(Pubblicato in « Nuova Antologia », febbraio 1939)
di Giovanni Papini
È impresa temeraria voler giudicare un uomo famoso praesente cadavere e specie quando si tratti di un Viceré di Cristo. In sei secoli siamo passati, in Italia, dalle invettive atroci di Dante a un'apoteosi sistematica che troppo sovente s'ispira alle tradizioni dell 'epigrafia cimiteriale. A un poeta come Dante si può perdonar tutto, anche l'ingiustizia; ai figliuoli devoti che si vedon portar via il padre molto si può perdonare, anche l'indiscriminante apologetica. Ma l'antica saggezza italiana, in questi casi, consiglia piuttosto l'umiltà del tentar di comprendere che la superbia del voler giudicare. E di questa giudiziosa e onesta discrezione più volte dette l'esempio Don Achille Ratti, Dottore dell'Ambrosiana e Prefetto della Vaticana, attento lettore di testi e di anime, e ne fornì assai prove Colui che governò la Chiesa Romana dal febbraio del 1922 al febbraio del 1939. Ripensiamo, un istante, alle sue origini, alla sua formazione intellettuale nel tempo. Era nostro contemporaneo, e tutt'altro che imbalsamato di nostalgie, ma era pur figlio spirituale di quella seconda metà dell'Ottocento già troppo lontana perché a tutti sia familiare e ancor troppo vicina perché possa apparire nella ferma luce della storia. Achille Ratti nacque suddito di Francesco Giuseppe Imperatore di Austria e visse abbastanza per assistere alla doppia fine dell Austria; a quella dinastica e militare del 1918, e a quella politica e statale del 1938. Giovanissimo entrò a far parte di quel clero lombardo, molto e bene operante, dov'è più facile, anche oggi, imbattersi in un Cardinal Federico che in un Don Abbondio. E rimase sempre, nel senso ottimo della parola, un sacerdote lombardo, o addirittura un lombardo, cioè di spirito aperto e tenace, amantissimo della piccola e della grande patria, più inclinato alla pratica e al ragionare che alla fantasia, affezionato all'idea della famiglia e alla famiglia propria, coraggioso quand'è necessario e prudentissimo in tutto il resto, modesto senza fare della modestia un alibi della pigrizia e del timore di responsabilità, cordiale nel tratto ma fermissimo nelle opinioni, fedele agli ideali e alle amicizie.
Gioveranno, per intender meglio certi atteggiamenti della sua vecchiezza, alcune date della sua gioventù, non registrate dai biografi. Aveva 14 anni quando l'Europa rabbrividì nell'udire gli orrori della Comune di Parigi (1871); ne aveva 16 quando morì Alessandro Manzoni, lo scrittore a lui sempre prediletto (1873); ne aveva 18 quando uscì la prima edizione del Bel Paese dello Stoppani (1875) che tanto contribuì a diffondere anche nel clero l'amor delle scienze e delle ascensioni; ne aveva 21 quando morì Pio IX, il Papa del Primato e del Sillabo, e il primo Re d'Italia (1878); ne aveva 30 quando l'abate Tosti pubblicò il suo famoso opuscolo sulla Conciliazione (1887), e mentre in Germania- già da tempo Bismarck, dopo i furori del Kulturkampf, era ormai giunto all'ultima porta di Canossa; ne aveva 34 quando Leone XIII pubblicò la Rerum Novarum (1891) e 41 quando si recò, insieme ad alcuni ottimati milanesi, presso il generale Bava Beccaris per protestare contro gli eccessi della repressione dei moti del maggio 1898. Cresciuto nel clima della sua Lombardia cattolica e patriottica, in quella calda fine del Risorgimento, sempre gli rimasero nell'animo i sentimenti che quelle date risvegliano: l'amore per la grandezza e la dignità della Chiesa, il profondissimo affetto per l'Italia unita e per la sua gloria; l'ardente desiderio di veder riconciliata nei cuori degli Italiani la patria degli eroi e la « madre dei Santi » ; l'avversione per le violenze e per le dottrine distruggitrici; il gusto per gli spettacoli della natura, per le scienze e per ogni utile studio. Per trent'anni di seguito, dal 1888 al 1918, Don Achille Ratti ha vissuto tra i libri e per i libri, in mezzo a scansie e a schede, nella famosa Ambrosiana e nella celeberrima Vaticana, e molti, quando fu eletto, dissero che la Chiesa, in quegli anni climaterici del dopo guerra, non sentiva il bisogno di un paleografo ma di un Papa che avesse avuto il braccio di San Giorgio e la testa di Gregorio VII. Sbagliavano. Pio XI ha dimostrato falsa la dicerìa che non è atto a governare gli uomini chi ha passato gran parte della vita in libreria. Parve, anzi, che tutto quel periodo di silenzioso ritiramento l'avesse meglio preparato a parlare e ad agire, come una sorgente nascosta che a poco a poco riempie tacitamente una caverna e alla fine, quando si rompe l'ultima diga, precipita giù per le valli coll'abbondanza e la potenza di un torrente perenne. Bisogna avvertire, a questo proposito che il Ratti era, sì, un esperto filologo ma non filologo specialista per passione e professione. Non si volse, come fanno di solito costoro, a una determinata provincia delle storie e delle letterature per dissodarla o rinnovarla e farla propria ma portò elementi e documenti nuovi su temi che vanno dalle origini della Chiesa milanese fino a Galileo e a Volta, secondo le necessità e le occasioni del suo ufficio. Fu, insomma, più che storico vero e proprio, operoso bibliotecario e libero umanista. Ma non fu poi quel che volgarmente e un po' maliziosamente sì chiama « Papa umanista ». Arrivato a Roma nel 1922, fu Papa vero, e null'altro che Papa, cioè guida spirituale degli uomini e capo di governo. E rinunziò con dolore ma con fermezza alla dolce consuetudine delle dotte letture. Risento ancora l'accento accorato della sua voce, in una mattina d'aprile del 1932, quando diceva a me, mostrandomi certi volumoni vecchi sulla tavola vasta, che il più grande sacrifizio che aveva dovuto fare, diventando Papa, era stato quello di rinunciare agli studi. « Anche la sera », aggiungeva, « quando ci ritiriamo in camera nostra e potremmo un po' studiare siamo costretti a portar dietro relazioni e carte che non s'è potuto vedere durante il giorno e leggere sì, ma non proprio quelle cose antiche e belle che vorremmo leggere ». E intesi meglio, in quel momento, gli effetti trasfiguranti e sublimanti della Cattedra di Pietro. Uomini comuni — e che potevan magari sembrar mediocri — innalzati a quella Cattedra! divennero e furono grandi Pontefici. Il triregno non è soltanto un simbolo ma, si direbbe, un veicolo carismatico. Roma ha sempre avuto poteri grandificanti; il Papato ha virtù transumananti. Anche Achille Ratti non l'avremmo conosciuto, e ad ogni modo avremmo ignorato la sua statura, se non fosse stata la sua elezione. Il Papato l'ha scoperto e l'ha collocato nella storia. Com'è morto ancor pieno di volontà di vivere, così diventò Papa ancor prete: niente carriere regolate e calcolate, lentezze sapienti e mire pazienti. Da pochi mesi soltanto era Cardinale e Arcivescovo; fino al 1918, cioè a sessant'anni suonati, non era uscito, si può dire, dalle venerande grotte dove cartapecore e carte bambagine conservano nella polvere la vita dei morti. Dalla tradizione milanese (la Chiesa Ambrosiana è la maggiore, in Italia, dopo Roma) era venuto alla tradizione romana e la sentì nella sua antica e compiuta maestà. Smise, per forza, di far lo storico, ma sentì la storia nel suo intimo e la faceva sentire al suo cospetto. Non più la storia delle carte ma la storia vivente e presente, la storia che anche oggi, vogliano o non vogliano gli stranieri, si fa in gran parte a Roma. Questo figliolo di un umile filandiere lombardo, cresciuto tra libri di scuola e scuole di teologia e di filologia, seppe e volle essere, giunto al soglio di San Pietro, veramente romano, cioè italiano. Il suo primo atto, non appena Papa, fu quello di uscir sulla loggia esterna della Basilica, per benedire, sotto la luce del sole, il popolo di Roma e con esso tutta l'Italia e tutto il mondo. E l'ultimo atto fu quello di raccomandarsi al medico perchè lo tenesse in vita ancora due giorni, due giorni soli, perchè gli rosse dato di poter parlare, ai vescovi d Italia, di quel grande avvenimento che fu la conciliazione coll'Italia. Voleva morire in piedi, come San Benedetto, in mezzo ai vescovi della sua Italia, come primate d'Italia.
II.
Colui che meglio d'altri poteva e seppe comprenderlo, per certe affinità di natura e d'intenzioni, l'ha chiamato il Papa della Conciliazione, e con tal nome Pio XI passerà giustamente alla storia. Ma se la conciliazione tra la Chiesa Romana e lo Stato Italiano fu il suo maggior trionfo e rimane il più notevole evento del suo pontificato, dal punto di vista storico, è anche vero che egli vagheggiò e perseguì tutte quante le conciliazioni che posson preparare quella unità del genere umano ch'è principal fine d'una Chiesa che si chiama e vuol essere universale. La prima sua Enciclica (Ubi arcano Dei) si proponeva la conciliazione tra le Chiese cristiane, e a questa intenzione volle dedicate le preghiere del primo Anno Santo del suo pontificato (1925). E sempre, in ogni parola ed atto dei suoi diciassett'anni di regno, ebbe fisso il pensiero ad altre conciliazioni: della scienza e della fede, della tradizione sacra e della novità necessaria, delle classi sociali e di tutte le nazioni tra loro, e soprattutto quella, prima ed essenziale, degli uomini con Dio. Ma non si deve credere che un tale amore per le conciliazioni e le riconciliazioni nascesse, come talora avviene, da mentale accidia e viltà o dall'ignobile bramosia del quieto vivere. Papa Ratti voleva la pace ma non la pace a tutti i costi, anche a costo di tollerare l'errore e il male. Voleva la conciliazione di tutti e in tutto ma nella verità divina e per il bene degli uomini. Voleva la pace perchè, giunto a quella cattedra nei primi anni del dopo guerra, in una Europa ancora abbuiata e uraganosa, Egli sentiva il dovere, Vicario com'era di un Dio ch'è Amore, di piegare dall'opposta parte l'albero dell'umanità che l'aquilone aveva curvato e distorto verso il polo della ferocità e della discordia. Voleva la conciliazione, anche perchè sapeva che l'unità non è annegamento o annebbiamento e che la pace non è torpore mortale. Bisogna conseguire certe paci per meglio prepararsi ad altre maggiori guerre, che sole importano: guerra contro la barbarie, guerra contro il peccato, guerra contro i nemici di Dio. Pio XI non fu davvero animo flaccido e timido, di quelli che nella pace cercano una vigliacca assicurazione contro fastidi e pericoli. Non aveva forse molto cuore, nel senso romantico della parola, ma sì gran petto e coraggio. Aveva orrore di quell'inconfessato ma palese anelito all'irresponsabilità ch'è proprio di tutte le grandi amministrazioni e, dicono, anche della Curia. Egli si comprometteva sempre e subito, pronto a pagar di persona. Non ebbe consiglieri ma soltanto amici. Sentì l'aria di Roma e si mutò d'un tratto in Pontefice ma non si lasciò far prigioniero di nessuno, e neppure del grave ammanto. Libero di mosse, personale d'impulso, gli piaceva studiar da sé e decider da sé e quando aveva deciso non tornava più indietro. La conciliazione collo Stato Italiano fu il suo capolavoro appunto perchè fu accettata e voluta da Lui, all'infuori di ogni vicina pressione o avversione, e perchè nel suo animo faceva convergere la sua passione di grande italiano e di benveggente pastore. Cresciuto in quella Lombardia dell'Ottocento inoltrato, dove i preti eran patriotti e i liberali credenti più che altrove, in quella Milano patrizia e dotta dell'ultimo ventennio del secolo, tra la redazione della Perseveranza e il crocchio della libreria Hoepli nella vecchia Galleria de Cristoforis, il Ratti aveva certo desiderato fin da giovane che si risolvesse una buona volta quella che storici e periodisti chiamavano gravemente la « questione romana ». Il dissidio che, subito dopo il '70, parve a molti frettolosi incolmabile, cominciava a poco a poco, agli occhi delle nuove generazioni, a sembrare irragionevole e perciò sanabile. Forse il maggior segreto conforto del Cardinal Ratti quando gli fu imposta la tiara fu il pensiero che avrebbe potuto, vecchio ma Papa, far diventare verità il sogno del pretino di Desio e del giovane dottore dell'Ambrosiana. « Restituire l'Italia a Dio », com'egli stesso ebbe a dire : qual maggiore offerta avrebbe potuto fare l'operaio di Cristo al suo divino Padrone? Il dissidio era un male per l'Italia perchè vulnerava o per lo meno incrinava l'unità morale dei suoi cittadini, ma era anche un danno, e grave, per la Chiesa. E il Papa manzoniano rifece l'unione che s'era spezzata col Papa giobertiano. Non gli sarebbe riuscita la grande impresa, se in quell'altra sponda avesse trovato un dei soliti travicelli delle plebi parlamentari gazzettiere e settarie che, specialmente dal 1876 in poi, facevan le viste d essere ministri del Re e governanti d'Italia. Da Palazzo Giustiniani, da Palazzo Farnese e dai Portici di Piazza del Duomo a Milano — per non aggiunger altro — sarebbero venuti comandi, contrordini, ostacoli e veti. Ma in quello stesso 1922 che aveva visto scender da Milano l'arcivescovo Ratti per diventare il 2580 Pontefice di Santa Romana Chiesa, era sceso, nell'ottobre, e anche lui da Milano, il direttore del Popolo d 'Italia e non per diventare presidente d'un Ministero ma capo effettivo e legale del popolo italiano e del governo italiano. Questi due grandi italiani — così distanti nell'età e nel passato, così diversi nel curriculum intellettuale e nelle apparenze, così vicini per alcuni tratti dell'indole portata all'amore dell'unità, dell'autorità, della patria — eran degni d'essere avversari ma più degni ancora di collaborare insieme, com'è avvenuto. Mussolini che aveva portato al Re l'Italia di Vittorio Veneto, portava ora al Papa l'Italia dei comuni guelfi, che combatterono coi Papi contro gl'invasori e contro gl'infedeli, gli portava l'Italia di Dante, del Manzoni e del Gioberti, l'Italia che non voleva preti al governo ma desiderava Cristo in ogni casa e in ogni cuore. Il Papa, a sua volta, rifaceva la pace con quella che Dio stesso designò sede della Chiesa, coll'Italia carissima al suo cuore di schietto italiano come fu cara la Galilea a Gesù, e di più restituiva alla Chiesa quel minimo di territorio che giustifica il massimo della sovranità e dell'indipendenza. Le due Rome — la Roma di Augusto e la Roma di Gregorio Magno — per tanti secoli separate, e solo da sessant'anni materialmente riunite, poterono così ricongiungersi, grazie all'uomo « inviato dalla Provvidenza » e all'uomo prescelto dallo Spirito Santo. E va notato, a questo proposito, che Pio XI ha condannato, durante il suo regno, il comunismo russo, il neo-paganesimo nordico e il nazionalismo integrale francese ma non ha mai condannato il Fascismo. Anche nell'Enciclica del 29 giugno 1931 (Non abbiamo bisogno) scritta in momenti che fecero sperare ai nemici dell'una e dell'altra Roma un ritorno all'antica ostilità, il Papa proclamò ben chiaro che non intendeva affatto condannare il Partito e il Regime ma soltanto difendere lo spirito del Concordato e i diritti in esso riconosciuti all'Azione Cattolica. E volentieri venne rafforzando coll'autorità della sua parola — basterebbe ricordare l'Enciclica Casti Connubi — l'opera del Regime per ridare ordine alla famiglia, giustizia agli operai, decenza ai costumi, unità agli spiriti. Ma per quanto si sentisse ostinatamente italiano anche dopo la sua elevazione al principato universale delle anime e abbia pensato sempre, fino all'ultima sera della sua fatica, all'Italia, questo Papa, che regnò in quel drammatico tempo della crisi europea che va dalla Marcia su Roma alla liberazione di Barcellona, ha operato, more romano, per tutti i popoli della terra. Moltissimo ha fatto per le missioni, nelle quali ha dato nuovi compiti e responsabilità al clero indigeno; moltissimo per gli studi ecclesiastici che ha voluto rinnovare con quella sicurezza che gli veniva dalla lunga esperienza e dalla varia dottrina: da giovane voleva esser naturalista o matematico, e fu teologo tomista prima di essere storico della Chiesa e della letteratura e familiare catechista e oratore alla manzoniana. E moltissimo fece anche per gli alti studi e per gli uomini d'ingegno: protesse l'Università Cattolica di Milano, fondò la Pontificia Accademia delle Scienze, restaurò ed arricchì, con munificenza che rammenta i Papi del Rinascimento, la Biblioteca Apostolica Vaticana. Meno felici furono, sotto il suo regno, le arti chè purtroppo i nuovi edifici della Città del Vaticano non sono, se non per le dimensioni, degni di quelli dei passati secoli. E se nelle scienze, amore della sua gioventu e del suo secolo, si spinse fino a Marconi e oltre, nella letteratura si fermò, da bravo milanese più ragionativo che fantastico, al Manzoni. Ma nessun cuore di madre e di sposa, nessun lettore dell'Evangelo, nessun concittadino di San Francesco e di San Bernardino, potrà dimenticare quel che il vecchio Pontefice, fino all'ultimo soffio di voce e all'ultimo moto del cuore, fece per la pace del mondo. Chi l'udì in quella trepida sera del 29 settembre 1938, non potrà scordare quelle affannose e tremule parole, inframezzate da rotti sospiri e da repressi singulti, che tentarono d'interporre l'ombra luminosa d'Iddio perche fosse allontanato il diluvio di fuoco e di sangue. E sentì, l'eroico Papa romano, che le parole non bastavano; che qualcosa di più prezioso doveva essere offerto al Dio degli eserciti e al Dio del Calvario. E il vecchio Pontefice inerme offrì la sua vita di affaticato ed afflitto operaio. La guerra fu evitata anche per merito e mezzo dell'uomo « inviato dalla Provvidenza » ma l'offerta dell'annoso implorante fu accettata. Pochi mesi dopo, alla vigilia d'una gloriosa consolazione, Dio chiamò a sè il servitore sazio di giorni che aveva ben meritato il premio dell'eterna luce.