Thursday, 8 March 2012

Donne e culle

(Pubblicato in « Critica Fascista », 15 marzo 1930)

di Manlio Pompei

Trattando del problema demografico, in altra sede abbiamo già prospettata una soluzione paradossale, che se è inattuabile per l'aggettivazione stessa con cui l'abbiamo accompagnata, fissa i termini esatti della questione che non debbono essere mai perduti di vista. Abbiamo definito questo male, che rende sempre più rare le culle col nome di civiltà: eccesso di civiltà, indigestione di civiltà, dinamismo, meccanicismo, edonismo folle e sfrenato: e abbiamo auspicato un risoluto e coraggioso salto indietro, verso la barbarie, verso la nostra perduta umanità primitiva, semplice, lineare, tanto più morale di questa nostra era ossessionata dal mito del progresso, della corsa al più veloce, al più raffinato, al più civile. Parole al vento, paradosso inaccettabile: che indietro, anche se il passato sia più bello del presente, non si ritorna mai. E allora giova contentarci di soluzioni parziali, di rimedi localizzati a questo o a quell'aspetto del problema: allo scopo non di sradicare il male, ma di fermarne i progressi e di ridurne gli effetti. Nell'esame di questi fattori parziali della denatalità, uno degli elementi che giova anzitutto esaminare è l'elemento donna: la grande protagonista e l'essenziale protagonista del sublime fatto della procreazione: colei che più paga in sofferenze, in fatiche, in dedizione assoluta alle supreme necessità della perpetuazione della razza.

Esistono nella donna moderna caratteri nuovi che le impediscano di svolgere a pieno la sua missione materna?

Esistono e sono molti: positivi e negativi: virtù perdute e bisogni nuovi acquisiti: sensibilità attutite, e sviamenti dolorosi seppur talora necessarif elementi che attentamente considerati varranno a persuaderci come l'altra metà del genere umano abbia — né sembri poco cavalleresco questo nostro scarico di responsabilità — non poca influenza sulla rarefazione delle culle.

In primo luogo è sparito il tipo di donna religiosa, veramente e profondamente religiosa, che diede in altri tempi le più devote, le più affettuose, le più impagabili Mamme: tre, cinque, dieci volte mamme. In quelle, l'idea di limitare comunque il rinnovarsi della maternità, si univa all'idea paurosa del peccato che Dio non perdona: famiglia e religione costituivano il binomio essenziale della vita, da servirsi con bontà senza limiti, e con abnegazione senza rimpianti. La vita femminile, la psicologia femminile cedeva il posto, in esse, alla psicologia materna: era attiva ed operante in esse la persuasione che non si può essere ad un tempo buone Mamme e brillanti signore di società: che non si può nel contempo correre appresso ai mille grilli della civetteria femminile e svolgere con pieno senso di responsabilità la nobile e santa missione che la natura affida alla donna nella sua casa. E man mano che i figli crescevano di numero, questo senso della maternità si accresceva, senza rimpianti, e prendeva il posto che lasciavano le perdute lusinghe della vanità femminile: la mentalità della donna di cinquanta anni non era — come oggi ridicolmente è — la stessa mentalità della fanciulla quindicenne.

Questa moralità elementare si chiamava in gran parte religiosità, che crede e non discute: né poteva avere altro nome. E non basta: la donna del passato era anche fisicamente sana. L'adempiere la funzione della maternità non era ostacolato da alcuna deficienza fisica. Una adolescenza castigata e appartata, una giovinezza circondata di opportuni riguardi facevano sì che la donna giungesse al matrimonio perfettamente attrezzata per compiere tutto il suo dovere.

Le donne dell'oggi sono, prima di maturarsi in donne, maschiette: vale a dire gingilli che a quindici anni già giuocano un loro ruolo nella vita: per necessità spesso, siamo d'accordo: ma spesso anche perché nel determinare il peso delle vere necessità la Società moderna tende troppo a largheggiare.

Pittori iperbolici lanciano mode la cui attuazione costringe il corpo femminile a privazioni e costrizioni dure e dolorose: lo chic vuole donne piatte, magre, non troppo colorite (che è contadino) ma colorabili, dal corpo perpetuamente adolescente, tra i dieci e sessant'anni, senza gradazione. E in omaggio a questo arbitrio tirannico si limitano i pasti, si ingeriscono specialità perniciose, si praticano espedienti malvagi. Ognuno di noi conosce nd suo breve giro di conoscenze fiori di fanciulle avviate in breve alla tubercolosi o almeno a insanabili deperimenti organici, per aver voluto somigliare alle smidollate giraffe, che le case di grido han lanciato sul mercato della moda come mannequins non plus ultra. E non basta: la manìa di tutte è di parere. L'essere non conta più: dal palazzo alla topaia annerita, il genere giovane-femminile che esce è unico e standardizzato: sfoggio di truccature, di cosmetici, di capelli finti biondi o finti ricci, di occhi finti-larghi, di sopracciglie lineari e sottili: tutte a un modo, le giovani e le anziane e le vecchie come le prime.

Da un siffatto mondo femminile esce la donna di oggi. La donna che è, ricordiamolo, la casa. La donna che è la famiglia: perché della casa e della famiglia rappresenta il nucleo essenziale e rappresentativo, sempre in funzione e sempre presente: mentre il padre traffica e s'affanna tutto il giorno e non trascorre che rapidi e fuggevoli istanti presso il focolare.

Noi non diremmo che questa donna moderna sia la causa unica della denatalità: ma è certo che è una delle cause essenziali. Essa costa molto più delle sue antenate: ha fretta di vivere e quindi custodisce con molta poca gelosia i tesori della sua femminilità; rende l'uomo timoroso a compiere il passo di legarsi a lei per tutta la vita; è fisicamente spesso inadatta ad assolvere i doveri della maternità (balie, allattamenti artificiali, cameriere e via dicendo, disperazione dei ménages moderni) e nelle sue straordinarie esigenze costituisce un elemento di disordine e di disorientamento nelle famiglie.

Le quali buone famiglie non ricostituiremo finché non si tornerà al concetto che le quattro o cinquecento lire al mese che la donna indipendente, la donna che basta a sè stessa, la donna impiegata porta in casa, non riparano il danno che essa fa disertando la casa stessa: che saper bene amministrare la famiglia, sapere l'arte dell'economia domestica, saper rammendare una calza, cucire un abitino ai marmocchi, utilizzare l'utilizzabile, val più che non saper scrivere a macchina per guadagnare quattrini sonanti. E che in fondo il criterio della « donna economicamente indipendente di fronte al marito » è un criterio errato e pernicioso, se ciò si risolve nello scuotere quel principio di gerarchia che in ogni aggregato umano — e per primo nella famiglia — sta alla base di ogni sano e proficuo svolgimento di vita.

A conclusione: un paradosso anche questa volta? È guerra in pieno ai rossetti, ai belletti, alle sete, ai cappellini sgargianti, alle donne impiegate, commesse, dattilografe? No. Indietro non si torna. Ma esortazione alle famiglie che vigilino meglio e di più le loro adolescenti: ma freno da applicarsi, ovunque e comunque si possa, agli eccessi della follia femminile, e richiamo a concetti e a principi di ordine morale e spirituale — Ma memento continuo e instancabile alle nostre fanciulle e alle nostre donne — spose, sorelle e fidanzate nostre — che il nostro istinto di maschi, che si compiace del loro sfarfallio e della loro grazia esteriore, è cosa quanto altra mai volubile e spietata: e che nulla più ci lega e nulla più ci piace che la donna-madre, la donna impersonante plasticamente quel bisogno di intimità, di raccoglimento, di pace che è la conclusione fatale di ogni nostra battaglia e di ogni nostra fatica: colei che nella sua operante bontà ci rammenta l'indimenticabile volto della nostra mamma: e fa così del nostro passato e del nostro avvenire una sola e inscindibile cosa, ove i ricordi di ieri e le speranze di domani si incontrano e si fondono nel tepore di una sola e devota carezza.