Friday 9 March 2012

La fine della democrazia nel continente europeo: Nazioni capitaliste e nazioni proletarie

(Pubblicato in « Nuova antologia », 16 ottobre 1940)

di Ugo D'Andrea

La guerra che si combatte da oltre un anno induce gli spiriti avvertiti a molte riflessioni, alcune delle quali sono ancora torbide e confuse, altre, invece, definite e limpide nella mente dei più e tali da apparire già come una obiettiva realtà. Torniamo con la mente alla fine dell'altra guerra e ai pensieri e propositi che ispirarono la provvisoria pace del 1919. Quale fu il programma che servì di base alla Conferenza della Pace a Parigi? Possiamo considerare come tale l'esposizione fatta dal Presidente Wilson nei discorsi del 4 luglio (a Mount Vernon, sulla tomba di Washington), e del 27 settembre 1918 nei quali si ripetono e riassumono quei famosi « quattordici punti » che erano stati enunciati per la prima volta nel messaggio al Congresso americano dell'8 gennaio 1918. Wilson diceva nel suo messaggio:

« Noi siamo entrati in questa guerra a causa delle violazioni del diritto che ci riguardano direttamente e rendono impossibile la vita del nostro popolo a meno che non siano riparate e il mondo sia assicurato per sempre che non si ripeteranno. Perciò in questa guerra non domandiamo nulla per noi, ma il mondo deve essere reso adatto a viverci; e in particolare deve essere reso sicuro per ogni Nazione pacifica, che, come la nostra, desidera vivere la propria vita, stabilire liberamente le sue istituzioni, essere assicurata della giustizia e correttezza da parte degli altri popoli del mondo, come pure essere assicurata contro la forza e le aggressioni egoistiche. Tutti i popoli del mondo, in realtà, hanno lo stesso nostro interesse e per conto nostro vediamo molto chiaramente che, a meno che non sia fatta giustizia agli altri, non sarà fatta a noi. Perciò il programma della pace del mondo è il nostro stesso programma : e questo programma, il solo possibile, è, secondo noi, il seguente. »

E qui seguivano i quattordici punti che noi non staremo a ripetere perchè ci preme solo di ricostituire, nel modo più breve, lo stato d'animo medio e i concetti generali più diffusi tra le folle nei mesi che precedettero la fine dell'altra guerra. Fu, infatti, in quell'epoca, che il Presidente Wilson apparve in veste di annunciatore e di profeta di una nuova epoca nei rapporti internazionali. A noi pare che il Presidente Wilson non innovasse nulla nella storia del pensiero politico e che egli non facesse che sviluppare i principi politici della democrazia applicati ai rapporti tra gli Stati, rapporti da inspirare alladottrina democratica, delle libere e autonome nazionalità, delle libere e autonome volontà popolari che, formando a loro talento i regimi interni delle Nazioni, dovevano determinare la pacifica e universale associazione delle libere Nazioni. In sostanza, Wilson, esprimeva con nuova vigoria e sincerità di termini dei concetti già frusti in Europa all'inizio del nuovo secolo, quando le dottrine del nazionalismo e dell'imperialismo erano sorte a combattere il pacifismo e l'universalismo della democrazia e quando il sindacalismo rivoluzionario era sorto a combattere l'opportunismo parlamentare del socialismo riformista che si appellava al marxismo.

Con assai maggiore eloquenza e con assai più vigore di apostolato Giuseppe Mazzini aveva proclamato le verità della democrazia. Nel 1866, durante la nostra terza guerra di indipendenza, egli aveva fissato la missione italiana nella vita internazionale. E ciò in rapporto alle nuove nazionalità che accennavano ad avere autonomo sviluppo nell'Oriente europeo. Mazzini affermava, anche allora, che parte della vita italiana « doveva espandersi nelle vaste regioni dell'Oriente asiatico » (vedi « Dovere », durante la campagna del 1866). Avevano quindi « suprema importanza le relazioni da stabilire fra noi e i tre elementi: lo slavo, l'ellenico e il romeno, ai quali spettava risolvere la questione dell'oriente d'Europa ». Ed egli si riportava subito all'origine della sua credenza filosofico-religiosa per vedere nel progresso dei popoli la formula che rendeva evidente il legame tra la terra e Dio. I popoli uniti nella umanità dovevano applicare la legge morale per raggiungere l'ideale di vita che è anima dell'universo ed espressione del divino volere. Un tale fine si raggiunge con la Associazione. E le Nazioni sono gli elementi dell'universale Associazione. Le Nazioni traggono, dalle loro condizioni di storia, di geografia e dalle particolari attitudini dei popoli una speciale missione da assolvere nel concerto universale, ma sempre per il raggiungimento del fine comune.

Questi ancora vaghi e astratti concetti propri del Mazzini, venivano ribaditi dall'Apostolo e in certo modo avvicinati alla realtà, nelle pagine che furono considerate profetiche e che furono pubblicate nella « Roma del popolo » nel marzo e aprile del 1871. Quelle pagine furono giudicate il testamento politico del Mazzini perchè egli prevedeva in esse la caduta e la dissoluzione dell'Impero d'Absburgo e dell'Impero ottomano e perchè domandava la costituzione dei liberi Stati dell'Europa sud-orientale. Il Mazzini considerava che, dalla fine del 1500, a causa del lento cadere della potestà della Chiesa nella coscienza delle folle, i popoli e gli Stati di Europa si erano affidati alle monarchie e alle loro rivalità e cupidigie. L'Inghilterra aveva creduto di stabilire la dottrina dell'« equilibrio europeo » inteso come necessità di impedire lo stabilirsi di uno Stato più forte degli altri nel Continente. In questo senso la storia d'Europa è terribilmente monotona : dalla guerra di Elisabetta contro Filippo II alla guerra di Pitt il giovane contro Napoleone, alla guerra di Churchill contro l'Asse. Trecentocinquanta anni di storia europea non rispecchiano che il volto difforme di una eguale vicenda.

L'Inghilterra ha creato un suo impero di tipo mercantile, fondato sulla padronanza delle acque e sugli empori di terraferma, divenuti col tempo colonie della Corona britannica e « Dominions ». Essa ha quindi voluto sempre impedire che vi fosse in Europa uno Stato troppo più forte degli altri e ha naturalmente lavorato a sfruttare tutti i pomi della perenne discordia tra i popoli, nel Baltico, sul Reno, nel Mediterraneo, negli Stretti, sul Danubio e nei Carpazi per opporre Russi a Germanici, Germanici a Francesi, Francesi a Italiani, Italiani ad Austriaci, Austriaci a Russi, Russi a Turchi, e così via.

Per il fatto di essere gli antesignani della rivoluzione politica liberale (1688) e di avere costituito il modello del sistema parlamentare e di non avere mai adottato la coscrizione e di aver visto coincidere il periodo- di splendore mercantile dell'Impero con il trionfo del liberismo economico, gli Inglesi si sono ritenuti i depositari della libertà individuale e della dignità umana e del progresso economico mondiale e hanno sempre preteso di difendere questo privilegio contro ogni nuovo concorrente designato subito all'odio universale come espressione dell'imperialismo e della volontà di dominio. Non hanno mai voluto confessare che essi difendono, in realtà, una loro egemonia economica e marinara.

Alla fine del conflitto europeo del 1914-1918, il wilsonismo, ultimo grido della democrazia mondiale, pensava di sostituire all'alleanza dei Principi una permanente alleanza dei popoli, che doveva prendere il volto della « Società delle Nazioni ». Le Nazioni, così come erano uscite dalle rivoluzioni nazionalitarie e democratiche dell'Ottocento avrebbero dovuto obbedire al principio dell'autodecisione o autodeterminazione. E, secondo tale dominante principio, avrebbero dovuto darsi interni regolamenti e statuti, e liberamente associarsi e confederarsi. Le eventuali divergenze dovevano sanarsi nella Società delle Nazioni.

Questo l'assetto politico e giuridico degli Stati europei quale veniva pensato negli anni della guerra delle democrazie contro gli asseriti imperialismi e alla conclusione di quella che fu chiamata la pace democratica. In sostanza esso traduceva, in termini di diritto internazionale, i concetti filosofico-religiosi e i pensieri morali che avevano presieduto al nascere, all'affermarsi e al diffondersi della democrazia dominata dal mito della sovranità del popolo.

Con questo noi ci guardiamo bene dal dire che non si fossero venuti affermando in Europa, nel decennio anteriore al grande conflitto e negli anni della guerra e al tempo della Conferenza della Pace, principi del tutto diversi, fondati sulla valutazione delle forze politiche reali e sulla ineluttabilità del loro perenne decadere e prevalere per legge di natura e di vita. Quei nuovi principi combattevano tutta l'etica della democrazia, negavano i benefici dell'individualismo, sostenevano il diritto dello Stato, ripudiavano il pacifismo. Affermavano che lo stato di pace non era che la condizione risultante da un equilibrio reale delle forze dei vari Stati, e come tale esso non poteva durare che nel tempo di quell'equilibrio. Subito dopo, per il prodursi fatale e inevitabile di squilibri determinati dalla diversa crescenza dei popoli e dai loro contrastanti istinti e bisogni, gli Stati entravano in una agitazione più o meno violenta, che aveva per naturale sbocco la guerra.

[. . .]

Questo significava costringere la storia dei popoli in uno schema immobile e perciò stesso immorale. Significava, in sostanza, ripudiare la stessa nozione di progresso universale che non può essere determinato che dai moti vitali dei popoli. Significava negare un premio ai migliori e ai più audaci; significava tentare vanamente di arrestare il corso della storia che è tutta una sequela di declini e di trionfi di popoli.

Centotrenta anni di civiltà politica della democrazia (volendo grosso modo considerare per tale tutto il periodo 1789-1918) sboccarono come abbiamo visto nella perorazione di Wilson al termine del suo discorso dell'8 gennaio 1918 :

« Il principio di giustizia applicato a tutti i popoli e a tutte le nazionalità, è il diritto di ciascuno a vivere in condizioni eguali di libertà e di sicurezza gli uni rispetto agii altri, sieno essi forti o deboli. Se questo principio non è accettato come base fondamentale, nessuna parte dell'edificio della giustizia internazionale potrà rimanere in piedi ».

Queste affermazioni sollevarono allora, nel quarto anno di una guerra tanto sanguinosa, l'universale entusiasmo. Con linguaggio biblico House scrisse, del messaggio presidenziale dell'8 gennaio 1918, che esso « avrebbe navigato sulla cresta delle onde o si sarebbe sprofondato nell'abisso del mare ».

Nonostante tanto clamore di applausi e tanto zelo seguaci, possiamo ripetere ancora che i concetti espressi da Wilson non erano nuovi. Già il Primo Ministro britannico Asquith, parlando il 25 settembre 1914 a Dublino aveva ricordato il pensiero di Gladstone al tempo della guerra del 1870, e cioè che « il più grande trionfo del nostro tempo sarebbe stato il riconosciuto dominio dell'idea del diritto pubblico come idea direttrice della politica europea ». E per diritto pubblico Asquith aveva precisato quel diritto che consentisse alle piccole nazionalità e ai piccoli Stati (Belgio, Olanda, Svizzera, Stati scandinavi, Stati balcanici) gli stessi titoli dei loro vicini più potenti. Ora vediamo che le stesse parole vengono pronunciate dagli uomini politici inglesi nella guerra da essi dichiarata alla Germania il fatale 3 settembre del 1939.

Noi siamo di quelli che non credono all'uomo naturalmente buono di Rousseau, ma tanto meno crediamo alla fatale perversità degli uomini che scatenano le guerre imperialiste, così come li dipinge la propaganda puritana degli Anglo-Sassoni.

Noi crediamo semplicemente che l'Inghilterra abbia ritenuto, a un dato momento, di dover affrontare l'alea di una nuova guerra generale per non subire l'avvento di un mondo diverso da quello costruito da alcune generazioni di Britanni aggressivi e dominatori, e che allo stesso modo la Germania e l'Italia hanno tentato di imporre gradualmente un nuovo ordine europeo, meglio rispondente ai fini della giustizia distributiva, e hanno ritenuto di obbedire a una superiore legge morale non ritraendosi dinnanzi al rischio della guerra, quando l'Inghilterra ha sbarrato loro il passo per impedire la creazione del nuovo ordine internazionale. Questi avvenimenti a noi sembrano logici e normali anche se non lieti e facili: perchè noi siamo fedeli, con Machiavelli, a una scienza rigorosa della politica e non ad una interpretazione religiosa o moralistica di essa. Noi pensiamo che non vi ha nulla di accidentale nei fatti degli uomini, come nei contrasti tra gli Stati, e che essi siano nel loro svolgimento governati da una intima e implacabile necessità. Il nostro compito risiede nello studiarli e nel darne ragione ai molti che non scorgono un chiaro lume nel fitto e oscuro groviglio degli eventi.

Noi dunque pensiamo che questa guerra sia l'atto conclusivo di un lungo e tentennale duello tra due ordini politici e tra due concezioni della vita degli Stati e dei loro rapporti reciproci. La guerra attuale è la fase conclusiva di un processo rivoluzionario incominciato in Europa nell'atto stesso in cui si affermava la vittoria delle democrazie e maturato nel ventennio successivo, con aspre lotte e vittoriose affermazioni che dall'ambito interno degli Stati si sono poi trasferite nelle lotte esterne sino a divenire fondamento e ragione della guerra presente.

La favilla rivoluzionaria partì dal genio di Mussolini che fondò i « Fasci di combattimento » nei giorni stessi della Conferenza di Parigi. Il carattere rivoluzionario dei Fasci italiani di combattimento per ciò che riguarda l'ordinamento interno dello Stato italiano non ha bisogno di essere qui né illuminato, ne ricordato. Ci interessa, invece, ricordare il momento in cui la rivoluzione passa dall'ambito interno all'ambito esterno e, trovando il terreno favorevole, dilaga fuori delle frontiere e, con il concorso della confluente grande rivoluzione hideriana, affronta, con la politica dell'Asse, le posizioni internazionali delle democrazie: prima spezzando deliberatamente la cerchia ostile con la guerra d'Etiopia, poi aiutando alla insurrezione-restaurazione di Franco; poi, procurandosi le posizioni di partenza nell'Europa centrale, mediante un'aspra e lunga controversia diplomatica dai giorni dell'« Anschluss » a quelli di Monaco, di Praga e dell'occupazione dell'Albania; infine, con la guerra aperta della Germania e dell'Italia contro la Francia e l'Inghilterra. Tutto il periodo tra il giugno 1933 (Patto Mussolini delle quattro grandi Potenze) e il settembre 1939 (inizio delle ostilità tedesco-polacche) è denso di avvenimenti; ma nel quadriennio 1935-1939 la contesa si fa estremamente vivace.

Se il conflitto del 1914 potè apparire inatteso alle masse popolari, la guerra del settembre 1939 è stata annunciata in tutti i modi e in numerose occasioni. I popoli, tesi nell'aspettazione della guerra, finirono con l'attendere l'urto come una liberazione. Infatti, di mese in mese, negli ultimi anni, le due rivoluzioni di Roma e di Berlino sono venute attuando i loro piani rivoluzionari all'interno e all'esterno sino a determinare la convinzione dell'urto fatale tra due opposti mondi e tra due diversi modi di concepire la vita individuale come la vita collettiva dei popoli.

La guerra di oggi è assai più intransigente di quella del 1914-1918. Essa ricorda, tra le forze in conflitto, la opposizione totale che esisteva tra le armi della rivoluzione francese e le armi delle vecchie dinastie assolute. I precedenti storici del conflitto attuale vanno ricercati nelle guerre della cristianità contro l'Islam o in quelle dei Germani contro il cadente Impero d'Occidente.

L'Italia e la Germania oppongono il loro tipo di Stato totalitario ai vecchi Stati parlamentari e democratici. Questo Stato totalitario è il risultato della fusione dei due movimenti rivoluzionari che all'inizio del secolo aggredirono violentemente lo Stato demo-parlamentare. I due movimenti rivoluzionari si chiamavano sindacalismo e nazionalismo; Mussolini ha realizzato la fusione dei due elementi e ha saputo sprigionare dal suo genio la scintilla che ha reso operante e feconda l'unione. Non bastava infatti intuire certe verità: occorreva realizzare la verità, occorreva condurre un esercito di popolo in quella direzione e poi manovrarlo, spostarlo verso nuovi obiettivi, affermare altre verità. Occorreva, per questo, trovare l'uomo che Nietzsche chiama « il tipo splendido di conduttore di uomini ». Questo condottiero è il Duce.

Il legame tra sindacalismo e nazionalismo fu sentito in Italia ed espresso per la prima volta, da Enrico Corradini, in maniera compiuta, nel 1909. Egli aveva sempre avversato e combattuto il socialismo, ma era molto sensibile ai problemi sociali. Cominciò allora ad agitare alcune idee per fissare il rapporto tra il proletariato e la Nazione, tra la politica interna dello Stato italiano e la sua politica estera. Questa corrente di pensiero fu in lui suscitata dallo studio della emigrazione italiana nel Sud America e fu anche espresso nel romanzo « La patria lontana ». Nel primo Congresso tenuto a Firenze nel dicembre 1910 da uomini di varie tendenze per fondare l'Associazione Nazionalista Italiana, Enrico Corradini presentò una relazione sul tema : « Classi proletarie, socialismo, Nazioni proletarie, nazionalismo ». Subito dopo egli fondeva gli stessi concetti della relazione in una Conferenza che veniva da lui pronunciata a Firenze, Napoli, Venezia, Padova, Verona, Arezzo e che aveva per titolo : « Le Nazioni proletarie e il nazionalismo ». Ma già a Trieste, nel dicembre 1909, egli aveva esposto dei concetti nuovi e originali sullo stesso tema in una conferenza sul tema « Sindacalismo, Nazionalismo, Imperialismo ». Egli prendeva i tre termini: sindacalismo, nazionalismo, imperialismo e, invece di porne in rilievo i contrastanti caratteri, ne metteva in luce i punti di accordo e le evidenti affinità. Infatti i sindacalisti invocavano, si, la guerra di classe, ma consideravano tale stato di guerra come ritempratore della stessa borghesia. Nelle sue « Considerazioni sulla violenza » che avevano avuto, per merito, vedi caso, di Croce, larga diffusione in Italia, Giorgio Sorel scriveva:

« La violenza proletaria entra in scena nel medesimo tempo in cui la pace sociale pretende addolcire i conflitti : rinchiude gli imprenditori capitalisti nella loro funzione produttrice e tende a restaurare la struttura delle classi via via che queste sembrano mescolarsi in un pantano democratico. Essa, la violenza, la lotta di classe senza quartiere, lo stato di guerra permanente, non solo può assicurare la rivoluzione futura, ma appare anche come il solo mezzo di cui dispongano le Nazioni europee, abbrutite dall'umanitarismo, per ritrovare la loro antica vigoria ».

In questo modo il sindacalismo rivoluzionario si rivelava guerresco, e ciò non poteva non colpire profondamente lo spirito di Corradini che già aveva proclamato la morale della guerra vittoriosa come solo rimedio ai mali dell'Italia. Il sindacalismo guerresco e portato all'azione non appariva insomma al Corradini — e infatti non lo era — una nuova lezione del socialismo marxista, ma « una nuova forma di aristocrazia sorta dalla forza del lavoro ». E poi esso era antidemocratico e antiparlamentare. Due sindacalisti francesi avevano in quel tempo scritto un libro contenente un capitolo sul modo di abbattere il « Palais Bourbon » così come era stata abbattuta la Bastiglia nel 1789. Se questo fosse avvenuto, forse la Francia d'oggi non sarebbe stata distrutta dai vari Blum, Herriot, Daladier, Reinaud e Mandel. Infine il sindacalismo rivoluzionario si ispirava a una morale eroica e questa morale era la stessa del nazionalismo. Questa morale si poneva contro la democrazia, contro il parlamentarismo, contro il pacifismo e l'umanitarismo. Sindacalismo, nazionalismo e imperialismo avevano dunque gli stessi nemici e possedevano la stessa morale. Giorgio Sorel aveva anche scritto:

« Il pensiero proletario dovrà essere diverso, antagonista del pensiero borghese. La violenza proletaria è sintomo appunto del ritorno del senso eroico: e del ritorno a quel sentimento che era radicato nell'anima ellenica, che domina nello spinto di Corneille e nell'eloquenza di Bossuet. Sì, il pensiero classico ora è morto, ma rinascerà sicuramente attraverso la lotta di classe ».

Con questo bagaglio di idee il Corradini aveva preparato la citata relazione al Congresso fondatore dell'Associazione Nazionalista Italiana nel dicembre 1910 a Firenze. E subito dopo si era dato a diffondere i concetti espressi in quella relazione, parlando in varie città italiane sul tema: « Le Nazioni proletarie e il nazionalismo ». Il pensiero centrale della conferenza era il seguente: « Il nazionalismo è un tentativo per spostare il problema della vita nazionale dalla politica interna alla politica estera ». Questo tentativo era necessario e urgente perchè l'Italia era « una Nazione che dipendeva economicamente e moralmente dalle altre sebbene da cinquanta anni fosse cessata la sua dipendenza politica ». L'Italia insomma « doveva riscattarsi da questa dipendenza economica e morale », come già si era riscattata da quella politica. Per questo suo stato di dipendenza il Corradini chiamava proletaria la Nazione italiana e tutte le Nazioni che come l'Italia si trovavano in istato di dipendenza dalle Nazioni più favorite. Diceva egli testualmente: Continuando per analogia, aggiungo che il nazionalismo vuole essere per tutta la Nazione ciò che il socialismo fu per il solo proletariato. Che cosa fu per il proletariato il socialismo? Un tentativo di redenzione: in parte e nei limiti del possibile, riuscito. E che cosa per la Nazione vuole essere il nazionalismo? Un tentativo di redenzione e Dio voglia che riesca a pieno ».

Così, appena nato, il nazionalismo affermava la necessità della lotta, affermava la necessità della redenzione italiana da ottenere con la guerra. Il contatto con i nostri emigranti nel Sud America aveva fatto sorgere in Corradini la visione dell'Italia come di un Paese proletario, redimere dal suo stato di dipendenza dai Paesi vicini. La prima redenzione era da compiere mandando i nostri emigranti in colonie conquistate dall'Italia. Ora, l'esame del problema coloniale e delle terre ancora disponibili nell'Africa vicina, sospingeva i nazionalisti a domandare la guerra di Tripoli. Così sorse Videa Nazionale nel marzo 1911, nell'anniversario della battaglia di Adua, e così avvenne che, nel momento più pacifista della vita italiana, i nazionalisti si riconobbero dalla fervida invocazione della guerra per l'acquisto della Tripolitania e per ritemprare le depresse virtù nazionali e dar nuovo corso alla storia del Regno.

I concetti di Enrico Corradini fecero molto cammino in pochi mesi, e quando nell'autunno l'Italia iniziò la spedizione di Tripoli, Giovanni Pascoli riprese il concetto fondamentale dell'agitatore nazionalista e lo adottò come titolo della sua orazione per la guerra : « La grande proletaria si è mossa ».

La grande autorità del poeta rese popolare e d'uso comune il termine di grande proletaria applicato all'Italia. Anche il Panzini nel suo « Dizionario moderno » scrive alla voce : « Proletaria (La Grande) : Denominazione data da G. Pascoli all'Italia in un discorso : « La grande proletaria si è mossa, detto nel teatro di Barga il 26 novembre 1911 mentre in Libia avveniva la avanzata di Ain-Zara ». E aggiunge: « Reminiscenza del Byron. La gran proletaria delle Nazioni ». Se Byron applicò già questa denominazione all'Italia vuol dire che questo concetto circola da più di un secolo in Europa. Ma spetta a Enrico Corradini l'onore di averlo rimesso in circolazione come un termine attuale, con un preciso significato politico e con la volontà di adoperarsi a modificare una situazione di fatto del tutto ingiusta e insopportabile. Da quel tempo il concetto delle Nazioni proletarie da opporre alle Nazioni capitalistiche ha fatto molta strada in Europa. La guerra del 1914 fu una guerra di opposti imperialismi. Erano rivali l'Impero britannico e l'Impero germanico e si contendevano la signoria dei traffici marini; erano rivali l'Impero absburgico e quello dei Romanoff e si contendevano la penetrazione nei Balcani ; erano naturalmente rivali Francia e Germania e Italia e Austria per ragioni di frontiera e di provincie contese. Ma tutti questi Stati in lotta avevano una idea non molto dissimile dei rapporti tra l'economia e la politica e tra l'individuo e lo Stato. Tutti avevano modellato gli istituti costituzionali sull'esempio di quelli usciti dalla Rivoluzione francese e dal sistema parlamentare britannico. Le Potenze che pretendevano di rappresentare la causa del diritto, della libertà e della giustizia, lanciavano, sì, alle altre Potenze l'accusa di militarismo aggressivo, ma era chiaro che si trattava di motivi polemici e nulla più. Questa volta il conflitto si svolge su di uno sfondo profondamente diverso. La Germania rinata combatte, sì, l'imperialismo britannico come nella vecchia guerra, ma dopo una profonda rivoluzione che ha molte analogie con la rivoluzione italiana. Noi dobbiamo procedere per sommi capi e non possiamo qui risalire il corso delle due rivoluzioni delle « Camicie nere » e delle « Camicie brune » per valutare le trasformazioni sociali da esse prodotte nella vita dei due Stati. Ma un fenomeno appare già assai chiaro. Le due rivoluzioni non si sono arrestate alle riforme politiche, ma hanno proceduto con moto analogo dal campo del diritto pubblico a quello del diritto privato investendo poi tutto il mondo dell'economia e dell'equilibrio e dei rapporti tra capitale e lavoro. Con il regolamento nuovo e originale di questi rapporti essi hanno risolto quel problema sociale che costituisce il maggiore problema dei vecchi Stati di tipo liberale. Questi non possono, non dico risolvere, ma neppure affrontare la soluzione del problema sino a quando rimangono schiavi della varietà e rivalità dei partiti e delle organizzazioni di classe e sino a quando consentono al capitalismo di sfuggire al diretto controllo e dominio dello Stato e di servire interessi di gruppi anche estranei all'interesse della Nazione. È avvenuto così che i regimi che avevano raggiunto la solidarietà nazionale e la compiuta armonia sociale, non potevano porsi dei problemi interni di maggior produzione o di maggior lavoro che non fossero anche problemi di politica estera e cioè di mercati coloniali da conquistare o di necessità di materie prime per le proprie industrie e quindi di espansione in Africa o di riacquisto colà di territori primamente posseduti.

Nell'anno 1935, già definito da Mussolini nel 1927 come l'anno cruciale dell'Europa, il nostro Continente appariva diviso in due gruppi di Potenze: le Potenze già vittoriose; soddisfatte, conservatrici e statiche, fortemente legate alla conservazione dei Trattati, e le Potenze insoddisfatte, sia perchè non sufficientemente ripagate, come l'Italia, del contributo dato alla vittoria, sia perchè sopraffatte e tenute nei ceppi dal Trattato di Versaglia, come la Germania. Ora i nodi venivano al pettine. L'Italia insoddisfatta, e la Germania anelante alla sua grande rivincita, erano animate e ravvivate da due grandi e similari rivoluzioni nazionali che accrescevano il loro dinamismo e moltiplicavano le loro aspirazioni. Roma e Berlino erano portate a solidarizzare per far prevalere, in comune accordo, una politica di revisione dei trattati.

Se Francia e Inghilterra avessero conservato un minimo di intelligenza politica, avrebbero tentato di separare Roma da Berlino, soddisfacendo le legittime aspirazioni dei due Stati o almeno di uno tra essi. Avrebbero ostacolato l'unione e la solidarietà delle due ideologie rivoluzionarie che, facendo blocco, avrebbero costituito un formidabile pericolo per i regimi democratici. Avrebbero, insomma, impedito che la solidarietà ideologica delle Potenze dell'Asse si sommasse con la loro prepotente aspirazione a una totale revisione dell'equilibrio politico dell'Europa.

Invece il blocco tra Roma e Berlino si rinsaldava nei tre anni della guerra civile di Spagna la quale assumeva il carattere di una guerra tra fascismo e demobolscevismo. Si compiva così la frattura definitiva dell'Europa in due opposti fronti ideologici. Più che mai le due rivoluzioni d'Italia e di Germania vedevano coincidere i loro movimenti rivoluzionari e il loro interesse politico alla revisione europea. E tutto ciò per opera di quei Governi che avrebbero avuto un interesse vitale di dividere le due Potenze. Ma è sempre avvenuto che le rivoluzioni profittino più degli errori avversari che delle loro stesse virtù. Ed è sempre avvenuto che la decadenza degli Stati si compia in ragione diretta della caduta della loro intelligenza politica. Vi è una sproporzione palese, nei regimi che, in tutte le epoche della storia, passano dallo splendore all'oscuramento, tra le loro possibilità e facilità di vita e i pericoli che sovrastano loro. Le prime circostanze impediscono loro di vedere, di rendersi esatto conto del grande pericolo che li minaccia, tanto che essi giungono sempre con estremo ritardo ai riconoscimenti necessari e alle deliberazioni più urgenti. Vi giungono con un ritardo per loro fatale, quando i provvedimenti che, infine, adottano, sono peggio che inutili, addirittura irritanti, mentre al momento opportuno sarebbero stati riparatori.

L'anno 1937 si apre con tre grandi realtà nuove dell'Europa: l'Impero di Roma, l'Asse romano-germanico, la guerra civile di Spagna nella quale si affrontano già, con aperta guerra, i due mondi. Da una parte la ibrida coalizione delle democrazie e del bolscevismo, del capitalismo e del comunismo; dall'altra la coalizione delle rivoluzioni nazionali: della Falange, del Fascio e della Croce Uncinata. A questo puntò la ruota della storia ha iniziato il suo rapido moto e non v'e volontà umana che possa fermarla.

La Germania unificata, rafforzata, formidabilmente armata, esaltata da un impetuoso misticismo nazionale, riprende i suoi moti storici tendenti all'unione di tutte le genti tedesche e a raccogliere l'eredità absburgica, che è di nuovo disponibile dopo la rottura del temporaneo assetto dei Trattati del 1919. Fallisce Ginevra, muore la Piccola Intesa, e, per conseguenza, tutto il mondo danubiano ricerca un nuovo equilibrio.

Nell'aprile del 1939 l'Italia occupa con fulminea decisione tutto il territorio dell'Albania. Si rende così evidente nel Mediterraneo il trapasso dell'iniziativa e del comando politico dalla Nazione francese alla Nazione italiana. Trapasso che la guerra attuale ha accelerato in modo drammatico. Pensate alla Francia del Seicento, del Settecento e dell'Ottocento, e all'Italia o agli Stati italiani dello stesso tempo; pensate alla Francia e all'Italia del 1919 e poi alla Francia e all'Italia di oggi, e noterete l'enorme cammino compiuto dall'Italia per virtù della Rivoluzione dei Fasci.

Italia e Germania vengono in luce nella seconda metà dell'Ottocento per effetto del ritorno alla vita e alla potenza di Italiani e Germanici nelle nuove unità statali: ritorno che appare oggi impetuoso e trionfante. Più facile appare il trionfo germanico, più difficile quello italiano, ma l'uno è legato all'altro. Le due cause e i due moti sono indissolubili. Le Potenze, che occuparono il Mediterraneo a cagione della decadenza italiana, devono gradatamente sgombrarlo. Il programma è vasto, il tempo può essere più o meno lungo, ma la conclusione del duello è sicura. Il fiorire e il decadere del loro pensiero e quindi, della loro iniziativa politica. Esaurito nel mondo moderno il ciclo della rivoluzione liberale inglese del 1688 e della rivoluzione democratica francese del 1789-1794, tende a modificarsi sempre più rapidamente l'equilibrio mondiale imposto dalle potenze, che detenevano, per virtù di quelle rivoluzioni, l'iniziativa politica.

La guerra dichiarata alla Germania il 3 settembre 1939 dalla Gran Bretagna e dalla Francia accelera l'inevitabile processo di revisione storica.

Nell'Europa centro-orientale, nell'Europa mediterranea, nel Continente africano e in tutta l'Asia le Potenze dell'Asse hanno già affermato o sono in procinto di affermare il nuovo ordine. Esso non è più l'ordine democratico e segnerà quindi la fine della potenza delle democrazie.

Un anno di guerra ha collaudato con prodigiosi risultati la saldezza dei nuovi Stati totalitari. Allo stesso modo che essi godevano in pace dei vantaggi della iniziativa politica e diplomatica e dell'unità e celerità di comando, essi hanno saputo imporre in guerra l'iniziativa militare e strategica. Italia e Germania non hanno più avversari nel Continente, ove gli alleati e i clienti della Gran Bretagna sono stati annientati rapidamente. Unica nemica, asserragliata nella sua isola, è rimasta l'Inghilterra. Per la virtù del genio guerresco proprio della Germania la guerra ha assunto caratteri del tutto nuovi. Le democrazie, e per esse la democrazia francese, era rimasta legata ai concetti direttivi dell'ultima guerra, e cioè alle grandi linee fortificate e continue e alle grandi masse indifferenziate di combattenti scaglionate nelle trincee. La Germania ha concepito e imposto una guerra del tutto diversa : una guerra di cavalieri catafratti che hanno travolto le masse dei fanti in terra e una guerra di cavalieri alati che hanno portato lo sterminio dall'alto. Posto dinnanzi ai nuovi metodi di guerra l'esercito francese, che menava vanto di essere il più forte della terra, si è sbandato e arreso con più di due milioni di prigionieri. L'Inghilterra sola ha fatto in tempo a riportare il suo corpo di spedizione, senza più armi né equipaggiamento, nell'Isola ove attende lo scatenarsi dell'ira nemica. Ricorrono spontaneamente alla memoria i precedenti della battaglia delle navi isolane contro la lnvencible Armada nel 1588, e più ancora i precedenti della lunga lotta dell'Isola contro l'Europa napoleonica. Ma vi sono questa volta tre elementi nuovi che porteranno la lotta ad una conclusione del tutto diversa. Il primo elemento nuovo è quello guerresco e consiste nella facile constatazione che il mare non basta più a separare l'Isola dal Continente. La Germania, infatti, può portare ogni giorno e ogni notte la sua offesa nel cielo dell'Isola e quindi materialmente sulle città, sulle ferrovie, sui cantieri e sulle navi britanniche. Tenendo il cielo dell'Isola i Germanici possono ritenere fondatamente di occuparla in parte.

Il secondo elemento consiste nella diversa natura dell'Europa d'oggi a paragone dell'Europa napoleonica. L'Europa d'oggi appare definitivamente, e non provvisoriamente come quella napoleonica, portata all'unità economica e all'unità morale. Napoleone aveva creata con la sua spada e con le dinastie familiari un'unità difficile a consolidarsi. La Germania e l'Italia raccolgono invece i frutti di una elaborazione profonda e diffusa della civiltà europea verso l'unità. Questa unità di direttive, questa unità morale, nata dalla identità di due grandi rivoluzioni popolari, si oppongono alla continuazione dell'egemonia britannica in Europa. L'Inghilterra, infatti, dalla fine del Cinquecento ad oggi ha fondato la sua politica sulla divisione dell'Europa, sul contrasto perenne e sempre alimentato di Spagna contro Francia, di Francia contro Germania, di Germania contro Russia, di Russia contro Austria, di Russia contro Turchia, di Italia contro Francia e così via. Tutto ciò è per finire. Il tramonto della Francia e l'unione definitiva della civiltà romana e mediterranea con la civiltà germanica, rendono impossibile per l'avvenire il giuoco tradizionale dell'impero mercantile britannico. Hitler e Mussolini sono i due ideatori e fondatori del nuovo ordine europeo e insieme i condottieri di una guerra già vinta sull'intero territorio del Continente. Questa vittoria non è che la premessa di una solidarietà reale e duratura tra gli Stati e i popoli vari, dalla Vistola all'Atlantico. Napoleone non poteva giungere a tanto. Egli era la spada di una rivoluzione non prodotta dal suo genio, e alla quale il suo governo e il suo impero sostanzialmente reagivano. Ecco perchè la fine dell'avventura napoleonica vide la restaurazione dei Borboni e poi la rivoluzione liberale del 1830, e cioè un compromesso tra il vecchio e il nuovo, tra Monarchia e Governo popolare. Le nuove rivoluzioni d'Italia e di Germania non possono invece arrivare ad un compromesso con il mondo britannico. Le caratteristiche del popolo inglese si sono rivelate in due ordini di fenomeni di particolare importanza: nella religione e negli ordinamenti politici e costituzionali. Il sistema politico interno, dal 1300 al 1900, nel corso di sei secoli, si è distinto per l'affermazione costante dei diritti individuali rispetto all'autorità dello Stato e per l'affermazione dei poteri del Parlamento rispetto a quelli della Corona (ancora negli ultimi anni con l'abdicazione di Edoardo VIII). Sulle lotte politiche interne, tendenti alla affermazione costante di tali principi, si innestò nei secoli XVI e XVII la lotta religiosa che portò alla creazione di una Chiesa nazionale anglicana. L'autonomia religiosa fu decisiva nella storia e nell'espansione dell'Inghilterra. Storia ed espansione sostanzialmente antiromane. A differenza di quel che è avvenuto per gli Imperi di Bisanzio, di Spagna, di Germania, di Austria, di Russia e di Francia, l'Impero inglese non ha mai portato alcun segno di Roma. Tutti gli altri hanno cercato in Roma, nel diritto, nella Chiesa, nelle insegne delle legioni, nella investitura dei Papi, i loro titoli al governo dei popoli. Perfino la dinastia russa dei Romanoff, caduta nel 1917, legittimava il suo impero con l'eredità da Bisanzio e quindi da Roma. L'Inghilterra invece si è mostrata incompatibile con il Continente : il Regno non si è mai richiamato all'Impero. Tutto anzi; spirito e leggi, forma e pensiero, sono stati avversi a Roma e si sono potenziati con la negazione di Roma. L'antipapismo è stato il maggior titolo di originalità della storia nazionale inglese. Tutte le guerre interne tra Gran Bretagna e Scozia, tra Gran Bretagna e Irlanda, tra i Tudor e gli Stuart hanno avuto nell'antipapismo il loro più chiaro contrassegno. Qualche volta si è preteso di vedere, nel metodo di colonizzazione britannico, l'imitazione dei Romani. Ma in realtà ogni idea di Roma, ogni idea della civiltà dell'Occidente come è da noi intesa e come ci è derivata dall'eredità grecoromana alla quale si è aggiunto il lungo apporto germanico dell'Evo Medio, è sempre rimasto estraneo alla civiltà inglese. Tutti gli altri imperi che hanno occupato la storia di Europa hanno invece avvertito la necessità di proclamarsi eredi di Roma; o hanno cercato l'investitura da Roma e dalla Chiesa di Roma o hanno combattuto per la difesa di Roma e della civiltà di Roma.

Sono popoli germanici che battono e ricacciano i musulmani a Poitiers nell'ottavo secolo: è Carlo Magno re dei Franchi, gente germanica, che ricostruisce l'Impero e riceve l'investitura a Roma da Leone III nella notte di Natale. Un altro Leone, l'ottavo, sacrò Ottone principe di Sassonia, pochi decenni prima dell'anno mille, Sacro Romano Imperatore germanico. E questo Impero durò sino all'anno 1806 e fu cancellato, non a caso, da Napoleone che pure aveva voluto, con un procedimento assai meno edificante di quello dell'illetterato Carlo Magno, ricevere dal Papa, a Parigi, la corona d'Imperatore. L'attrazione dei Germani verso Roma è costante e occupa interi secoli e costituisce motivo di interno travaglio e di feconda rielaborazione di tutto il pensiero e di tutto lo spirito germanico dal tempo degli Ottoni a quello di Goethe. Se è vero che la Riforma è in contrasto con questo processo storico, bisogna riflettere che la creazione dei grandi Stati occidentali di Inghilterra e di Francia e la discesa di Carlo Vili in Italia spezzano interamente la tradizione romana. Infatti l'entrata delle nuove flotte nelle acque di Roma, fa cadere l'ultimo segnacolo della gloria italiana rifugiatasi nella marineria delle Repubbliche, sempre vittoriose sulle coste d'Africa, su quelle d'Asia Minore e nel Mar Nero.

Un altro importante fattore dello svilupparsi e affermarsi dell'imperialismo britannico è da ricercare nel suo orientamento commerciale marinaro. Se la caratteristica dominante dell'Impero di Roma fu la sua struttura politico-militare, la caratteristica dell'Impero britannico è quella marittima e mercantile. L'Inghilterra ha portato al massimo sviluppo i principi e i metodi del mercantilismo, e ciò vale a spiegare lo spirito sostanzialmente antimilitarista della popolazione inglese. Questa società utilitaria e libero-scambista dei Sidney, Bentham, Stuart Mill, Herbert Spencer è battuta in pieno dal trionfo delle attuali rivoluzioni fondate sul lavoro e sul diritto delle grandi collettività nazionali e razziali. Queste grandi collettività domandano di partecipare, a condizione di parità con i popoli privilegiati, al banchetto della vita. Eccoci per altra via ritornati al discorso della guerra tra le Nazioni proletarie e le Nazioni capitaliste. È una guerra già vinta e che ha solo bisogno di essere perfezionata. E già vinta perchè e finito il tempo dell'individualismo negli ordini politici come nell'ordine economico. E finito il tempo del capitalismo come sistema economico e come strumento di dominazione in terra straniera. È finita, per gli individui come per i popoli, la influenza dei principi della rivoluzione francese. Tutto ciò che poteva essere materia di discussione e di dubbio prima dello scontro delle armi, non può più esserlo ora dopo la resa della Francia senza combattimento. L'Europa sta dunque per essere totalmente riordinata e rifusa. E sta per essere riordinata secondo i principi delle nuove rivoluzioni, ove il diritto dello Stato domina costantemente il diritto individuale. Se si trasferisce questo concetto dai singoli alle collettività nazionali si giunge con facilità ad una conclusione. E cioè che gli Stati popolari e totalitari sostituiranno gli Stati parlamentari e borghesi, così come questi sostituirono, per effetto della Rivoluzione francese, gli Stati assoluti e dinastici. Per noi contemporanei la confusione sembra enorme e il il trapasso difficile. Ma per chi ponga i fatti nella dovuta prospettiva storica, tutto diviene assai chiaro. L'individualismo ha minato lo Stato moderno perchè ha portato al frazionamento dei gruppi politici e delle organizzazioni di classe impedendo ogni reale attività di governo, e perchè si è combinato con l'egoismo borghese che ha sottratto gelosamente allo Stato, sino a quando ha potuto, il controllo sull'attività economica. Quando le democrazie sono giunte all'estrema perfezione delle libertà individuali e della libertà produttiva, lo Stato ha cessato di esistere come coordinatore e propulsore dell'attività nazionale. Lo sfasamento tra attività economica e attività politica ha condotto alla paurosa crisi del 1929 che ha visto cadere il sistema capitalista. Questa paurosa caduta ha rafforzato, nei popoli anelanti a una vita più vigorosa e fattiva, la fede nelle rivoluzioni del Fascismo e del Nazionalsocialismo, dirette a combattere la disgregazione dello Stato moderno. Ora lo Stato è stato reintegrato in tutta la sua pienezza. All'opposto si può affermare che il principio di nazionalità, suscitato dalla rivoluzione francese, ha avuto la sua ultima applicazione nel 1919 per effetto della dissoluzione dell'Impero absburgico. Dando vita a quelle nuove comunità nazionali, l'Europa riteneva di aver raggiunto la perfezione democratica e non si accorgeva di essere giunta al disordine cronico per la inconciliabilità dei piccoli Stati. I particolarismi storici agivano per la disgregazione europea, così come una volta i municipalismi rendevano impossibile l'unità nazionale.

L'Italia e la Germania, dinnanzi alla paralisi degli Stati borghesi e al disordine e alle fermentazioni croniche dei piccoli Stati, hanno messo in azione il « turbine » rivoluzionario di cui si legge nella dottrina di Moeller Van den Bruck, uno scrittore tedesco che annuncia il Nazionalsocialismo e che può essere ravvicinato al nostro Corradini. Il « turbine » rivoluzionario è innanzi tutto un fatto spontaneo, di natura fìsica, consistente nella necessità di dar vita e lavoro alle Nazioni bisognose di sbocchi e cariche di sovrapopolazione. Il Moeller scriveva naturalmente per la riscossa germanica dopo la guerra del 1914-1918. L'invocato turbine rivoluzionario scoppiò in Italia e in Germania e parve subito destinato ad operare fuori dei confini per raggiungere una maggiore giustizia sociale e una più equa distribuzione dei beni della terra. L'Europa e l'America del 1929 avevano sulle braccia oltre venti milioni di lavoratori disoccupati, ai quali non sapevano provvedere in nessun modo, perchè le democrazie plutocratiche erano state incapaci di creare un rapporto di dipendenza precisa e immediata tra il fattore politico e il fattore economico. Le rivoluzioni popolari hanno raggiunto questo scopo all'interno e lo raggiungeranno per virtù della guerra vittoriosa, nell'equilibrio economico e politico fra i Continenti. È logico che questo moto storico abbia a protagonista sia in Italia che in Germania il popolo lavoratore perchè esso ha più salde radici nella terra natia ed è più facile agli incendi mistici e romantici. Un uragano psichico ha sconvolto i popoli poveri e fecondi d'Europa, immettendo nella vita politica le grandi masse sino a ieri escluse. Questo « turbine » (Wisbel) ha fatto saltare l'ossatura interna degli Stati e la struttura giuridica internazionale esistente (vedi Società delle Nazioni e Trattato di Versaglia) per rifondere la società europea in un nuovo stampo. La rivoluzione europea, condotta da Mussolini e da Hitler si sta perfezionando con la guerra attuale, ed esprime « la rivolta delle forze profonde e istintive dei popoli contro l'assurda tirannia della ragione ».

La società europea di domani poggerà sui due grandi popoli laboriosi e fecondi che hanno saputo esprimere le rivoluzioni dell'avvenire: l'italiano e il germanico. Il primo ha il suo campo naturale di vita e di espansione nel Mediterraneo : il secondo in tutta l'Europa transalpina e centro-orientale. L'Europa di domani sarà gerarchica perchè diretta da Stati che hanno adottato all'interno un ordinamento gerarchico. La sconfitta della democrazia sarà così totale e definitiva. La finzione dei piccoli Stati, aventi diritti uguali ai grandi Stati, era forse un miràggio dell'astrattismo giuridico, ma indubbiamente rappresentava una assurdità storica quando non era una espressione dell'ipocrisia britannica.

La dignità e il comando delle due Nazioni che avranno la direzione dell'Europa, saranno giustificati dal genio divinatore dei nuovi istituti politici e della nuova strategia vittoriosa, dalla loro sovrappopolazione, pungolo nobilissimo e perpetuo per impedire le fasi stagnanti della civiltà, dalla loro capacità produttiva e dalla nuova giustizia del lavoro.