paesane, il popolo siciliano è sceso in piazza e si è abbandonato a pacifiche dimostrazioni, represse nel sangue dagli uomini che si arrogano il diritto di governare l'Italia per mandato di Londra, Mosca e Washington e in nome della coalizione antifascista. Ma quando Bonomi ha chiamato i giovani e richiamato i soldati anziani alle armi per mandarli a combattere oggi contro la Germania e domani, come è stato ufficialmente annunciato, contro ìl Giappone, a undicimila chilometri dalla loro terra, i siciliani sono insorti. Studenti, impiegati, operai e contadini si sono dati alla campagna, e, costituiti in bande, lottano tenacemente contro i carabinieri e le altre forze dì Polizia che il Governo di Roma ha incaricato della repressione. I ribelli, che controllano estese piaghe e hanno costituito il loro più importante centro di resistenza in Comiso, hanno fatto sapere al Governo e al mondo che essi vorrebbero adempiere i loro doveri militari verso la Patria, ma che « non intendono impugnare le armi e versare il proprio sangue a beneficio dello straniero, in guerre che non interessano il Paese ».
Questa dichiarazione mette a fuoco il carattere dell'odierna rivolta siciliana. È chiaro che non si tratta di un moto a carattere regionalistico e nemmeno di un fenomeno di collettivo smarrimento della coscienza civica e militare. È, invece, l'improvviso irrompere nelle tenebre che si addensano sull'Italia regia di una coscienza nuova, o meglio del risveglio della vecchia coscienza isolana, che vive sempre nell'Italia, la madre augusta che ha espresso dal ptoprio seno uno dei più alti intelletti politici, Francesco Crispi, il primo ad avere della missione e funzione europea, mediterranea e africana dell'Italia un concetto anticipatore dei tempi.
Gli insorti di Comiso hanno rotto i ponti con l'Italia del tradimento