Friday, 9 March 2012

Razzismo sovietico

(Pubblicato in « Nuova antologia », 16 maggio 1939)

di Tomaso Napolitano

« Gli ebrei sono rivoluzionari e distruttori fino
a quando non ottengono il potere. Allora
gli ebrei si dimostrano conservatori ».

KADMI COHEN, L'État d'israel (pag. 59)

Lo scrittore Alessio Tolstoi, nipote del conte Leone e restauratore bolscevico di Pietro il Grande, descrivendo da par suo la reazione germanica al gesto di Grynzpan (1) condensava qualche mese fa in due fitte colonne di stampa molti fulmini di consumo proletario contro il razzismo tedesco ed il Fascismo mondiale (Kravàvy Uzas, L'orrore del sangue, « Pravda », 21 novembre 1938).

Il tov. Alessio Michàilovic non si arrestava nel suo scritto alle oscure minacce. Tra invettive e perorazioni, la sua prosa fluente e impetuosa girava con astuti propositi attorno ad una idea fondamentale, chiaramente alla fine rivelata dal grido di battaglia conclusivo: « Protestare — non basta! ».

Che cosa dunque proponeva Alessio Michàilovic Tolstoi contro il razzismo fascista, persecutore dei poveri ebrei? Di concreto, almeno per il momento, nulla. Ma si capiva bene dal tono generale che ormai per gli Stati totalitari le cose si mettevano male. Infatti, il discorso dello scrittore sovietico terminava con un caldo e patetico appello alla cittadinanza seriamente sollecitata a fare tutto il possibile per una rapida e completa « distruzione del Fascismo come dottrina politica e sistema di governo » (Pravda, cit.). In attesa di ulteriori precisazioni, il nipote del conte Leone intanto invitava i cani più rinomati nell'Unione — trozkisti, nazisti, fascisti, nazional-borghesi di tinte varie, ecc. — a rivolgere estatici lo sguardo al regime sovietico « che costruisce la sua potenza sulle idee della più alta verità e dell'amore per l'umanità ».

A sentire questa sfida — ripetuta in centinaia di comizi in tutte le città dell'Unione — molta gente sfaccendata d'Europa e d'America si mise d'impegno a guardare, se non estatica almeno incuriosita, quello che i bolscevichi avrebbero fatto in favore degli ebrei, una cosa essendo ormai assolutamente certa, e che cioè « protestare » non bastava più. Passò un giorno, passò un mese. La gente aspettava. Il regime trovava modo, in questo tempo, di mostrare in forme sempre più originali il suo costante attaccamento alle masse operaie e contadine dell'U.R.S.S. (2), ma degli ebrei perseguitati e dell'azione da svolgere in loro favore neppure una parola. Gli ingenui cominciarono ad agitarsi: « Apre o non apre l'U.R.S.S. le sue frontiere per accogliere i profughi ebrei? Tenta o non tenta un'azione decisiva contro le potenze fasciste? »... Niente. È arrivato marzo, l'Australia e le Isole filippine hanno fatto sapere d'essere disposte a fare qualche cosa per gli ebrei, ma l'U.R.S.S. è rimasta immobile, fedele al suo grido — « Protestare non basta ! » — che finalmente s'è capito nel suo bonario significato di paterno incitamento alle grandi e pietose democrazie.

Il comportamento negativo dell'U.R.S.S. nella questione ebraica, nonostante i furori del novembre 1938, non ha sorpreso coloro che per esperienza sanno come le proteste, lo sdegno, gli entusiasmi, le ire e gli slanci affettivi siano nell'U.R.S.S. ufficialmente dosati al millesimo e non lascino, appena smaltiti, tracce di sorta nell'organismo dei consumatori. Ma i furori sovietici del novembre scorso hanno ridato attualità ad un problema che merita attenzione: quello degli ebrei proletari, i quali non sappiamo quanto abbiano a ringraziare il loro Dio d'aver dato il potere agli ebrei nell'U.R.S.S. È storicamente certo che il bolscevismo ai primi sintomi razzisti degli Stati totalitari si precipitava a spolverare la sua vecchia bandiera dell'antirazzismo, ed all'ombra di questa bandiera compiva l'ennesimo tentativo di far folla contro il Fascismo, pizzicando la novissima lira del pietismo democratico. Proprio questo tentativo, inspirato dagli ebrei massacratori dell'U.R.S.S., muove oggi la nostra curiosità sulle origini del declamato antirazzismo bolscevico; sul comportamento degli ebrei al potere nell'U.R.S.S. verso la massa ebraica proletaria (Birobidzan); e, sovratutto, sull'azione del regime sovietico a favore dei profughi ebrei prima e dopo del gesto di Grynzpan, azione destinata, secondo l'espressivo linguaggio del conte Alessio, a provocare l'estatica ammirazione dei cani fascisti di tutto il mondo.

L'atteggiamento di favore assunto dalla dittatura del proletariato nei confronti degli ebrei lo stesso giorno, si può dire, della proclamazione della Repubblica socialista federativa sovietica russa (R.S.F.S.R.) è l'unico atteggiamento che il potere rivoluzionario abbia « ufficialmente » mantenuto fermo ed immutato lungo tutto il periodo del proprio assestamento sino all'odierna fase di democrazia stalinista. Naturalmente anche qui va subito avvertito che l'atteggiamento ufficiale è tutt'altra cosa del comportamento reale, e che un mutamento sostanziale nella politica del bolscevismo verso gli ebrei si nota chiaramente all'epoca d'inizio dei piani quinquennali (1928) e della propaganda cosidetta nazionale (opportunistici ritorni all'affermazione della « patria », dell'« unità » familiare, ecc.). Non che il bolscevismo dal 1928 si faccia antisemita: questo è un assurdo! Ma è da quest'epoca che gli ebrei al potere divengono conservatori, e, consolidate le loro clientele centrali e periferiche, cominciano, per arginarne la naturale invadenza, ad occuparsi, in maniera affatto interessata, delle masse ebree sovietiche insofferenti della condizione amorfa loro assegnata nella società bolscevica senza classi (colonizzazione ebrea del Birobidzan).

Sostanzialmente, perciò, la politica dello Stato sovietico verso gli ebrei può distinguersi in due fasi. La prima, che arriva sino al 1928, ha inizio con la famosa Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, firmata da Lenin in veste di Presidente del Consiglio dei Commissari del popolo (2 novembre 1917); « dichiarazione » alla quale non si può dare altro valore se non quello di un sintomatico urgente atto di solidarietà degli ebrei al potere verso tutti gli altri che, dalla Russia sollecitando le casseforti ebraiche di Londra e di New York, avevano preparato sui fronti della guerra mondiale l'avvento del bolscevismo sovra un sesto del globo. Questo primo atto del nuovo potere in Russia veniva logicamente mascherato con vernice di marca rivoluzionaria. L'abolizione di tutti i privilegi e di tutte le « restrizioni » nazionali e religiose, decretata dalla Dichiarazione del 2 novembre 1917, fu detto essere il primo provvedimento concreto adottato in Russia in conformità dello spirito internazionalistico marxista. E questo è esatto; ma chi può negare, d'altra parte, ch'esso non sia stato, essenzialmente, una rivincita dell'ebraismo contro la razza ariana? La quale, non occorre ricordarlo, aveva tutelato se stessa, nella Russia zarista, sino al giorno innanzi, assegnando agli ebrei un territorio delimitato detto « zona di residenza » (ciertà osièdlosti) che accoglieva, all'epoca del crollo della monarchia, il 93,9 per cento degli ebrei di Russia.

Gli ebrei che parteciparono sotto la presidenza di Lenin, il 10 ottobre 1917, alla riunione segreta nella quale fu decisa l'azione rivoluzionaria immediata, si trovarono pochi giorni dopo al governo della proclamata Repubblica sovietica. Se fino allora gli ebrei avevano fornito sottufficiali a tutti i partiti rivoluzionari (HERZ, Iudenstaat, 10ª ed.) nel 1917 essi erano in condizione di fornire dei generali alla rivoluzione bolscevica. Potevano mancare Trozki, Sverdlov, Uritzki, Zinoviev, Kamenev, Radek, ecc., la più grande occasione offerta agli ebrei dalla storia per la meditata vendetta contro la razza ariana « che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli »? (MUSSOLINI, Popolo d'Italia, 4 giugno 1919). Così il 2 novembre successivo venivano abolite tutte le « restrizioni » per gli ebrei, ed a tale abolizione faceva logico ed immediato riscontro l'abolizione di tutti i « privilegi » goduti dai non ebrei (in massima parte dalla nobiltà e dal clero). Inutile avvertire che negli atti ufficiali non si parla mai specificamente di ebrei ma di « minoranze nazionali » e di « sfruttati ». E la ragione è intuitiva non potendo la Rivoluzione, sanguinosamente combattuta in nome dell'ebreo Carlo Marx per la « liberazione » dell'uomo, in nessun modo prescindere da quelle demagogiche affermazioni di principio capaci agli occhi delle masse di giustificarne le cause ed esaltarne lo spirito internazionale.

Un passo innanzi sulla via della chiarezza è compiuto otto mesi più tardi, all'epoca della prima Costituzione (10 luglio 1918). Gli ebrei inorgogliti dal potere non hanno più esitazioni : essi affermano l'uguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dalla razza e dalla nazionalità cui appartengono (art. 22); e più tardi (Costituzione del 6 luglio 1923), in conseguenza dell'affermato principio, stabiliscono una cittadinanza unica per tutti i popoli compresi nelle repubbliche sovietiche entrate a far parte dell'Unione costituitasi il 30 dicembre 1922 (3).

L'inizio dei piani (con l'incapacità a risolverli subito chiaramente manifestata dai dirigenti ebraici fattisi bolscevichi) e della propaganda per la difesa della patria (originata dall'incubo dell'intervento capitalistico) segna, dopo il 1928, un graduale e radicale mutamento della politica sovietica verso gli ebrei. Ciononostante le affermazioni di principio restano inalterate: all'inizio, sovratutto per non turbare posizioni personali troppo in evidenza (4); nei tempi più recenti, anche perchè l'anti-razzismo sovietico marca 1917 è visto dal regime come un'arma di propaganda « formidabile » contro la politica razzista degli Stati totalitari.

Le ragioni sono intuitive. Teoricamente la posizione del bolscevismo verso l'ebraismo resta quella di Lenin. Il filosemitismo è un mezzo di espansione del bolscevismo nel mondo. Il giorno in cui il bolscevismo si mettesse a fare dell'antisemitismo ufficiale esso dovrebbe rinunciare all'appoggio dell'ebraismo mondiale, e ripudiando il proprio carattere internazionalista darebbe partita vinta ai suoi nemici. Perciò il bolscevismo, sotto Lenin e sotto Stalin dovrà sempre essere, per ragioni teoriche e pratiche, necessariamente fìlosemita.

Queste considerazioni però non possono distruggere la realtà, che ha posto gli ebrei al potere nell'U.R.S.S. dinnanzi a due problemi di eccezionale gravità. Primo: il pericolo per essi stessi costituito dall'invadenza delle masse ebraiche, favorite e protette (non foss'altro che per scoraggiare l'antisemitismo dei russi) dal regime sovietico. Secondo: l'antisemitismo dei russi che, com'è stato benissimo detto dal Sommi Picenardi, è, negli strati popolari russi, un istinto ereditario ed una insofferenza fisica. Per far fronte a queste due realtà il regime s'accinge alla risoluzione del caratteristico problema degli ebrei sovietici col procedimento classico marxista del superamento dialettico delle contraddizioni. Il bolscevismo è antisemita per principio ma razzista per necessità: le masse ebraiche sono sempre un pericolo per qualsiasi forma di Stato, sia pure quello fondato sui Consigli (Soviety), ed occorre quindi provvedere. In quale forma? Ufficialmente proclamando il diritto degli ebrei ad avere una patria tutta per sé. L'U.R.S.S. concede il territorio purché gli ebrei se ne vadano. Ha inizio così nell'U.R.S.S. quella politica di razzismo sui generis che è la migliore risposta alla negazione sovietica del fondamento etico-sociale del razzismo degli Stati totalitari. Poiché, infatti, i provvedimenti sovietici emanati dal 1928 in poi per allontanare le masse proletarie ebree dai centri cittadini convogliandole in un'unica inospitale zona di frontiera (Birobidzan) provano due cose: la realtà, in qualsiasi paese, del pericolo dell'ebraismo, e quindi la necessità della difesa da parte dello Stato; l'umanità con la quale i regimi totalitari hanno ufficialmente attuato la loro difesa dall'ebraismo in confronto della ipocrita e sanguinosa politica di razzismo mascherato adottata dai Soviety, per ragioni contingenti, dal 1928 ai giorni nostri.

La colonizzazione forzata della desertica terra del Birobidzan veniva imposta dal bolscevismo alle masse ebraiche col miraggio della indipendenza nazionale, della « creazione dello Stato ebraico sovietico ». Ma il tempo ha sempre ragione, da solo, delle più grandi mistificazioni: le tragedie collettive che ha visto la terra del Birobidzan, nel corso del fallito esperimento di colonizzazione ebrea, sono state così gravi che neppure il conte Alessio Tolstoi ha avuto il coraggio, nelle calde giornate del novembre scorso, di tirare in ballo la « regione autonoma ebrea dell'Estremo Oriente » (Costituz. vig., art. 22).

Questa è storia: storia poco nota ma oltremodo istruttiva, perchè svela le cause d'un incredibile pietismo e scopre il vero volto del bolscevismo, prodigo a parole con gli ebrei lontani ma cauto e niente affatto tenero coi « fratelli » di casa propria.

Gli ebrei sovietici sono iscritti al partito e si proclamano atei ma festeggiano la Pasqua ebraica e non mangiano carne di maiale. Le donne russe li sposano volentieri perchè gli ebrei occupano posti importanti, sono protetti dal regime e cumulando cariche ed incarichi riescono ciascuno a guadagnare per dieci russi messi insieme. Questa assenza di preoccupazioni razziste da parte delle donne sovietiche si spiega facilmente con la condizione assolutamente precaria, nell'ambito specialmente della famiglia, che ad esse ha fatto il bolscevismo. D'altra parte il matrimonio con un ebreo sottrae la donna russa al lavoro estenuante delle fabbriche e degli uffici, la salva dalle code davanti ai negozi e dalle « case di maternità », ed ha l'incalcolabile vantaggio di assicurare ad essa, nella società cosidetta senza classi, un'esistenza assolutamente privilegiata.

La società bolscevica, però, non è fatta solamente di donne: ci sono anche i russi; ci sono anche, tra i russi moderni, alcuni tipi del genere intellettuale, e i russi, compresi gl'intellettuali, sono antisemiti per temperamento e per tradizione. Da ciò risulta che resta immutato, pur nella nuova società bolscevica, il vecchio antagonismo della società zarista. Ma qualche cosa muta: mutano le forme della contraddizione. Prima dell'ottobre 1917 la separazione tra russi ed ebrei la operava lo zarismo relegando gli ebrei nella zona di residenza. Dopo l'ottobre, nell'ex Impero vanno al potere gli ebrei in nome di principii rivoluzionari che portano inalterata tutta la potenza distruttiva e corrosiva del Talmud. Non si può dubitare che siano essi i meglio qualificati a comprendere che nessun altro può, a distanza di tempo, minacciare tanto seriamente la loro posizione ufficiale come gli ebrei rimasti fuori dell'orbita del potere rivoluzionario. Ma si può usare, a termini invertiti, lo stesso procedimento zarista, e cioè si possono relegare i russi in una « zona di residenza » e mettere gli ebrei a scorazzare per il resto del territorio? No, certamente. Ed allora, di pari passo con la propaganda nazionale per il « tutto russo », il regime, sotto gli auspici del più autorevole ebreo dell'U.R.S.S., Lazar Moissievic Kaganovic, inizia una « generosa » campagna in favore delle aspirazioni nazionali ebraiche. In altri termini, la questione si riduce alla seguente semplicissima espressione: se non è possibile relegare i russi, sarà necessario ancora relegare gli ebrei; ma, naturalmente, questa volta alla maniera bolscevica, ossia salvando i principii a scàpito della vita degli uomini.

Da questa posizione mentale nasce il progetto della colonizzazione ebraica del Birobidzan. Il 28 marzo 1928 il Presidente del Comitato Centrale dell'U.R.S.S. Kalinin e il segretario Enukidze, oggi epurato, firmavano una curiosa « postonovlenie » (Ordinanza) nella quale era detto che in Estremo Oriente, alla frontiera manciuriana, tra i due affluenti dell'Amur, la Bira ed il Bidzan, veniva costituito il « Distretto nazionale ebraico del Birobidzan ».

Nel Birobidzan, vasto due volte la Palestina — s'apprende per bocca del bolscevico prof. Nicolai Michailov — nessun ebreo aveva mai vissuto sino al 1928 (Nouvelle géographie de l'U.R.S.S., pag. 234). Le ragioni di questa mancata predilezione sono state a torto trascurate dal professore Michailov. Esse risiedono in buona parte in alcune particolarità del clima, che non può assolutamente definirsi temperato. Il termometro infatti scende spesso nel Birobidzan a 40° sotto zero in inverno, e sale a 33° in estate, mentre nelle stagioni calde i venti monsoni soffiano dall'Oceano provocando piogge torrenziali (Slonim, Les II Rep. sov., 1938). La terra non e adatta alle colture più importanti, e il bestiame necessario all'agricoltura non trova condizioni convenienti di vita. Fatta la legge, senza forzare la mano per intuitive ragioni di tattica, il regime attese che i proletari ebrei, tocchi da tanta generosità, si recassero, falcia e badile, a colonizzare in massa la terra non soltanto promessa ma ormai concessa. A colonizzarla, s'intende, secondo i principii della collettivizzazione agraria, che avrebbe dato finalmente al Paese, secondo Stalin, una vera economia socialista. Ma sia che lo spirito ebraico non abbia naturali tendenze per l'agricoltura — e meno ancora per quella socialistica, nella quale ad occhio e croce si vedeva che ci sarebbero stati soltanto gli sfruttati — sia che di tutti gli ebrei del mondo gli ebrei sovietici non desideravano assolutamente essere i primi a conoscere il Birobidzan, certo è che i pionieri ebrei si fanno attendere la bellezza di oltre un anno prima di metter piede nella terra concessa. Nell'aprile-giugno 1929 da Kazak, da Minsk e da Smolensk arriva il primo contingente di seicentocinquanta persone; a fine d'anno i coloni ebrei sono mille; altri cinquecento arrivano nel 1930, sinché in fine 1931, a tre anni dal provvedimento, tremila ebrei complessivamente guazzano in un territorio due volte la Palestina (5).

Che cosa fanno in quest'epoca i tremila ebrei sovietici del Birobidzan non risulta esattamente dai documenti ufficiali; ma pare che le fabbriche ed i kolchozy di cui si parla nell'U.R.S.S. restino tutti allo stato di progetto. A Mosca si dice allegramente che il regime ha costituito un altro « lagher » (campo di concentramento) per gli ebrei « raskulaciènnye » (contadini espropriati), ossia un « campo » di speciali dimensioni destinato agli ebrei miserabili e disgraziati i quali lavorano in definitiva per ingrassare queli che restano in città. Ma gli ebrei, siano pure « raskulaciènnye », s'impuntano e si rifiutano di partire per la terra concessa, perchè si sa ormai perfettamente che se un confronto fosse possibile tra il Birobidzan sovietico e la « zona di residenza » zarista esso andrebbe a tutto vantaggio della « zona di residenza » (ch'era compresa, si ricordi, tra l'Ukraina occidentale e la Russia bianca).

Si passa allora alla maniera forte. Nel 1932 il regime impone la colonizzazione del Birobidzan: in quest'epoca già in tutta l'U.R.S.S. l'economia agricola si può dire collettivizzata. A prezzo del sangue di milioni di kulakì sono sorte le aziende collettive (kolchozy), nelle quali il krestianin sovietico trova modo di rimpiangere il mugik zarista, e non v'è motivo perchè il distretto nazionale ebraico-sovietico debba sottrarsi alla forma socialistica di economia agricola stabilita dal governo centrale. Si fissa perciò un « piano » : venticinque mila ebrei dovranno essere trasferiti d'autorità nel Birobidzan. Si predispongono i mezzi per questo trasferimento, ma... Ma a questo punto si trovano, nei testi sovietici, lacune e contraddizioni gravissime. Nel libro Gli ebrei e l'U.R.S.S. è detto, ad esempio, che non fu possibile attuare questo piano a causa delle inondazioni e della rigidità del clima; eppure da un'altra pubblicazione, anch'essa di fonte sovietica, si apprende che nel 1932 cominciò la fuga degli ebrei: ma da 19 mila (il trasferimento forzoso fu allora compiuto!) che erano, gli ebrei si ridussero a settemila nel 1933, e a tremilacinquecento alla fine dello stesso anno (Il Birobidzan, Vilno). Riuscirono veramente a fuggire i 15.500 ebrei che trasferiti di autorità nel 1932 laconicamente sono dati per assenti, nel 1933, dalle pubblicazioni ufficiali? Non vi sono documenti per affermare il contrario; ma riflettendo alle difficoltà d'una evasione in massa dal Birobidzan, sotto gli occhi della Ghepeù, e ricordando le stragi e le epidemie di quest'epoca, nessuna ipotesi, neppure la più tragica, va esclusa per spiegare la misteriosa scomparsa dei quindicimilacinquecento ebrei dal Birobidzan nel 1933.

Nel 1934 nelle stesse sfere dirigenti sovietiche si fa strada il convincimento che neppure con la più assoluta violenza la mano d'opera ebrea riuscirà a colonizzare il Birobidzan. Viene allora abolita ogni restrizione alle attività dei non ebrei, i quali, numericamente e qualitativamente superiori, costruiscono, sotto l'assillo dei piani, quel poco che oggi si vede nella vallata dell'Amur: un centro abitato, una elettrostazione, alcune fabbriche.

Nello stesso tempo però il regime rinnova gli allettamenti perchè gli ebrei si trasferiscano nel territorio loro assegnato. Il 7 maggio 1934 una nuova « postonovlenie » (Racc. leg. 1934, rase. 26, n. 208) eleva il Birobidzan da regione nazionale a « provincia autonoma ebrea ». Tre volte di seguito Lazzaro M. Kaganovic si reca sul posto a commentare l'Ordinanza, affermando che ormai il senso della « statalità ebrea » deve naturalmente attrarre i figli d'Israele in Estremo Oriente (Discorso del 9 febbraio 1936). Ma gli ebrei non sentono: i figli d'Israele non sempre s'intendono neppure tra di loro. Essi considerano l'esperienza della collettivizzazione agraria loro imposta come il più tremendo castigo ch'è pure un tradimento, essi dicono, perchè è venuto per mano dei « fratelli » che siedono al Kremlino. Questo non dimenticano i « raskulaciènnye », e tanto fanno che delle molte migliaia di famiglie preventivate, entrano, effettivamente, nei kolchozy del Birobidzan solamente 200 famiglie nel 1934-1935 [Emes (organo ufficiale dei comunisti ebrei), 10-12 novembre 1936], 129 famiglie nel 1936, e 136 persone nel 1937!...

Qualche cenno sulle condizioni dei kolchozy affidati dall'umanesimo bolscevico agli ebrei comunisti fornirà elementi più precisi per capire i motivi di tanta irriducibile avversione. Ecco, ad esempio, come l'organo dei comunisti ebrei descrive lo stato delle fattorie ebraiche collettivizzate: « Alcuni kolchozy sono situati in località prive di terra coltivabile; altri si trovano lontanissimi dal centro, e non vi sono strade. Il bestiame è arrivato d'inverno, e non erano pronti nè le stalle nè il foraggio. La maggior parte dei kolchozniki ebrei è composta di gente che non ha mai visto la terra da vicino, e le comunità mancano di agronomi, di periti e di istruttori... ». « I kolchozy devono fornire i legumi alla città: ma non vi sono strade e non vi sono depositi per conservarli ». (Emes, 26 marzo 1938). E ancora: « Nei kolchozy ebrei le mucche e i cavalli vivono tutto l'anno all'aperto, e naturalmente muoiono. Mancano i tetti per coprire il grano, ed il raccolto si distrugge » (Emes, 27 maggio 1937). In conclusione: « I kolchozy ebraici sono organizzati in maniera così caotica che non si conosce neppure la mano d'opera di cui si dispone ». (Dichiarazione di Baron, presidente del Gosplan del Birobidzan, in Emes, 27 maggio 1937). A questo punto è necesaria una considerazione. L'esperimento del Birobidzan è poco noto. La stessa stampa sovietica, con inverosimile pudore, liquidava l'anno scorso in 34 righe complessive la celebrazione del decennale della fondazione ebrea (Pradva, 8 maggio 1938, n. 125), e perfino il conte Tolstoi dimenticava generosamente il Birobidzan nel suo recente furore antirazzista. Le fonti sovietiche sono dunque pressochè uniche sull'argomento: e questo particolare imposta il problema della loro interpretazione, che dev'essere estensiva, in quanto una pratica ventennale ci ammaestra che anche quando la stampa denuncia deficienze e brutture, il peggio resta sempre sottinteso.

Ciò premesso, non ci si può aspettare logicamente di leggere nell'Emes il caso tristamente noto delle 245 famiglie ebree venute dalla Lituania e che furono sterminate parte dal tifo e parte dalla Ghepeù, ovvero il caso di Liberbergh e Chavchin, che furono i primi dirigenti epurati nel Birobidzan, (Sots, Vest. cit.); e neppure le scissioni nel campo ebraico e le feroci repressioni, da parte dei Soviety, del sionismo : ma tutte queste sono notizie che risultano ugualmente chiare interpretando le fonti ufficiali con l'esatto criterio sovra indicato.

Nei tempi più recenti, dopo il rafforzamento — decretato nel Plenum del Partito del febbraio-marzo 1937 — della politica epurativa nell'U.R.S.S., un'ondata di terrore sommerge nuovamente gli ebrei diseredati del Birobidzan. Questo si apprende dai giornali comunisti che riportano notizie a prima vista ingenue e trascurabili. Dal resoconto d'un discorso tenuto da Dimanstein, presidente dell'Ozet (6), a pochi giorni dal Plenum di Mosca si viene, ad esempio, a sapere che « la colonizzazione degli ebrei nel Birobidzan, la scelta degli elementi, le pratiche di trasferimento saranno d'ora innanzi curate dalle autorità statali » (leggi Ghepeù), ed inoltre che « le persone inviate a lavorare nei settori di confine s'intendono gravate di particolare responsabilità » (Emes, 27 marzo 1937).

Di che genere poi fosse questa particolare responsabilità era già sufficientemente risaputo dentro e fuori il Birobidzan, e meglio di tutti era informato il tov. Chavchin, epurato di fresco all'epoca del discorso riferito. Costui, segretario del Com. prov. del P. C. della provincia autonoma ebrea sino ai primi del 1937, aveva l'anno prima tuonato contro i « nemici sionisti » dalle colonne della Pradva: « I nemici del regime sovietico — in primo luogo i sionisti — tentano di nascondere alle grandi masse di lavoratori ebrei che soffrono sotto il giogo capitalistico (sic) il fatto della creazione di un focolaio per la liberazione dei lavoratori ebrei dal giogo sociale e nazionale » (7 maggio 1936, n. 124). Ma si vede che questo non era bastato. Nonostante gli sforzi apologetici e le prove di zelo epurativo dimostrato verso i « fratelli » del Birobidzan, il tov. Chavchin, assieme a Liberbergh, finiva malamente lo stesso, in ossequio agli ordini dei « fratelli » di Mosca e conforme alla logica del terrore che s'alimenta all'infinito con l'epurazione degli epuratori a qualunque razza appartengano.

Per concludere sovra questo colossale fallimento bolscevico, che è costato la vita, secondo calcoli d'informatori stranieri (sull'argomento, v. la Relazione dell'americano Adolfo Held), al 70 per cento degli ebrei deportati nel Birobidzan, si deve aggiungere che un provvedimento ufficiale ha fatto sapere, in questi ultimi tempi, che della colonizzazione ebraica si sarebbe occupato esclusivamente un reparto speciale dell'enkavedé (sinonimo di Ghepeù). Le ultime notizie dal Birobidzan confermano indirettamente quanto esposto in queste brevi pagine: « Per il 1937 le autorità minerarie attendevano 1700 emigranti, e ne sono arrivati 124 solamente, mentre alle autorità forestali che ne attendevano 1250 si sono presentati soltanto 237 emigranti » (Emes, 15 febbraio 1938). Alle quali notizie si può aggiungere la preziosa confessione dell'attuale dirigente del Birobidzan, Streliz, che afferma categoricamente: « II piano di colonizzazione non è stato attuato. Gli ebrei fuggono dal Birobidzan, e l'esodo continua ai nostri giorni » (Emes, 8 maggio 1938).

La definizione di « cannibalismo » con la quale tempo fa il dittatore sovietico sintetizzava il suo giudizio sul razzismo degli Stati totalitari raggiunge benissimo lo scopo di rinnovare il ricordo di quella lotta implacabile e perpetua che dilania tra loro gli uomini del bolscevismo.

Nell'interesse della razza, per altissime finalità etico-sociali, i Paesi a regime totalitario restringono il campo di attività degli appartenenti alla razza ebraica e negano agli stranieri il diritto di residenza sovra il proprio suolo. Se questo può definirsi cannibalismo, come mai dovrà chiamarsi quella strage di ebrei che, senza nessuna finalità di difesa razziale, gli ebrei al potere compiono nell'U.R.S.S. in gloria di Stalin e nel loro personale interesse?

La larga percentuale di ebrei « autorevoli » fucilati nei clamorosi processi di Mosca ha fatto parlare all'estero di non si sa che specie di antisemitismo staliniano. Ipotesi grottesca cotesta (7) in quanto l'« antirazzismo » costituisce sempre la carta sulla quale il bolscevismo punta le poste più grosse per il vagheggiato fronte antifascista. Ma allora come considerare le larghe retate degli ebrei insigni sino a ieri al comando della cosa pubblica? Atti di autentico cannibalismo, convincenti esempi di antroporagia familiare: non si può dare diversa risposta ricordando gli strani procedimenti dei processi di Mosca e l'unico delitto di antistalinismo realmente accertato nei confronti degl'imputati. Le stragi dei comunisti ebrei rientrano perfettamente nella logica di quel terrore che domina tutta la vita sovietica raggiungendo ogni tanto le teste più imponenti del bolscevismo. E che non si tratti di antisemitismo lo prova il fatto che il regime, contemporaneamente ai suoi originali pogrom giudiziari, rinnova le vecchie affermazioni antirazziste arrivando a sancire, nel nuovo testo costituzionale, la punibilità di ogni propaganda di intolleranza di odio e di disprezzo di razza ovvero di nazionalità (Costituz. vig., art. 123).

I pogrom giudiziari sovietici non sono originati, come s'è detto, da motivi di razza ma di opposizione politica. Non che tutti gli ebrei siano oppositori nell'U.R.S.S.; ma neppure si può dire che siano tutti stalinisti. Se Kaganovic, Litvinov e altri minori sono ebrei al potere nell'U.R.S.S., ed alimentano continuamente le file dell'ebraismo conservatore, anche Trozki è ebreo ed alimenta le file dell'opposizione. Insomma, la sanguinosa lotta tra gli ebrei comunisti non è che un episodio logicamente innestato nel quadro di quella tempesta d'odio che nel lontano ottobre 1917 gli ebrei scatenarono per realizzare il loro sogno di distruzione. Oggi, è vero, anche gli ebrei sono travolti : ma non in quanto ebrei sibbene in forza di quegl'insegnamenti che essi stessi diedero al mondo.

L'imponenza e l'originalità assoluta dei pogrom giudiziari sovietici derivano infatti da due elementi: 1°) dalla qualità degli ebrei massacrati — quasi tutti artefici, e quindi responsabili, dell'ottobre 1917 e occupanti posti di primo piano nell'organizzazione dello Stato sovietico; 2°) dalla origine « fraterna » di tali pogrom — organizzati nell'U.R.S.S. dagli ebrei al potere contro gli ebrei caduti in disgrazia. Qualche esempio renderà ipiù chiaro l'assunto. Nell'affare giudiziario che iniziò la serie detta dei « processi di Mosca » quanti sono gli ebrei imputati? Dodici su sedici. E tutt'e 12 vengono fucilati, il 24 agosto 1936, mentre il popolo beato discute calorosamente il progetto della Costituzione più democratica del mondo (Kameniev, Zinoviev, Mrackovskii, Dreitzer, Reingold, Pikel, Goltzmann, Fritz David, Olberg, Berman-Jurin, Lurié M., Lurié N.).

Nel secondo processo sensazionale, terminato il 3 gennaio 1937, quanti sono ancora gli ebrei condannati a morte dall'ebreo Ulrich, presidente del Collegio militare del Tribunale Supremo dell'U.R.S.S., e dal suo sostituto Matulevic, nel momento stesso in cui la stampa sovietica altamente commisera la sorte dei poveri ebrei tedeschi? Cinque (Drobnis, Liscivitz, Bagoslavskii, Rataiciak, Norkin), mentre altri tre (Sokolnikov- Brilliant, Radek e Arnold) vengono condannati a pene varianti tra i dieci e gli otto anni di reclusione.

Nel processo successivo, svoltosi a porte chiuse, contro i « cospiratori militari » (12 agosto 1937) sono condannati a morte altri due « autorevoli » ebrei: Feldmann e Jakir, che avevano raggiunto nell'armata rossa posti di grande importanza. Ed il 13 marzo 1938, nell'affare del blocco trozkista di destra, quanti ebrei ancora vengono fucilati? Nove su diciotto. Nove ebrei che avevano avuto nelle loro mani la vita di tutti i popoli dell'Unione (Jagoda, Krestinskii, Rakovskii, Rozengoltz, Cernov, Ikramov, Sciarangovic, Levin, Maximov-Dikovskii), e che trovavano, d'un tratto, la più ingloriosa delle morti per mano degli stessi due ormai famosi ebrei-epuratori, Ulrich e Matulevic, presidente il primo e vice-presidente il secondo del Collegio giudicante di Mosca.

Naturalmente l'esame è qui limitato, per necessità di cose, ai decessi ufficiali e clamorosi, non essendo umanamente possibile distinguere per origine razziale il giornaliero vorticoso movimento delle destituzioni, delle fucilazioni e delle scomparse più o meno silenziose e definitive che danno sapore inconfondibile alla democrazia stalinista modello 1936. Ma anche a considerare soltanto le persone citate, con le larghe clientele costituite e distrutte, e le cariche che esse ricoprivano, e la fine che hanno fatta, c'è di che sorridere ripensando alla speculazione antifascista dei singoli trascurabili casi tipo Freud: quale altro regime, fatto di elementi ariani, ha mai solamente pensato ad una epurazione così metodica e sanguinosa di ebrei come quella effettuata, per ragioni particolaristiche, dalla dittatura del proletariato, ossia da un regime costituito in maggioranza da elementi ebraici?

L'orrore del sangue drammaticamente evocato lo scorso novembre da Alessandro Tolstoi, in questi giorni eletto all'Accademia dell'U.R.S.S., non ha mosso, com'era nei voti sovietici, il mondo borghese del vecchio e del nuovo continente alla sperata guerra preventiva contro gli Stati totalitari. La speculazione bolscevica sul sangue ebreo, nata da una opinione esageratamente pessimista delle capacita mnemoniche dei contemporanei, non raggiungeva in realtà che un effetto diametralmente opposto a quello desiderato, l'effetto cioè di stimolare il ricordo degli uomini di buona volontà: che, infatti, dagli stessi commoventi appelli sovietici alla pietà venivano tratti a domandarsi da quale pulpito santo venisse tanta serafica predica. Il solo rischio del ricordo avrebbe dovuto indurre il bolscevismo ad una maggiore prudenza di linguaggio: ma l'improntitudine umana non sembra avere limiti di sorta, e forse si confidava, nella Russia bolscevica, in un rosso incantesimo che cancellasse dal ricordo degli uomini non soltanto i massacri compiuti nell'U.R.S.S. dagli ebrei compagni di Lenin ma l'orrore del sangue ariano fatto versare in tutto il mondo dagli ebrei bolscevichi. L'incantesimo rosso avrebbe fatto, ad esempio, eroiche le gesta dell'ebreo Kohn, detto Bela Kun, che nei suoi 133 giorni di regime sovietico in Ungheria massacrò più cristiani di quanti ebrei potessero capitare in cento nutriti pogrom (massacri di Dunapatai, Koloska, Szolnak, ecc.); che fu, col suo luogotenente Szamuely, l'organizzatore geniale di quei « treni della morte » muniti di mitragliatrici con le quali si falciavano i contadini appositamente schierati ungo la linea ferroviaria; e che in Crimea, in nome della Repubblica sovietica, macellò oltre cinquantamila persone, scelte a preferenza tra le donne degli ufficiali russi sotterrati vivi. L'incantesimo rosso avrebbe, inoltre, tramutato in pie adunate i massacri traverso i quali il 7 aprile 1919 gli ebrei Kurt Eisner, Landauer, Toller, Minksam ed i famosi fratelli Levin costituivano la Baviera in Repubblica sovietica. E sempre lo stesso incantesimo avrebbe ancora vaporizzato il sangue fatto versare dagli ebrei nella Georgia invasa l'11 febbraio 1921 dopo l'indipendenza accordatale nel 1920, e avrebbe mutato in atti di pietà cristiana i colpi di cannone coi quali Koroscenko nel 1930 distruggeva centinaia di villaggi ukraini e decine di migliaia di contadini inermi ed incolpevoli. L'incantesimo rosso però non ha funzionato. La realtà di Monaco — preludio, con la vittoria del Fascismo in Ispagna, alla nuova Europa di Mussolini — ha fatto acuto il ricordo degli uomini. Se una sinagoga ha bruciato in Germania ed un rabbino è stato espulso dal tempio, quante cattedrali hanno distrutto gli ebrei in Russia, in Ispagna e nel Messico, e quante centinaia di migliaia di religiosi hanno essi ucciso in questi stessi paesi? Milioni di cittadini nell'U.R.S.S., centinaia di migliaia di religiosi in Ispagna e nel Messico, molti milioni complessivamente di uomini in tutto il mondo, ecco il tragico bilancio degli ebrei bolscevichi, di quelli cioè che oggi gridano allo scandalo ed all'orrore del sangue per poche migliaia di ebrei invitati a lasciare una terra ch'essi non hanno mai considerato come propria.

Tutto questo si conosce, e si conoscono pure le cifre esatte, purtroppo sempre in aumento. Ma c'è un atto ufficiale del potere sovietico che va oggi ricordato ai pietisti di tutti i paesi: la Relazione del Commissariato del popolo alla Giustizia presentata nel 1920 all'VIII Congresso dei Soviety. Questo incomparabile documento di cinismo e di barbarie presenta il conto all'ebraismo internazionale, con la più grande naturalezza, degli assassinii compiuti nel campo religioso. Ecco con quanto candore si annota quello che la Rivoluzione, in due anni soltanto, ha distrutto: « Sino ad oggi su tutto il territorio della Russia sovietica abbiamo « liquidato » (ossia: distrutti gli edifici e suppliziati i religiosi) 673 conventi. Ai religiosi abbiamo tolto — tra denaro contante, conti correnti in banca, e carte valori — 4.247.667.520 di rubli. Abbiamo « nazionalizzato » gli istituti religiosi e i terreni di loro proprietà... » (Biezboznik, Il senza Dio, n. io, 1937). In quest'epoca, sia detto per inciso, nei Commissariati sovietici c'era la seguente percentuale di ebrei: 18 su 19 alla Giustizia; 26 su 30 alle Finanze; 41 su 42 alla Stampa; 13 su 17 agli Affari Esteri, 45 su 64 all'Interno (Cekà), ecc., e Trozki e Sverdlov, massacratori per antonomasia, erano i più prossimi collaboratori del grande ebreo onorario Vladimir Ulianov Lenin.

Altri di me più esperti in calcoli e quozienti potranno un giorno, sui documenti che si vanno raccogliendo (Cfr. la collezione preziosa delle « Lettres de Rome » dell'illustre P. J. Joseph Ledit), fare if conto esatto del sangue ariano che gli ebrei bolscevichi — si siano chiamati Trozki o Jaroslavskii-Gubelman, Kamenev o Ulrich, Bela Kun o Levin, Meklis o Ljusckov — hanno fatto versare in tutto il mondo. L'orgia del sangue alla quale da ventun anni si sono abbandonati nell'U.R.S.S. e fuori gli ebrei fattisi bolscevichi non ha confronti nella storia. Questo soltanto si voleva oggi ricordare, in presenza dell'incredibile speculazione sovietica del pietismo ebraico: « pietismo » di cui, in definitiva, l'atteggiamento negativo dell'U.R.S.S. verso i profughi ebrei svela l'intima insincerità, e di cui il caso Grynzpan denuncia chiaramente i nefasti risultati.

La novissima metamorfosi del bolscevismo in giro per il mondo paludato d'umanesimo e di ebraica commozione non può dirsi, in coscienza, neppure originale, stranamente ricordando, l'attuale travestimento, l'altro del 1936 che vide la Croce di Cristo in ibrido connubio con la falce ed il martello.

Con la maschera del pietismo ebraico il bolscevismo ripete oggi con le « grandi democrazie » il gioco tentato nel 1936 coi cattolici di tutto il mondo : far folla contro il Fascismo. Ma, oggi come ieri, il risultato è quello stesso di tutte le battaglie troppo orgogliosamente impegnate dal bolscevismo contro il Fascismo mondiale. Anche questa volta il gioco si rivela puerile. Nei comizi di Mosca, di Leningrado, di Kiev, di Tiflis e di altre centinaia di località è evidente la manovra politica: si parte dalla pietà per gli ebrei — ch'è il pretesto del momento — e si arriva alla conclusione che « il Fascismo e pieno d'ipocrisia e il bolscevismo il regno della sincerità » e che, per conseguenza, « il bolscevismo deve trionfare dappertutto e il Fascismo deve rapidamente scomparire » (Pravda, 21 novembre 1938). Si definiscono così le posizioni: ipocrita il Fascismo, che con leggi dello Stato òpera nel proprio sovrano interesse una netta distinzione tra elementi ebraici ed ariani; sincero il bolscevismo, che commisera gli ebrei ed è prodigo di consigli e di incitamenti alla più accanita resistenza.

Se davvero oggi usa dappertutto cambiar nome alle cose, e chiamar bianco quello che senza equivoci possibili è nero, allora converrà per forza trovare un'altra parola, diversa dalla solita « ipocrisia », per definire il comportamento dell'U.R.S.S., bellicoso a parole, riservatissimo a fatti nei confronti degli ebrei. Dopo aver gabellato per antirazzismo vent'anni di politica fatta da ebrei in lite tra di loro, la « grande patria del socialismo » veniva lo scorso novembre a trovarsi dinnanzi al seguente dilemma: o fare il « grande gesto » nel quale credevano coloro che avevano preso per buona l'ultima metamorfosi marxista del bolscevismo, ossia aprire le frontiere ed accogliere nel proprio capace seno, in odio agli Stati totalitari, tutti o almeno in parte i profughi ebrei; oppure starsene quieta, e far capire al mondo che in certi casi quando s è protestato s'è già fatto abbastanza.

Non è un mistero per nessuno che l'U.R.S.S. abbia, senza la minima esitazione, scelto la seconda via. Ma non è un mistero neppure il fatto che questa risoluzione abbia suscitato persino negli ambienti più favorevoli a Mosca un senso di smarrimento, di delusione, di non celata irritazione. Quale magnifica occasione mancava l'U.R.S.S. per mostrare al mondo, con poca spesa e pochissima fatica, ch'essa non è la patria del « bluff » sibbene del socialismo, ossia la patria dei senza tetto di tutto il mondo!... Perchè, a pensarci bene, l'U.R.S.S. aveva tutto l'interesse a riceversi i profughi ebrei: oltre alla bella figura, essa avrebbe sopperito alla deficienza della mano d'opera in rapporto alla enorme estensione del terreno; avrebbe alimentato i quadri tecnici, com'è noto ridotti a simboli dopo il quinquennio epurativo post-kiroviano; avrebbe iniziato lo sfruttamento di ricchezze naturali ancora inesplorate. D'altra parte nessun danno, neppure pericolo di danno, sarebbe derivato al regime sovietico dalla concorrenza di mano d'opera straniera, perchè di mano d'opera, stando a quel che si dice, c'è sempre richiesta nell'U.R.S.S.; non la questione di classe, perchè l'appartenenza alla classe operaia dei profughi disposti ad andare nell'U.R.S.S. è un presupposto di intuitiva evidenza. Ed allora? Perchè mai dopo l'ondata comiziale proebrei del novembre 1938 la patria del socialismo ha provveduto d'urgenza a rafforzare il ferro spinato attorno alle sue frontiere?

Questo atteggiamento negativo, incomprensibile da principio, si trova, in fin dei conti, eh 'è logico e coerente alla politica di relegazione adottata verso gli ebrei del Birobidzan. Se gli ebrei al potere nell'U.R.S.S. praticano il loro inconfessabile razzismo di classe spedendo gli ebrei « russi » poveri in Estremo Oriente, non si vede perchè mai dovrebbero invece accogliere gli ebrei stranieri: i quali, una volta assegnati nella nuova « zona di residenza » di tipo bolscevico, strillerebbero ai quattro venti, meglio di quanto non possano fare oggi gli ebrei russi, allo scandalo del razzismo sovietico.

Concludendo, mentre il Fascismo « ipocrita » discrimina con romana giustizia, e il « feroce » mondo capitalistico indice conferenze (sia pure inconcludenti) per risolvere la questione ebraica, i consoli sovietici nei paesi capitalistici in base a categoriche istruzioni del Commissariato per gli Esteri rispondono con netti rifiuti alla proposta di far entrare sia pure un solo ebreo nell'U.R.S.S. (Sotsialisticeskii Vestnik, Il Messaggero socialista, dicembre 1938), e le autorità sovietiche di frontiera rinviano al mittente con fermissimo zelo ed evidente ingratitudine tutti quei comunisti ebrei che nel paese di origine avevano lavorato, in un modo o nell'altro, contro l'ordine costituito, in gloria del bolscevismo! L'atteggiamento negativo tenuto dall'U.R.S.S. nei confronti dei profughi ebrei si presta ad un'ultima considerazione sulla effettiva portata della più democratica dichiarazione della Costituzione vigente: il diritto d'asilo concesso a tutti gli stranieri « perseguitati » (articolo 129). Se nei caldi comizi panunionisti, e nei roventi scritti contro la politica razzista degli Stati totalitari, i poveri ebrei sono rappresentati come autentiche pecore scannate, diventa naturale la domanda che cos'altro ci voglia ancora per divenire « perseguitati » a norma della legge sovietica, con conseguente diritto di libero ingresso nell'U.R.S.S. (8).


(1) Mi riferisco all'assassinio del segretario dell'Ambasciata germanica a Parigi, E. Von Rath, compiuto il 7 novembre scorso dall'ebreo Herschell Feìbel Grynzpan.

(2) Cfr. l'Ordinanza del 20 dicembre 1938 sulla « istituzione del libretto di lavoro » (che sottopone gli operai sovietici ad una rigorosa vigilanza) e l'altra, di più vasta portata, del 28 dicembre 1938, sul rafforzamento della disciplina del lavoro, che commina il licenziamento in confronto dei lavoratori per ritardi ed assenze sul lavoro, riduce i congedi di gravidanza, inasprisce le punizioni disciplinari, ecc.

(3) In quest'epoca, ed anche negli anni successivi, tutti i Commissariati del popolo hanno una percentuale di dirigenti e di funzionari ebrei dell'80 per cento in confronto delle altre razze. Risparmiati dal terrore rosso, profittando della assoluta deficienza dei quadri sovietici, gli ebrei riuscivano nel primo decennio della Rivoluzione ad accaparrarsi i più importanti posti di comando nel nuovo Stato proletario. Cfr. nello stesso senso, l'ottimo artìcolo di Sommi Picenardi, « Gli ebrei beniamini del Kremlino », in Vita Italiana, febbraio 1939.

(4) Non si dimentichi, tra gli innumerevoli casi, quello dell'ebreo Kaganovic, cognato di Stalin, che è generalmente ritenuto il futuro dittatore dell'U.R.S.S. Attualmente Lazar Moissevich Kaganovic, nonostante i poco felici risultati della sua amministrazione, è l'uomo che riunisce nelle sue mani più cariche di qualsiasi altra personalità sovietica.

(5) Dalla pubblicazione in lingua ebraica « Gli ebrei e l'U.R.S.S. », edita a Mosca. Cfr. Sotsialisticeskii Vestnik, II Messaggero socialista, Parigi, n. 12, 1938.

(6) Ozet, Società per l'ordinamento agricolo dei lavoratori ebrei. L'ultimo numero del Sotsialisticeskii Vestnik, in data 15 marzo 1939, dà notizia dell'arresto di Dimanstein, Commissario per gli affari ebraici, e della soppressione dei giornali comunisti ebrei Emes, di Mosca, e Ottobre, di Minsk.

(7) Bisogna ricordare che la vecchia guardia di Lenin, passata all'opposizione e distrutta in questi ultimi anni da Stalin, era in massima parte costituita da elementi ebraici. A questo proposito è probatoria la testimonianza del noto rivoluzionario Burzev, il quale pubblicò l'elenco dei « traditori », ossia degli ebrei socialdemocratici passati alla frazione bolscevica. Infatti, secondo il Burzev, nel vagone piombato che trasportò Lenin in Russia, nel 1917, si trovavano 28 persone: 4 russi, 2 georgiani, 1 lettone e 21 ebrei. Poco dopo arrivarono in Russia altri 65 membri del Partito operaio socialdemocratico russo: 45 di essi erano ebrei, e tutti passarono nel Comitato Esecutivo del Soviet dei deputati degli operai e dei contadini, ossia entrarono a far parte del governo bolscevico.

(8) La notizia della « liquidazione » di Litvinov, pervenuta quando l'articolo era già in tipografia, ha dato luogo, soprattutto nella stampa internazionale, a molte congetture e induzioni. Per tenerci all'argomento ci limiteremo a ricordare che Litvinov, Commissario del Popolo degli Esteri, fu colui che portò l'U.R.S.S. alla S.D.N. e, in nome della sicurezza collettiva e della pace indivisibile, predicò nel sinedrio ginevrino la necessità delle sanzioni contro l'Italia all'epoca della conquisti dell'Impero. Con Litvinov scompare dalla scena politica sovietica l'ultimo dei più « autorevoli » ebrei della vecchia guardia di Lenin.